BARBARIGO, Agostino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 6 (1964)

BARBARIGO, Agostino

Franco Gaeta

Nacque nel 1419 da Francesco e da Cassandra Morosini e si sposò con Isabetta Soranzo, dalla quale ebbe cinque figli. La sua vita si svolse in uno dei periodi cruciali della storia veneziana, che lo ebbe a protagonista di alcuni degli avvenimenti capitali della cosiddetta politica di terraferma, dei quali la stessa storiografia e cronachistica veneziana pare addossargli una parte di gravosa responsabilità. Indubbiamente il B., assieme a Francesco Foscari e a Tommaso Mocenigo, è il personaggio di maggior rilievo del mondo politico veneziano del secondo Quattrocento, e uno di quelli sui quali il riserbo delle fonti è meno ermetico. La sua personalità è abbastanza diffusamente tratteggiata al di là delle linee normalmente convenzionali, sicché è dato individuarla con sufficiente chiarezza, oltre il velo dell'anonimato che spesso ancora circonda l'azione dei supremi reggitori della Repubblica veneziana.

Fu podestà a Verona nel 1478 e a Padova nel 1482, durante il dogato di Giovanni Mocenigo; mentre reggeva la podesteria padovana gli morì l'unico figliuolo maschio, Francesco. Ebbe parte di notevole rilievo nella guerra di Ferrara, assolvendo missioni presso il luogotenente generale veneto in Polesine, della quale terra fu poi nominato provveditore, e ricoprendo la carica di provveditore in campo contro Sisto IVI presso Roberto di Sanseverino, capitano generale della Repubblica.

Già in questa prima fase della sua vita pubblica poté acquisire una vasta esperienza politica e militare e seguire da vicino i più immediati problemi della politica estera veneziana, che gli si sarebbero riproposti con drammatica urgenza negli anni del suo dogato, i più tumultuosi della storia veneziana del sec. XV.

L'anno dopo la conclusione della guerra di Ferrara (pace di Bagnolo del 7 ag. 1484), allorché il fratello Marco fu eletto doge, il B. divenne procuratore di S. Marco e il 30 ag. 1486 venne creato doge dopo una contrastata elezione che lo vide opposto a Bernardo Giustinian. Al dogato il B. perveniva dopo esser stato fiero oppositore del fratello col quale aveva avuto violenti scontri, tanto che si disse che la morte di Marco fosse avvenuta in seguito a uno dei clamorosi diverbi avuti con lui; il periodo in cui egli resse la Repubblica fu contrassegnato da una molteplice e spesso convulsa attività militare e politica, la quale, rompendo alla fine la calma instaurata dalla pace di Lodi, portò a una nuova impostazione del problema dell'equwbrio italiano nei termini più vasti d'un condizionamento europeo, che impose a Venezia un nuovo corso politíco, del quale il B. fu l'acuto fautore e che trovò nella sua dinamica personalità un interprete pronto e capace.

Già all'inizio del dogato si presentò il grave conflitto con Sigismondo d'Austria per i confini nel Trentino, dove la Repubblica, possedendo Riva, Torbole e Rovereto, sembrava minacciare la via del Brennero. La guerra, conclusa nel 1487, non risolse il problema, giacché i contendenti rimasero entrambi sulle posizioni di partenza; tuttavia il mancato successo alla frontiera nord-occidentale fu compensato, nel 1489, dall'acquisto di Cipro, avuta da Caterina Comer, e di Cefalonia.

