COLTELLINI, Agostino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

COLTELLINI, Agostino

Martino Capucci

Nacque a Firenze il 17 apr. 1613, figlio unico di Francesco, mercante di origini bolognesi morto il 28 giugno 1631, e di Lisabetta, figlia del pittore Taddeo Curradi.

Fece i primi studi sotto i padri di S. Domenico sino al 1628; frequentò poi accademie e uomini di cultura come G. B. Strozzi e Benedetto Buonmattei, che su di lui esercitarono molta influenza; infine, dal 1634, seguì a Pisa studi di legge conseguendo la laurea in diritto civile e canonico il 6 ott. 1638. Dopo la laurea tornò a Firenze, dove, tranne un viaggio a Roma nel 1673, restò sino alla morte esercitandovi l'avvocatura. Risale all'Aprosio la notizia, più volte ripresa da altre fonti ma priva di fondamento, che dopo la morte dell'Allacci (1669) il C. avesse la carica di primo custode della Vaticana. In qualità di avvocato fu al servizio dei cardinali Giovan Carlo e Carlo de' Medici, rispettivamente dal 10 ag. 1653 e dal 12 sett. 1665: legato com'era ai Medici e ai gesuiti, dal 1639 0 '40 fu prima consultore, poi censore del S. Uffizio e in questo incarico durato oltre quarant'anni mostrò una notevole apertura d'idee. Sostenne con chiarezza la liceità morale dello studio scientifico di argomenti che il costume corrente considerava riprovevoli. Vero è che diceva tali cose in un contesto autoapologetico, a difesa delle proprie Instituzioni dell'anatomia (1651), ma siffatte opinioni sono poi convalidate dagli atteggiamenti pubblici del C., dai suoi collegamenti con una cultura ricca di spiriti scientifici e variamente impegnata a difendere l'esame razionale e dalla estimazione non del tutto convenzionale per la figura e l'opera di Galileo, maestro di quella. "sensata filosofia" nella quale il C. mentalmente si riconosceva anche se non si potrebbe dire che vi contribuisse di fatto.

I legami con l'ambiente ecclesiastico e la costante dedizione ai Medici (non esente, sul terreno letterario, dall'esercizio dell'adulazione) non impedirono dunque al C., nella sua attività pubblica, una indipendenza di giudizio e una sensibilità degne di nota. Un suo Parere, per provvedere al disordine che segue nel Magistrato degli Otto, del 10 genn. 1650, dato come auditore e conservato manoscritto nell'Archivio di Stato di Firenze (M. M., F 26, ins. 5), è stato giudicato una coraggiosa e drammatica testimonianza sulla prassi arbitraria del diritto penale toscano (F. Diaz, Il Granducato di Toscana. I Medici, Torino 1976, pp. 416 s.). Vari materiali interessanti il C. sono nell'Archivio di Stato di Firenze, spesso utilizzati dal Benvenuti: appunti nelle Carte Dei, Fam. Coltellini, nel Consiglio de' Duecento, filza 28, c. 201; nelle Compagnie soppresse, t. I, n. 196 (per le carte lasciate ai teatini). Un Particolo di testamento che dispone a favore dell'Accademia degli Apatisti è a Firenze, Bibl. naz., IX, 50, 7. Di nessuna importanza invece sono le brevi notizie sul C.. nel. ms. 406 (440), n. 38, della Bibl. universitaria di Bologna.

Più degli studi regolari interessano le relazioni personali e accademiche. In una lettera di autopresentazione Gilles Ménage del 16 ott. 1659 (in Mescolanze d'Egidio Menagio, Rotterdamo 1692, pp. 154-57; dove si leggono anche, pp. 187-90, due responsive del Ménage al C., 1° giugno e 5 ag. 1660) esibiva meriti accademici piuttosto che interessi culturali. Fu socio dell'Accademia degli Infiammati (1628); della Crusca (1650), dove però non conseguì posizioni di rilievo, neppure nella preparazione del Vocabolario; dell'Accademia Fiorentina (1659), della quale fu console per quattro volte, per gli anni 1660, 1664-68, 1671-72, 1677, e per la quale tradusse il testamento e due lettere di s. Gregorio Nazianzeno (Firenze 1677; rist. a Vercelli nel 1777 e in A. Caro, Opere, VII, Milano 1812, pp. 165-95). Il 5 ott. 1691 veniva ascritto all'Arcadia col nome di Alcino Tipaniese.

