Agricoltura

Enciclopedia della Scienza e della Tecnica (2008)

Agricoltura

Enrico Porceddu
Gian Tommaso Scarascia Mugnozza

Con percezione ante litteram del concetto di sostenibilità, lo scrittore latino Varrone, oltre venti secoli fa, definiva l’agricoltura come la scienza che stabilisce cosa coltivare in un determinato terreno e indica quali operazioni colturali occorre adottare in modo da avere le più elevate produzioni in perpetuo. Alle soglie del XXI sec. Lester Brown, fondatore dell’Earth Policy Institute, ribadisce: «La capacità della Terra di produrre alimenti sufficienti a soddisfare la crescente domanda di cibo sta emergendo con la predominante questione ambientale del nostro tempo».

Niente, dunque, sembra più attuale dell’agricoltura in un momento in cui, con le problematiche ambientali ed energetiche, si fa quanto mai urgente la questione di una sufficiente produzione alimentare per tutto il genere umano.

L’agricoltura è la scienza, ossia la conoscenza, del terreno, del clima, delle piante, degli animali, del mercato, delle tecnologie, necessaria all’imprenditore agricolo per prendere decisioni. La necessità di ottenere produzioni elevate in perpetuo ricorda che l’agricoltura è attività economica e che l’imprenditore ha interesse a ottenere un ritorno cospicuo – sotto forma di produzione – dal suo investimento, ma al tempo stesso non deve depauperare il capitale di risorse fisiche e biologiche alla base dell’impresa. In termini ecologici, infatti, l’agricoltura è un prelievo di produzione primaria netta dai cicli biogeochimici, che si chiuderebbero in passivo se non venissero immesse risorse fisiche, biologiche e tecnologiche che li riequilibrino e – data la modesta quota di energia solare utilizzata – ne consentano una maggiore utilizzazione energetica.

Ma l’agricoltura è anche l’attività che ha rivoluzionato la vita degli esseri umani e ha determinato le condizioni per l’evoluzione della società e lo sviluppo della civiltà (Rivoluzione neolitica). Non più impegnati nella ricerca quotidiana di alimenti e di vestiario, forniti dal raccolto, gli esseri umani hanno avuto il tempo e le opportunità di specializzare le loro attività e di elaborare comportamenti e norme che consentissero di dare sfogo alla creatività propria della specie. Tre secoli addietro, la lavorazione manifatturiera di prodotti agricoli, in particolare lana, lino, cotone e seta, dava inizio alla Rivoluzione industriale.

L’agricoltura è ancora oggi alla base del benessere delle popolazioni dei Paesi industrializzati (PI) e di quelli in via di sviluppo (PVS). Nei primi, gli incrementi di produzione hanno consentito o stanno consentendo il contenimento dei prezzi, l’attività dell’industria di trasformazione, la diversificazione dell’occupazione e dei mercati e l’allargamento del ventaglio di opportunità alimentari e non-alimentari, compresa quella energetica, a disposizione dei cittadini. Nei PVS la maggior parte della popolazione è ancora impegnata in agricoltura e l’evoluzione di quest’ultima, garantendo sicurezza alimentare, occupazione e reddito, promuove le condizioni per il progresso economico e sociale.

L’agricoltura rappresenta, quindi, l’interfaccia tra natura e società umana, fonte di alimenti, di occupazione, di reddito, di opportunità di sviluppo; nel parlare di agricoltura, pertanto, accanto agli aspetti ecologici di input, output e dei loro rapporti, non possono essere tralasciate considerazioni sociali e motivazioni etiche.