La calata di Carlo VIII in Italia, qualche anno appresso, poneva a Venezia problemi di eccezionale gravità e il B. li affrontò con oculatezza, anche se la tattica veneziana in questa occasione non potè fare a meno di guadagnare taccia d'ambíguità e meritare l'accusa di egoistico espansionismo mirante alla "monarchia d'Italia". La neutralità osservata al momento della discesa del re, e per altro giustificata in parte dagli accordi francoimperiali di Senlis (1493), che davano mano libera a Massimiliano contro Venezia, fu corretta auorché, per iniziativa imperiale, si prospettò la possibilità d'una lega antifrancese, che, conclusasi il 10 apr. 1495 tra Venezia, il pontefice, l'imperatore, la Spagna e Milano, fruttò al B. la rosa d'oro in riconoscimento della sua azione a favore d'una iniziativa che ascriveva a suo scopo la restituzione all'Italia della pace spezzata dall'invasione francese. Il sostanziale successo che coronò l'opera della lega a Fornovo consentì, tra l'altro, l'occupazione a titolo di pegno dei porti pugliesi di Monopoli, Polignano, Trani, Brindisi, Otranto e Gallipoli; ma gli strascichi dell'impresa francese coinvolsero Venezia nella guerra di Pisa, la quale fu il vero e clamoroso insuccesso di tutta la carriera politica del Barbarigo. L'intervento a favore della città assediata dai Fiorentini fu rivolto soprattutto a tener impegnata Firenze per poter più agevolmente operare nelle Romagne, ma, nello stesso tempo, rappresentò una forte emorragia di forze e di denaro e un grave scacco politico, che, assieme al fallimento dell'appoggio concesso a Piero de' Medici nei suoi tentativi per rientrare a Firenze, ebbe per risultato l'isolamento di Venezia e per conseguenza l'accettazione del lodo arbitrale di Ercole d'Este, che, assegnando Pisa ai Fiorentini, vanificava tre anni di lotta inutilmente dispendiosa.

Quantunque aspramente censurata da contemporanei e da posteri, resta invece felice iniziativa l'aheanza di Blois (1499) con Luigi XII, la quale mostrava come i responsabili della politica veneziana, e alla loro testa il B., cogliessero appieno la portata degli avvenimenti e comprendessero i termini concreti nei quali si ponevano i problemi italiani.

Sotto questo aspetto, come Francesco Foscari aveva riassunto nella sua figura la svolta che aveva condotto Venezia dalla politica di retroterra, iniziata alla morte di Gian Galeazzo Visconti, alla politica "italiana" di terraferma, il B. riassunse in sé il senso di un successivo sviluppo della politica estera veneziana, che, da italiana, era costretta a divenire europea. Tale politica ebbe per scopo un'azione di contenimento nei confronti delle aspirazioni francesi e di difesa nei confronti delle irrequiete pretese dell'imperatore Massimiliano e fu concepita non già come una Tera limitazione da doversi porre all'espansionismo di Francia, ma come attivo inserimento nella situazione generale per realizzare contemporaneamente l'allargamento dello stato di Terraferma verso occidente e aprirsi così la strada a un'azione di più ampio respiro peninsulare. La politica del B. nasceva dall'aver compreso che la funzione della Lega italica era irrimediabilmente esaurita: conseguentemente operò per trarre i maggiori van!aggi possibili da una situazione che Venezia non avrebbe potuto modificare anche se avesse agito diversamente; non sembrano perciò meritate le contemporanee e postume censure per avere aperto ai Francesi la via d'Italia.

L'annessione di Cremona e della Ghiaradadda, che coronò la campagna del 1499, assicurò a Venezia il confine occidentale su una linea naturale, mentre vennero eluse le pressanti richieste pontificie concementi il confine meridionale (Pesaro, Rimini e Faenza). Alle insistenze della diplomazia di Alessandro VI, e specialmente del nunzio Angelo Leonini (un temperamento anch'esso irruente), il B. e il Senato opposero costantemente la necessaria priorità dell'azione contro il Turco, che, dopo un fallito tentativo di sbarco nelle Marche, aveva battuto i Veneziani presso l'isola di Sapienza, saccheggiato il Friuli tra Isonzo e Livenza - malamente contrastato da Antonio Grimani e Andrea Zancani - e infine occupato Modone, Corone e Navarino.

Qualora si tengano presenti, oltre a questi fatti, l'aggregazione del Dominio di Asola, Peschiera e Lonato, strappate al marchese di Mantova Gian Francesco II Gonzaga, e le richieste (non soddisfatte) avanzate al momento della stipulazione dell'alleanza francese, Iniranti all'attribuzione di Cassano, Lodi e Pizzighettone, si può chiaramente valutare l'ampiezza del piano politico perseguito, forse un po, tortuosamente, dal B.: piano, che, Inirando abbastanza scopertamente all'acquisizione d'una egemonia italiana, poteva aprire la via a più ambiziose prospettive e che, comunque, per la stessa struttura del dominio veneziano, condusse ad una più salda resistenza delle forze locali e quindi alla coalizione di Cambrai, nella quale doveva avere parte importante la diplomazia gonzaghesca.