Il maggiore e più diretto impegno accademico fu per l'Accademia degli Apatisti da lui fondata nel 1632 e accolta nella sua casa, dapprima col programma modesto di una "conversazione virtuosa" di giovani appena usciti dalle scuole: finalità pedagogica che non venne meno neppure quando, nel '35, la conversazione divenne "università di letterati" (tra i quali Antonio Malatesti e Benedetto Buonmattei) che leggevano e discutevano Dante, Boccaccio e soprattutto Orazio e il Petrarca dei Trionfi, e nel '37, infine, quando, con l'adesione di Benedetto Fioretti, assunse propriamente il nome degli Apatisti, col quale si voleva dichiarare la ricerca di un giudizio spassionato (ampie notizie in M. Maylender, Storia delle Accad. d'Italia, I, Bologna 1926, pp. 219-26).

L'adesione ai modelli della cultura galileiana fu una componente rilevante dell'accademia e ispirò l'attività di vari membri, come, ad esempio, Alessandro Marchetti, che vi tenne alcune lezioni, e Benedetto Averani. Apatisti furono anche G. Ménage, L. Adimari, C. R. Dati, B. Menzini, F. Cionacci, G. B. Fagiuoli; nel 1638 l'accademia accolse Milton di passaggio a Firenze (P. Rebora, Milton a Firenze, in Il Sei-Settecento, Firenze 1956, pp. 249-270) e il poeta inglese ricordò poi affettuosamente il C. con altri letterati fiorentini nella Pro Populo Anglicano Defensio secunda, Londini 1654, p. 84.

Apprezzamento per il C. ebbero anche Nicolaas Heinsius e Daniel van Papenbroeck: va qui rilevata per inciso la buona conoscenza delle lingue, antiche e moderne, nonché l'approntamento di manuali e dizionari come il Discorso dell'origine, uso, progressi... del Mercurio bilingue, Firenze 1672, e la Giunta al predetto Mercurio (latino e italiano), fortunato manuale per lo studio del latino (Firenze 1676). Il C. promosse altresì l'Indice e vocabolario latino-tedesco et aggiuntovi l'italiano da C. P. Edlinger (1672: Firenze, Bibl. naz., Magliab. I, 68); curò la ristampa di B. Ambrogi, Chiave della toscana pronuncia, Firenze 1674; fece aggiunte ai Proginnasmi di B. Fioretti, Firenze 1661.

L'attività letteraria del C. è catalogabile tutta sotto la rubrica dell'accademismo, che non tanto va inteso come sinonimo di pedanteria quanto come disposizione pronta e superficiale a occuparsi degli argomenti più diversi, trascorrendo dai temi gravi e oratori a quelli leggeri, burleschi e talora scabrosi: anche per questo, e non solo per la cagionevole salute, non gli riuscì mai di affrontare un'opera complessa e organica. L'elenco delle sue opere registra decine di titoli (copiose informazioni, non sempre corrette, sono nelle opere del Negri, pp. 3-5, del Carini, pp. 411 s., e soprattutto nella particolareggiata anche se criticamente ingenua monografia del Benvenuti), ma si tratta quasi sempre di tenui opuscoli legati per lo più a circostanze occasionali e di poco peso.