Produzione agricola ed esigenze alimentari

Dal 1961 la produzione agricola, alimentare e non alimentare, vegetale e animale, è triplicata in termini reali, con un incremento medio annuo di 2,3 punti percentuali (pp); tale incremento è stato per la maggior parte ottenuto nei PVS e riguarda derrate di primaria necessità e di elevato valore. Nello stesso lasso di tempo la popolazione umana è cresciuta di 1,7 pp per anno. In termini pro capite la crescita è stata di 0,4 pp, sempre a partire dal 1961, anche se l’andamento è stato diverso da regione a regione. Gli aumenti più elevati si sono avuti nei Paesi dell’Estremo Oriente, con valori annui intorno a 2,5 pp, mentre i più modesti sono quelli dei Paesi dell’America Latina e dei Caraibi, con valori intorno a 0,4 pp; complessivamente negativi sono invece quelli dell’Africa subsahariana, anche se in certi periodi, come gli ultimi 15 anni, si sono registrati incrementi annui intorno a 1 pp.

È cambiata notevolmente anche la composizione della produzione: mentre cereali, semi da olio, zucchero, ortofrutta, uova e carne sono aumentati, la produzione di legumi, tuberi e radici ha subito una certa flessione. Anche nell’ambito di ciascuno di questi gruppi si è avuto un andamento diverso: così, mentre gli incrementi produttivi nei cereali sono stati decrescenti, quelli dei semi da olio – e più ancora i prodotti animali e l’ortofrutta – sono stati crescenti. Particolarmente significativa è la situazione della produzione zootecnica, che oggi rappresenta il 40% della produzione agricola totale. In molte situazioni, compresa quella italiana, gli allevamenti avevano, in passato, l’obiettivo principale di fornire animali da lavoro e/o supplenza alimentare e di reddito per i casi di emergenza. Le cose sono cambiate e stanno cambiando anche nei PVS; la produzione animale è diventata un’attività intensiva e costituisce ormai un sottosistema vicino all’industria; essa fa uso di oltre il 50% della superficie agricola e ha quintuplicato la sua produzione negli ultimi 50 anni. Peculiare è la situazione delle produzioni di zucchero e dei semi da olio, i cui recenti aumenti, e ancor più quelli futuri, sono legati alla produzione di energia.

Gli incrementi di produzione, la maggior disponibilità di alimenti e il conseguente contenimento dei prezzi hanno permesso progressi significativi nella disponibilità alimentare pro capite, che in media è passata da meno di 2300 kcal/d dell’inizio degli anni Sessanta del Novecento alle attuali 2800 kcal. L’aumento è ascrivibile ai progressi verificatisi nei PVS, essendo la situazione dei PI già soddisfacente all’inizio del periodo considerato. Gli aumenti produttivi hanno spostato la disponibilità pro capite intorno a 3000 kcal/d anche in Medio Oriente e Nord Africa, seguiti da America Latina e Caraibi, mentre nell’Africa subsahariana la situazione è ancora inferiore a 2300 kcal/d, ossia alla media mondiale negli anni Sessanta.

A essere cambiate notevolmente, sulla spinta dell’aumento del reddito, sono anche le abitudini alimentari, e quindi la composizione della dieta: si è verificato un progressivo aumento della varietà degli alimenti, in particolare di quelli di elevato valore, come prodotti animali, oli vegetali e ortofrutta, a scapito di cereali, legumi, tuberi e radici. Il cambiamento è associato anche a un aumento dei consumi di alimenti più elaborati, che richiedono minor tempo di preparazione finale, anche come conseguenza del maggior impegno della donna fuori casa e dei processi di inurbamento, che – a loro volta – hanno determinato anche l’ampliamento della rete distributiva basata sui supermercati.