Gli ultimi anni della vita del B. furono amareggiati da avvenimenti sfavorevoli: il fallimento dell'intervento in Toscan, l'avanzata turca in Levante, il trattato franco-spagnolo di Granada. Ormai malfermo in salute, egli intendeva rinunziare al dogato, ma ciò non gli fu consentito. Morì il 20 sett. 150i e gli succedette, raccogliendone l'impegnativa eredità, Leonardo Loredan.

La memoria del B. fu tratteggiata a scuri colori dagli storici e cronisti veneziani. Il Priuli scrisse ch'egli "a cadauno era venuto in fastidio... et moriva cum cativa fama, maxime de avaritia" e Marin Sanuto rincarò la dose affermando che "sotto questo Doge Venetia fu in grandi fastidj" e che "morite con malla fama, che, da missier Christofal Moro in qua, niun doxe taliter è morto. Che era una meraveja a udir le maledition ognun li dava per la superbia, rapacità, tenacità, avaritia era in lui". Al giudizio negativo contribuì certo, oltre agli importanti avvenimenti, non sempre, come s'è visto, felicemente presentatisi, il temperamento del Barbarigo. Imperioso di modi e intransigente nei confronti degli oppositori, egli fu altresì incolpato di aver tollerato e promosso favoritismi e, dopo la morte, fu accusato di contrabbando, di corruzione, di mancato pagamento di debiti, oltreché di aver praticato attività speculative anche nei commerci al minuto, approfittando della sua preminente posizione. Si disse che si faceva baciare la mano (cosa affatto insueta nel costume dogale), che accettava in gran copia donativi e che esigeva l'appannaggio in ducati di zecca e non in moneta corrente. Tutta una serie di accuse che dovettero avere non debole fondamento se i Correttori alla Promissione Dogale, dopo la sua morte, ebbero mandato di "mettere tal freno al Doxe, ch'el non se fazi omnipotente come feva missier Augustin Barbarigo" e se, proprio allora, furono creati gli Inquisitori sopra il Doge defunto, i quali condannarono gli eredi al pagamento di 7600 ducati. Sintomatiche sono inoltre le affermazioni d'una sua Vita di anonimo autore, che è riportata nei Diarii del Sanuto e che lo contrappone al fratello Marco: "promptus ad iram, in reconciliando tardus et acer, cupidus, avarus, superbiaque tumidus ac nimis sibi arrogans et denique pauperati inclemens,... populis fere omnibus obnoxius, cum nec multum ubertati neque quieti reipublicae animum intenderet ... mortem sibi fere ab omnibus affectabatur". La stessa Vita non omette, tuttavia, di ricordare i suoi meriti e principalmente l'acquisto di Cipro.

Fonti e Bibl.: Lettera a lui diretta dagli Anziani di Bologna sulla morte di Marco Zoppo, sulla sua famiglia, sulle questioni tra gli eredi, in L'Archigìnnasio, XX (1925), pp. 129, 131 S.; D. Malipiero, Annali Veneti, a cura di T. Gar, in Arch. stor. ital., VII (1843), pp. 676 ss.; G. Priuli, Diarii,in Rer. Italic. Script.,2 ediz., XXIV, 3, a cura di A. Segre, p. 176; M. Sanuto, Vitae Ducum Venetorum, in L. A. Muratori, Rerum Italicarum Script., XXII, Mediolani 1733, Coll. 1239-1252; Id., Diarii, I, Venezia 1879, ad Indicem (coll.1160-1161); II, ibid. 1879, ad Indicem (col.1452); III, ibid. 1880, ad Indicem (Coll. 1730-1731); IV, ibid. 1880, ad Indicem (col.953); VI, ibid. 1881, Coll. 231; VIII, ibid. 1882, Coll. 129; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, IV, Venezia 1824, p. 495; F. Nani Mocenigo, Testamento del doge A. B., in Nuovo arch. veneto, n. s., XXXIII (1909), pp. 234-261; M. Brunetti, Due dogi sotto inchiesta: A. B. e Leonardo Loredan, in Arch. veneto tridentino, VII (1925), pp. 278-329; Encicl. Ital., VI, p. 131.

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