La più chiara e costante dichiarazione di poetica è l'aperta avversione al metaforismo, considerato veicolo di menzogna: giudizio da collegare con i caratteri dominanti della cultura toscana del tempo senza che si debba pensare, come erroneamente fa il Benvenuti, a una primogenitura antimarinistica che la cronologia non consente. Si aggiunga: che il C. era poco interessato alla discussione sulla letteratura contemporanea e il suo gusto era volto piuttosto ai grandi trecentisti. La presenza di Dante, talora in forme parodistiche, si avverte spesso nelle pagine del C.: tutti gli Apatisti, del resto, ebbero un particolare interesse per il poeta (G. Tavani, Dante nel Seicento, Firenze 1976, pp. 52 ss.). Nel 1638 pubblicò a Firenze il Giudizio divino disteso in cento quartine. Più significativo è il poemetto didascalico in terzine delle Instituzioni dell'anatomia del corpo umano (Firenze 1651) dove il C. conduce una perlustrazione che si direbbe microscopica del corpo umano, con esiti talvolta grotteschi (un esemplare dell'opera nella Bibl. Riccardiana di Firenze, VV 18.676, reca allegato un fascicoletto manoscritto con opinioni in difesa del Coltellini). L'operetta è però un calco dalla Anatomia reformata, del danese Thomas Bartholin, come provano studi di Andrea Cristiani in corso di pubblicazione. Le varie curiosità scientifiche del C. sono anche documentate dall'edizione di L. Rectorius, De lapidis renum ac vesicae affectus curatione (Firenze 1666) e di G. Gelli, Trattato de' tumori (Firenze 1667).

Tra gli scrittori moderni prediligeva Berni, Testi, Taisoni, e le sue relazioni intellettuali furono per lo più con poeti di orientamento chiabreresco e testiano (G. B. Strozzi, F. Rovai, P. de' Bardi, R. Bertini, A. Salvadori). Fu in rapporto inoltre con A. M. Salvini, col Redi, il Viviani, il Magalotti, il Dati, l'Aprosio; cinque lettere a Francesco Ridolfi (tre del 1666, due del 1679) sono nella Bibl. Riccardiana, Raccolta Frullani, Autogr., nn. 385-89; una lettera ad A. Sperelli vescovo di Gubbio (18 dic. 1665) è nella Bibl. Oliveriana di Pesaro, ms. 1654, c. 279; altre ancora sono nella Bibl. naz. di Firenze: una a Leopoldo de' Medici, 19 genn. 1649 (Lett. aut. III, 145), una a Lorenzo Libri, 24 mag. 1670 (Tordi 542, 96), quattro, tra il '70 e l' '80, ad A. Magliabechi (Magl. VIII, 3386 4 e 1157¹ 9 - ² ¹), che gli fu ostile, come, e più, gli fu ostile G. Cinelli Calvoli (per il quale una buona documentaz. è in P. Gagliardi, Vita di G. Cinelli, Rovereto 1736, pp. 105-11).