Malgrado questi cambiamenti e progressi, sono ancora 830 milioni gli esseri umani sottoalimentati, pari al 17% della popolazione dei PVS, anche se la situazione è migliorata rispetto a 40 anni fa, quando la percentuale era del 37%. È da ricordare, anche, che la maggior riduzione è avvenuta negli anni Settanta e Ottanta del XX sec., mentre negli anni Novanta si è verificata una diminuzione di soli 3 pp. Attualmente si assiste a un nuovo aggravarsi della situazione, cui però fanno eccezione Cina, Sudest asiatico e Sudamerica. Peculiare è la situazione in India, dove accanto a una diminuzione dei sottonutriti di 5 pp negli ultimi 15 anni, la crescita demografica ha di fatto impedito la diminuzione in termini assoluti. Più confortante è la situazione in Medio Oriente e Nord Africa, dove la flessione dei sottoalimentati ha interessato sia i valori assoluti sia quelli percentuali, e nell’Africa subsahariana dove, per la prima volta da diversi decenni e malgrado i conflitti e i disastri ambientali, si è avuta una diminuzione dal 35% dell’inizio degli anni Novanta al 32% dei primi anni Duemila, anche se la variazione è riconducibile ai miglioramenti avvenuti solo in alcune delle nazioni che compongono quella parte del continente (15 su 39).

Un aspetto interessante è la correlazione negativa esistente tra reddito medio pro capite e presenza di sottonutriti nelle diverse nazioni, dando forza all’idea che la crescita agricola porti a una maggior produttività e prosperità e riduca il numero di sottonutriti. Tuttavia, è parimenti evidente che senza specifiche misure, sacche di sottonutriti possono essere presenti anche in nazioni prospere. Poiché, tuttavia, circa il 70% dei poveri dei PVS vive nelle aree rurali e il reddito dipende direttamente o indirettamente dall’agricoltura è evidente che, specie nei Paesi più poveri, la crescita agricola, con l’aumento di occupazione e di reddito che genera, è la forza guida dell’economia rurale.

I determinanti del successo

Le statistiche presentate indicano che lo sviluppo agricolo è stato notevole. Il prodotto interno lordo (PIL) agricolo è cresciuto di 2,3 pp per anno, ben 6 pp in più rispetto alla crescita della popolazione, e ha mantenuto bassi i prezzi dei prodotti alimentari di base nei mercati mondiali. Il successo dei PVS è stato superiore a quello dei PI e rappresenta quasi l’80% della crescita di tutta l’agricoltura. La crescita è stata particolarmente elevata in Asia, il cui incremento rappresenta 2/3 della crescita complessiva nei PVS e riguarda sopratutto la produzione di cereali cresciuta di 2,8 pp all’anno, di molto superiore a quella dei PI (1,8 pp).

L’aumento di produzione è stato ottenuto grazie all’uso diffuso di irrigazione, fertilizzanti e varietà migliorate. L’irrigazione interessa poco meno del 40% dell’area coltivata dell’Asia meridionale, poco meno del 30% di quella dell’Asia orientale e del Pacifico e intorno al 5% nell’Africa subsahariana. La diffusione di nuove varietà, iniziata negli anni Sessanta, si è estesa da meno del 10% a circa l’80% della superficie a cereali nel Sud e nell’Est asiatici. Lo stesso andamento ha avuto l’uso di fertilizzanti, passati da 10% a 60% nello stesso periodo, in pratica da meno di 6 kg/ha a 140 kg/ha, più che nei PI, contribuendo per oltre il 20% dell’aumento produttivo.

La combinazione di questi cambiamenti ha prodotto la continua crescita dei fattori di produttività complessiva, che si ritiene sia responsabile di circa il 50% della crescita in India e in Cina e del 30÷40% di quella in Indonesia e in Tailandia, riducendo fortemente la pressione sulla limitatissima disponibilità di terra di quei Paesi. Gli investimenti in ricerca, infrastrutture e capitale umano, abbinati a politiche e istituzioni adeguate, sono stati i determinanti più importanti della crescita di produttività, con gli investimenti in ricerca e sviluppo come fattori principali. Le varietà migliorate, fra le quali il riso ibrido in Cina, hanno contribuito per il 50% all’aumento di produttività, le infrastrutture viarie per il 25%, mentre l’innalzamento del capitale umano ha dato maggior valenza a tutti gli interventi. È da notare che gli aumenti produttivi potrebbero essere stati maggiori se i costi ambientali di alcune di queste tecnologie, come degrado del terreno e inquinamento delle acque, fossero stati evitati, come si vedrà meglio in seguito.

