MILANO, Agesilao

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 74 (2010)

MILANO, Agesilao

Paolo Posteraro

– Nacque a San Benedetto Ullano, uno dei numerosi centri italo-albanesi presso Cosenza, il 12 luglio 1830, da Benedetto, sarto, e da Maddalena Russo, piccola possidente. Sulle condizioni economiche della famiglia non c’è accordo tra gli storici, ma sembra accertato che non avesse grandi possibilità. Quando il M. era ancora molto giovane, il padre, affiliato alla carboneria, fu per un periodo in carcere a Castelvetere, l’odierna Caulonia.

Il M. compì i primi studi, appassionandosi alle lettere e in particolar modo a V. Alfieri, nel collegio del suo paese, la scuola pia, retta da suo zio Domenico, sacerdote. Successivamente passò al collegio di San Demetrio Corone, dove si formarono alcune delle più illustri figure del Risorgimento meridionale, e dal quale egli uscì a 18 anni. L’anno prima aveva composto un’ode dedicata alle gesta del patriota albanese Marco Botzaris, eroe dell’indipendenza greca (L’ultima sorpresa che Bozzari fa ai Turchi e sua morte, pubblicata postuma da F. Lattari). Insieme con molti altri studenti del collegio, tra cui Domenico Mauro, nel 1848 il M. partecipò ai moti insurrezionali combattendo a Spezzano Albanese e a Campotenese. Condannato durante la repressione seguita alla rivolta, nel 1852, dopo aver trascorso in carcere circa due anni fu amnistiato ma rimase comunque iscritto fra gli «attendibili». Nello stesso periodo ebbe una crisi religiosa e, anche per combattere le ristrettezze economiche, pensò di entrare nell’Ordine dei domenicani. Sempre nel 1852, in occasione di una visita del re Ferdinando II di Borbone a Cosenza, fu accusato di cospirare contro il governo, ma uscì indenne dal processo.

Costretto a lasciare il paese natio perché sospettato di aver avuto una relazione con la moglie di un suo cugino detenuto politico, il M. si trasferì a Cosenza alloggiando nella locanda della sorella e lavorando come scrivano presso il fornitore delle carceri, C. De Angelis. Al romanziere N. Misasi, nipote del suo datore di lavoro, la madre descrisse il M. come un giovane «quasi sempre triste e taciturno […] scrupolosamente onesto» (N. Misasi, A. M., in Il Compendio [Roma] VI (1923), 5, pp. 106-110).

Nel 1856 chiese di sostituire il fratello Ambrogio, sorteggiato nella leva di quell’anno. Con tutta probabilità, e secondo quanto da lui stesso confessato sotto tortura, partì per Napoli con il preciso intento di uccidere Ferdinando II, il quale, dopo avervi giurato fedeltà, aveva tradito la Costituzione del 1848. Grazie ad alcune lettere di presentazione, tra cui una del sindaco di Cosenza, e a un po’ di fortuna, riuscì, nonostante il suo passato, a farsi assegnare al III battaglione cacciatori di stanza a Napoli, cui spesso capitava di trovarsi vicino al sovrano.

Giunto nella capitale, vi trovò un ambiente molto diverso da quello in cui era vissuto; incontrò alcuni suoi compagni di collegio ed entrò in contatto con liberali, cospiratori e mazziniani che, come lui, puntavano ad abbattere il regime ma che, messi al corrente dei suoi propositi, lo sconsigliarono vivamente. Il M. però non desistette. La grande occasione arrivò per lui l’8 dic. 1856, con l’ordine di sfilare col suo battaglione a Capodichino davanti al re a cavallo.

A metà della parata il M. uscì dai ranghi e si avventò sul sovrano ma fu costretto a usare l’arma bianca, in quanto non era riuscito a recuperare dalla giberna la cartuccia nascosta per l’occasione. La fondina della pistola difese Ferdinando II, che se la cavò con una ferita non grave. Il M. era pronto per lanciarsi in un secondo attacco, quando, dalla folla ammutolita, arrivò un ufficiale della guardia reale a cavallo, il generale F. de La Tour, che lo scaraventò a terra. Tutti temettero che il M. avesse avvelenato la punta della baionetta, ma lui stesso rispose che, purtroppo, non ci aveva pensato. Il re, colpito al fianco, dominò ogni emozione e fece proseguire, come se niente fosse, la sfilata.