Nello studio del mondo fiorentino sono da tener in conto quegli atteggiamenti e gusti scapigliati e burloni che avevano nel Berni un modello letterario e nel Redi un maestro mentale. La poesia burlesca del tempo ha certo vistosi limiti di corriva superficialità, ma va considerata anche come testimonianza di una cultura che non coltivava i giochi ambigui della tetraggine e conservava qualche legame, sia pure a basso livello, con una luminosa tradizione di razionalità. Il C. partecipò attivamente alla vita delle "veglie" fiorentine (lo ricordano con simpatia il Redi, lettera a C. R. Dati del 22 marzo 1650, in Scelta di lettere, Parma 1840, p. 4; e L. Lippi, Malmantile, III, 28) e contribuì alla ricca produzione giocosa locale con vari scritti, di rilievo generalmente modesto, pubblicati, come altre operette, sotto il nome di Ostilio Contalgeni (era norma tra gli Apatisti che gli accademici si dessero un nome anagrammatico). Il mondo fiorentino appare anche, in un quadro di teatro gesuitico ma con frequenti spunti satirici, nella commedia Il figliuol prodigo, inedita nel cod. Magl. VII, 147 della Bibl. nazionale di Firenze. Le Rime piacevoli (Firenze 160, e di nuovo nel 1652) offrono una piccola summa delle convenzioni giocose: temi di assoluta gratuità, ricorso frequente al doppio senso salace, allusioni a persone, istituzioni ed episodi contemporanei, motti di spirito e una scioltezza briosa, che tuttavia non può surrogare la pesante dipendenza dagli esempi maggiori che il genere aveva dato nel secolo precedente, dal Berni al Lasca al Firenzuola. La povertà qualitativa di questo contributo riesce evidente ne Il vecchio preferito (Firenze 1652; ristamp. in "Bibliotechina Grassoccia" [a cura di F. Orlando - G. Baccini], Firenze 1887, fasc. 4, pp. 73-95), insipida tiritera di una vecchia che si appresta a quarte nozze, e nella Cicalata sopra il sonetto di F. Berni"Chiome d'argento fine irte e attorte" (Firenze 1651; poi nella Raccolta di prose fiorentine, parte III, vol. II, Firenze 1741, pp. 47-61). La cicalata muove da una interessante dichiarazione polemica contro l'usanza del secolo di metter tutto "in filosofia", che sembra promettere qualche estro irriverente e ludico; ma quanto c'è di forza comica, con implicazioni di polemica letteraria non irrilevanti, è tutto nel sonetto berniano e il testo del C. altro non è che un'inutile superfetazione a cui manca la capacità stessa di sviluppare le variazioni proposte dal testo base.

Nel gusto giocoso rientrano gli esercizi di enigmistica sull'esempio del Malatesti (Enimmi e Mantissa Fidenziana, Firenze 1669) e la satira antipedantesca degli Endecasillabi Fidenziani (Firenze 1641, poi nel 1652 con aggiunte), modellata sull'esempio canonico dello Scroffa, che vien seguito fedelmente con frequenti imprestiti diretti (due sonetti sono accolti in Le più belle pagine dei poeti burleschi del Seicento a cura di E. Allodoli, Milano 1925, pp. 209 s.). Il C. è padrone di questa tecnica arcaicizzante e latinizzante ed ebbe successo, ma per la satira dei pedanti sarebbe stata necessaria una forza di risentimento morale e una fede in valori nuovi che egli non possedeva, talché non si esce mai da un sentore di letteratura provinciale e goffa, che riesce di fatto pedantesca quanto più intende satireggiare i difetti dei letterati. Un testo più vivace sono le lettere attribuite a un grammatico verboso e tronfio al quale si presta un latino macaronico non privo di una sua forza grottesca (Gufonis de Gufonibus Epistolarum semicenturia prima, Florentiae, 1668).

Non mancava dunque del tutto al C. la capacità di rappresentare dei caratteri, ma più nell'esterna caricatura che nello spessore interno. In certe aggiunte a un'operetta di B. Fioretti (Osservazioni di creanze, Firenze, imprimatur del 1675, pp. 121-145) alcuni "caratteri" sono disegnati con garbo e con qualche arguto tratto macchiettistico, come per i sollecitatori del saluto ad ogni costo, gli intolleranti, i laudatori sperticati, i visitatori degli infermi che vi vanno "con i cataloghi di quanti ne sono morti fin nel contado".