È stato ricordato come i progressi non siano stati uguali in tutte le regioni della Terra e come ai successi in Asia si sia contrapposta una crescita modestissima (4 pp) in Africa subsahariana, mentre altre regioni hanno posizioni intermedie. Nella maggior parte dei casi, le nazioni con elevati ritmi di crescita del valore aggiunto agricolo pro capite, come Cina (3,5 pp di crescita annuale), Malesia (3,2 pp) e Vietnam (2,4 pp), sono anche le nazioni che hanno maggiormente ridotto la povertà rurale, anche se in altre nazioni, come Brasile (5,3 pp) e Pakistan (2,4 pp), la crescita agricola non è stata accompagnata da riduzione della povertà. Risultati così differenti tra nazioni e regioni sono la conseguenza della diversità dei sistemi agricoli, del loro potenziale pedoclimatico, della densità della popolazione e dell’esistenza di infrastrutture.

Il potenziale agricolo, in particolare quello dell’agricoltura non-irrigua – che interessa 1/3 della popolazione (820 milioni di persone) in America Latina, Medio Oriente e Nord Africa e Africa subsahariana – è fortemente condizionato dalla fertilità del terreno, dal clima e dagli eventi meteorici, per cui queste aree forniscono appena il 30% della produzione agricola, malgrado interessino il 54% della superficie agricola e il 45% dell’area coltivata.

Da non trascurare, a questo riguardo, è anche la lontananza dei mercati e dei servizi. Le aree rurali sono sparse e di conseguenza i costi di trasporto elevati e la qualità dei servizi modesta. Nei PVS oltre il 16% della popolazione rurale (440 milioni di persone) vive in aree lontane dai mercati, per cui, malgrado le qualità del terreno e il clima dotino queste aree di notevole potenzialità produttiva, la mancanza di infrastrutture impedisce loro di integrarsi con il resto dell’economia; il 30% della popolazione dell’Africa subsahariana vive in queste condizioni contro appena il 5% di quella dell’Asia meridionale. Questi condizionamenti determinano la scelta dei sistemi e delle strategie aziendali; così in certi Paesi la produzione dell’ortofrutta (60% della produzione e meno del 40% della popolazione rurale) avviene nelle zone più accessibili, la produzione dei cereali è invece aumentata nelle aree meno favorevoli.

I cambiamenti nelle abitudini alimentari, determinati dall’inurbamento e dall’aumento del reddito, stanno promuovendo la diversificazione alimentare. La preferenza dei consumatori dei PI per prodotti specialistici o il desiderio di avere prodotti freschi durante tutto l’anno stanno promuovendo nuove opportunità e mercati globali per molti di essi, come sta avvenendo, per esempio, per i prodotti ortofrutticoli e zootecnici.

La frutta e gli ortaggi sono tra i settori maggiormente in crescita, con aumenti annui nell’ordine rispettivamente di 3,6 pp e 5,5 pp negli ultimi 25 anni. Durante questo periodo il 58% dell’aumento della produttività orticola si è avuto in Cina, il 38% negli altri PVS e solo il 4% nei PI, indicando come la crescita stia portando benessere nei PVS. La rivoluzione dell’ortofrutta sta promuovendo occupazione e reddito, con guadagni che superano di 10 volte quelli conseguibili con la coltivazione dei cereali. Essa promuove l’occupazione non solo nella produzione, in cui comunque è impegnata una forza lavoro doppia rispetto a quella coinvolta nella produzione dei cereali a parità di superficie, ma anche nelle operazioni a valle, per trasformazione, imballaggio, promozione e vendita. Ma l’orticoltura richiede anche un cambiamento di mentalità nel mondo produttivo; si tratta, infatti, di un’attività a gestione intensa, con grande varietà di specie coltivate, rapido turnover varietale, uso di input finanziari e chimici a elevato rischio per gli attacchi di insetti e agenti patogeni, rapidi cambiamenti nei prezzi e, per quanto riguarda la frutta, investimenti con ritorni in tempi lunghi. È interessante, infine, notare che, a differenza della Rivoluzione verde, la Rivoluzione ortofrutticola è stata guidata dal settore privato e dal mercato, il che ha promosso l’attività di filiera, l’associazionismo, le collective actions, essendo difficile, per i piccoli orticoltori, agire da soli in un mondo fatto di standard qualitativi, gradazioni di prodotto e così via.