Il M. fu naturalmente subito arrestato e fu rinchiuso a Castel Capuano, dove gli fece visita il generale D. Lecca, che invano gli propose, in cambio della salvezza, di rivelare i nomi dei suoi complici. Il processo per direttissima fu celebrato tre giorni dopo l’attentato. Il M., fiero e dignitoso, smentì la linea di difesa del suo legale, che aveva tentato di sostenere l’infermità mentale, e pregò i suoi giudici di far giungere al re l’invito a visitare la Calabria, per constatare le condizioni in cui erano costretti a vivere i suoi conterranei. Fu condannato all’impiccagione, previa degradazione e con il «quarto grado di pubblico esempio».

Alle sei del mattino del 13 dic. 1856 il M. salì sulla forca, col viso coperto da un velo nero, scortato da 50 uomini, recando sul petto un cartello con la scritta «uomo empio». Avrebbe voluto parlare, ma un rullo di tamburi glielo impedì. Appena ne fu constatata la morte, molte chiese suonarono le campane a festa.

La notte prima di essere giustiziato scrisse una memoria difensiva (Difesa di Agesilao Milano scritta da lui medesimo la notte che fu l’ultima di sua vita, pubblicata per cura di I.S.D.L., diligentemente corretta e riveduta dal barone V. C., s.l. né d.) dicendosi tuttavia certo che non sarebbe servita a migliorare la propria situazione. Era convinto fosse più che lecito uccidere un re che, sostenuto dalla Chiesa e «calpestando ogni legge divina ed umana, di Dio si fa impunemente beffe, degli uomini e della natura» (p. 8). Era ben conscio che non avrebbe ucciso la tirannide, ma solo un tiranno: tuttavia a spingerlo ad agire, sicuro di andare incontro alla pena capitale, erano stati «l’amor di giustizia [ed il desiderio di] dare l’esempio» colpendo il traditore della Costituzione del 1848. Non v’è concordia tra gli storici sulla natura dell’azione del M., ovvero se abbia agito da solo o d’accordo con altri cospiratori; le vicende della sua vita, però, inducono a propendere per la prima ipotesi.

Disperato e romantico, il M. fu soprattutto un uomo d’azione, ma non disdegnò le lettere: nei pochi giorni che trascorse a Napoli fu un assiduo frequentatore della Biblioteca Borbonica e scrisse qualche componimento in versi. Il professor C. Avena ricordò che «poco tempo prima dell’attentato, un giovane smilzo e nobilissimo nella persona, con sguardo penetrante e piccolissimi baffi, sedette due volte accanto a me nella sala di lettura […] leggeva un volume latino e vestiva l’uniforme» (cit. in Rosi, p. 588). Anche la sua memoria difensiva, del resto, rivela in lui una cultura non superficiale.

Nel 1860 G. Garibaldi, dittatore a Napoli, lo definì eroe e martire e assegnò una pensione alla madre e ai fratelli che dopo l’attentato erano stati duramente perseguitati. Tuttavia, il governo del Regno d’Italia non rispettò tale disposizione.

Fonti e Bibl.: La Civiltà cattolica, vol. V, 1857, quad. 1, pp. 113-140; P. Villani, A. M. o il martire di Cosenza, Napoli s.d.; F. Venosta, Carlo Pisacane, A. M., ed altre vittime napoletane: notizie storiche, Milano 1864; G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, Trieste 1868, I, pp. 426-428; N. Nisco, Gli ultimi trentasei anni del Reame di Napoli, II, Roma 1889, pp. 442-450; F. Bugliari, A. M., in Chiarezza (Cosenza), III (1957), 3, p. 3; R. De Cesare, La fine di un Regno, Milano 1970, ad ind.; H. Acton, Gli ultimi Borboni di Napoli, Firenze 1999, pp. 3, 404-408, 412, 421, 436, 451, 570; G. Campolieti, Il re Bomba: Ferdinando II, il Borbone di Napoli che per primo lottò contro l’Unità d’Italia, Milano 2001, pp. 165, 396-398, 429; Diz. del Risorgimento nazionale, III, s.v. (G.M. De Stefano); Enc. biografica e bibliografica «Italiana», F. Ercole, I martiri, s.v.; L. Aliquò Lenzi - F. Aliquò Taverriti, Gli scrittori calabresi. Dizionario bio-bibliografico, II, sub voce.

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