Molto largo il contributo del C. all'oratoria sacra, prosastica e poetica, secondo l'ideale di quella chiara e monotona semplicità che poi il Segneri avrebbe portato a più alti livelli: appunto al C. il Segneri richiese un esame preventivo del Quaresimale ottenendone entusiastica approvazione (G. Ferretti, F. Redi e il p. P. Segneri in Giorn. storico della lett. ital., LV [1910], p. 102). Si tratta di un'oratoria costruita con chiarezza ma convenzionale e incline ai toni svenevoli, anche se l'autore fu sensibile - ma più nelle dichiarazioni che nei fatti - alle esigenze di una "pietà erudita" che applicasse criteri filologici e scientifici allo studio della tradizione religiosa. Negli scritti devoti tale principio si determina come programmatica distinzione dalla "Musa profana" e come volontà di evitare le "fole vane" di "menzogne artifiziose ornate" (Il miracolo del SS. Sacramento, in Rime sacre, p. 13). Il Rosario (Firenze 1641) è un poemetto sulla vita e la morte di Cristo, tripartito in misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi: i momenti capitali della liturgia cattolica vi trovano un'agile disposizione descrittivo-narrativa dove è percepibile, nel pathos oratorio, il ricordo del Tasso, ma non tanto che il C. non riesca a conseguire una sciolta efficacia (l'apprezzamento per quest'opera è testimoniato in due lettere del cardinale Bentivoglio, in M. Giustiniani, Lettere memorabili, II, Roma 1669, pp. 396 s.). Giudizio non dissimile può farsi di molte altre operette parenetiche (Il conforto dei penitenti; Il mutolo che favella; Ilfuriere del Messia; L'Eterno che principia o l'incarnazione del Verbo; La caduta gloriosa; La bell'aurora o la natività della Vergine; Il gran cimento dell'uomo; La porta della salute; Cantico della Passione del Signore; Parafrasi della Sequenza Lauda Sion, ecc.), delle quali venti furono raccolte nei Discorsi sacri, Firenze 1654, e diciassette negli Esercizi spirituali, Firenze 1661, poi 1684. Anche l'Ars salutis sive Institutio perfecte vivendi (Firenze 1665; Colonia 1667; ci è rimasta ignota una stampa del 1649 citata dal Melzi, I, p. 89; l'operetta è anche tradotta, negli Esercizi spirituali, 1684, pp. 1-64) è lavoro devoto: vi si indica la via della salvezza nelle tre pratiche della purità di coscienza, della pura intenzione e della conformità tra volontà umana e divina.

Quasi tutti gli opuscoli religiosi, sempre pubblicati a Firenze, apparvero nel giro di tre o quattro anni, tra il 1651 e il 1654; circostanza che parrebbe non casuale, fors'anche ascrivibile alla volontà di bilanciare con buona soma di devozione la più libera produzione profana. Nelle Rime sacre dedicate ad Adelaide di Savoia moglie di Ferdinando di Wittelsbach (Firenze 1667), sono raccolti testi di vari tempi, dedicati a Clemente IX, a Cristina di Svezia, a letterati come il Nomi e a numerosi religiosi. La finalità devota è intesa con larga estensione: il volumetto accoglie anche rime necrologiche, per nozze e per monacazione, una canzonetta al Redi sulla Vanità del mondo e un sonetto sul Secol guasto che non aggiungono nulla a uno dei temi più intensi della poesia secentesca. A queste rime soprattutto sono affidate le lodi per la Compagnia di Gesù. Alle Rime varie dedicate all'imperatore Leopoldo (Firenze 1673) è invece affidata la ricerca del canto solenne e del verso eroico di matrice chiabreriana, in consonanza con quanto la lirica fiorentina del tempo, dal Rovai al Filicaia, andava facendo. Spiccano in quest'opera l'insistita celebrazione dei Medici e altri versi di varia encomiastica, ma non mancano rime per nozze, di pietà, di corrispondenza amichevole, e talvolta l'inflessione, meditativa è degna di nota.