Non dissimile è stata la rivoluzione nella produzione animale, promossa in particolare dalla domanda di pollame, uova e carne suina, mentre minore è stata l’entità della crescita della produzione di latte e carne bovina. La produzione animale è passata da estensiva a intensiva, determinando un aumento della domanda di granella per mangime, a cui viene ormai destinato, nei PVS, circa il 30% della granella prodotta, specie quella di semi oleosi, mentre cresce meno la domanda di semi di cereali, anche per la quota sempre maggiore di produzione e consumo di carne avicola, la cui produttività in termini di resa è più efficiente (2÷3 kg di mangime per kg di carne) di quella bovina (10 kg di mangime per kg di carne). L’aumento della produzione zootecnica sta anche fornendo una dieta più diversificata, anche se non manca il risvolto negativo dovuto all’inquinamento per i rifiuti e alle malattie, che richiedono norme più precise e severe per evitare ripercussioni anche sulla salute umana.

Le esportazioni di prodotti ortofrutticoli, zootecnici, floreali e di prodotti biologici costituiscono il 47% delle esportazioni dei PVS e il 43% del commercio mondiale di ortofrutta, con Brasile, Cile, Cina e Messico che dominano i mercati.

Quale agricoltura in futuro

Se è certo che anche in futuro il mondo non potrà esistere senza agricoltura, meno certo è quale sarà l’agricoltura del futuro. È stato ricordato come l’agricoltura e il sistema alimentare abbiano complessivamente fatto registrare un successo negli ultimi 40÷50 anni. La domanda che sorge è se e come l’agricoltura riuscirà a conciliare problematiche quali: aumento della popolazione mondiale, rapido inurbamento, aumento del reddito e cambiamento delle abitudini alimentari, sostenibilità e salubrità ambientali.

Dal punto di vista della domanda, il consumo alimentare aumenterà più lentamente che in passato, tenderà a diminuire il ritmo di crescita del consumo di cerali e di carne, sia per effetto di un minor ritmo di aumento della popolazione sia per gli elevati livelli ormai raggiunti. Ma, malgrado questi segnali, si stima che il prezzo dei cereali tenderà ad aumentare, come conseguenza della scarsità di terreni coltivabili e acqua di irrigazione, abbinata a un più lento progresso tecnico. Il ruolo dei PVS sui mercati mondiali tenderà a diversificarsi ulteriormente con Paesi, come quelli dell’Asia centrale, dell’Europa, Brasile e Argentina, nel ruolo di esportatori e altri, come quelli del Nord Africa e Medio Oriente, dell’Asia, e dell’Africa subsahariana, in quello di importatori. Nell’Africa subsahariana la disponibilità alimentare pro capite sarà ancora inferiore a 2500 kcal/d, ben lontano dalle oltre 3000 kcal/d delle altre regioni.

Dal lato dell’offerta si può notare come tradizionalmente la produzione agricola sia aumentata espandendo la coltivazione a nuove aree, ma in molte parti del mondo, come in Asia, la disponibilità di terra è limitata o pari a zero. In America Latina, Europa e Asia centrale la disponibilità di terra è ancora presente, ma solo grazie alla limitata densità della popolazione e alla diminuzione della popolazione rurale. In America Latina e Africa subsahariana sono disponibili ampie aree, ma a spese delle foreste tropicali e subtropicali e di estese praterie utilizzate a pascolo, la cui conversione, oltre alla distruzione di biodiversità (vegetale e animale), potrebbe determinare conflitti con gli utilizzatori tradizionali, a meno di non coltivare aree malsane, la cui bonifica richiederebbe grandi investimenti in infrastrutture e nel controllo delle malattie e dei parassiti umani, animali e vegetali. A questi si aggiunga il fatto che le terre coltivate sono soggette a incrementi produttivi decrescenti a causa di inquinamento, salinizzazione, degrado; si stima, infatti, che 5÷10 milioni di ettari di terreno agricolo siano persi ogni anno per la coltivazione.