Di origine che si potrebbe dire professionale sono la Instruzione a' novizi per matricolarsi notai (Firenze 1665; ms. nella Bibl. naz. di Firenze, Magl. IX, 30) e il Ristretto di Segreteria, preparato già nell'adolescenza con appunti dagli analoghi trattati di A. Ingegneri e P. Persico, rielaborato intorno al 1667, pubblicato nel 1670 a Firenze. Si tratta di un manualetto didattico svelto ed efficace. Considera dapprima le qualità e la preparazione culturale del segretario, che deve sapere di retorica, politica, legge, matematica, cosmografia, geografia, poesia e deve essere esperto delle lingue, della storia e delle gazzette. La sua principale virtù è una prudenza che confina con la doppiezza: "Il Segretario dovrebbe essere in verso il Padrone come il camaleonte, che piglia tutti i colori". Questi consigli di dubbia moralità non sono però la sostanza del trattatello: il C. mostra più interesse per la varia casistica classificatoria (lettere di negozio, d'istruzioni e memoriali, d'ufficio e di complimento) e per le prescrizioni stilistiche, che rifiutano "i traslati viziosi e le metafore ardite e sproporzionate" e le figure che diano "nel gonfio e nel poetico".

Morì a Firenze il 26 ag. 1693. Fu sepolto in S. Michele degli Antinori, chiesa dei teatini, ai quali aveva lasciato la sua libreria.

Fonti e Bibl.: A. Muscetto la, Poesie, II, Venezia. 1961, p. 64; A. Aprosio, Biblioteca Aprosiana, Bologna 1673, pp. 203, 268-283, 457, 463; G. Leti, L'Italia regnante, III, Geneva 1676, pp. 377 383; V. Placcius, Theatrum Anonymorum et Ps adonymorum, Hamburgi 1708, II, pp. 198 s.; S Salvini, Fasti consolari dell'Acc. Fiorentina, Firenze 1717, pp. 490, 593-596, 606-615, 620-623, 633-635, 670 e passim; Id., in Notizie ist. degli Arcadi morti, I, Roma 1720, pp. 21-24; G. Negri, Istoria degli scritt. fiorentini, Ferrara 1722, pp. 3-5; G. M. Crescimbeni, Istoria della volgar poesia, Venezia 1730-1731, IV, p. 29; V, p. 153; VI, p. 440; A. M. Salvini, Discorsi accademici, Venezia 1735, 1, pp. 132, 168, 213; II, pp. 1-14; III, p. 33; G. Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, II, Venezia 1735, p. 173; F. S. Quadrio, Della storia e della ragione d'ogni poesia, Bologna 1739-1752, ad Indices; G. Fontanini-A. Zeno, Biblioteca dell'eloquenza ital., Venezia 1753, II, pp. 128 s., 337; G. M. Mazzuchelli, Gli scrittori d'Italia, I, Brescia 1753, pp. 2, 875-877; Bibliotheca Smithiana, Venetiis 1755, p. 126; F. Argelati, Biblioteca degli volgarizzatori, Milano 1767, II, p. 236; I. M. Paitoni, Biblioteca degli autori antichi... volgarizzati, Venezia 1774, II, p. 180; V, p. 162; G. Melzi, Dizion. di opere anon. e pseudonime, Milano 1848-1859, I, pp. 43, 89, 477; II, pp. 130, 214, 300; III, pp. 183, 210; D. Masson, The life of J. Milton, I, Cambridge 1859, pp. 725 ss.; I. Carini, L'Arcadia, Roma 1891, pp. 402-12; E. Benvenuti, A. C. e l'Accad. degli Apatisti, Pistoia 1910 (rec. di G. Volpi, in Arch. stor. ital., XLVII [1911], 1, pp. 448-53 e di A. B., in Giorn. stor. della lett. it., LIX [1912], pp. 142-49); E. Santini, L'eloquenza ital. dal Concilio tridentino ai nostri giorni, Milano-Palermo 1923-1928, 1, pp. 83 s.; II, pp. 84 s.; A. Belloni, Il Seicento [1929], Milano 1955, pp. 238, 322, 331; B. Croce, Nuovi saggi sulla lett. ital. del Seicento [1931], Bari 1968, p. 82; U. Limentani, La fortuna di Dante nel Seicento, in Studi secenteschi, V (1964), pp. 27, 29, 42; C. Varese, Teatro, prosa, poesia, in Storia della lett. ital., V, Il Seicento, Milano 1967, p. 892.

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