L’agricoltura utilizza l’85% dell’acqua dolce complessivamente disponibile nei PVS, dove l’acqua è scarsa e un’ulteriore espansione dell’irrigazione sembra improbabile per l’aumentata richiesta da parte del settore industriale e urbanistico; lo sviluppo di nuove fonti idriche è molto costoso e/o impone costi ambientali e delocalizzazione delle popolazioni umane. Il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Asia nel suo complesso accusano le più forti limitazioni, e stanno operando un prelievo idrico per uso agricolo non sostenibile, che supera di 3÷4 volte il ricarico delle falde.

Causa di grande incertezza è il riscaldamento globale. Se l’andamento attuale dovesse continuare, potrebbero verificarsi cambiamenti nella quantità, frequenza e intensità delle precipitazioni, variabili da zona a zona. Mentre alcune regioni potrebbero diventare più umide, il Mediterraneo, il Nord Africa e parti del Subsahara e dell’Asia meridionale potrebbero soffrire per siccità e carenza idrica. Le produzioni potrebbero aumentare nelle zone temperate e diminuire in quelle tropicali, determinando profonde modificazioni nei mercati e migrazione di popolazioni.

Ma l’agricoltura dovrà fare i conti anche con i prezzi dell’energia, che, continuando ad aumentare, sta determinando una lievitazione dei prezzi delle derrate alimentari e dei prodotti finiti, specie nei PI, la cui agricoltura è a forte intensità energetica e in cui esistono costi di trasformazione e di trasporto notevoli. Si inserisce, in questo ambito, anche la possibilità di destinare quote sempre maggiori di prodotti agricoli alla produzione di bioenergia, con conseguente ulteriore impatto sui prezzi dei prodotti alimentari e sulla loro disponibilità per i meno abbienti e per i Paesi (specie africani), a forte deficit alimentare.

Per queste ragioni è iniziato un esame dei metodi di produzione e l’elaborazione di idee per una produzione agricola più sostenibile, meno depauperatrice del capitale biofisico su cui si fonda. L’esame parte dalla constatazione che gli aumenti produttivi hanno seguito due strade diverse. Nelle zone interessate dalla Rivoluzione verde la superficie coltivata è aumentata soltanto di 4 pp, evitando la distruzione di foreste, zone umide, biodiversità e dei servizi che questi ecosistemi forniscono. Gli aumenti di produzione sono derivati dall’introduzione di varietà migliorate e dall’intensificazione dei mezzi tecnici, che hanno determinato altri tipi di problemi. L’uso eccessivo di presidi fitosanitari e di fertilizzanti ha infatti inquinato le acque, già scarse per l’eccessivo prelievo, mentre l’irrigazione incontrollata sta degradando la fertilità dei terreni. Inoltre, l’intensificazione dei sistemi zootecnici, specie di quelli localizzati nelle vicinanze dei centri urbani, ha prodotto rifiuti e generato la possibilità di diffusione di malattie, come la tubercolosi e l’influenza aviaria. Nelle aree non interessate dalla Rivoluzione verde, l’intensificazione è stata invece limitata e la produzione agricola è aumentata estendendo la coltivazione a nuove terre, con degrado dei terreni coltivati e/o distruzione di foreste, praterie e zone umide.

Le proposte di correzione sono in funzione dei problemi generati. Nelle zone irrigue dei PVS, l’agricoltura usa l’85% dell’acqua utilizzata dall’uomo; essa è distribuita sul 18% dell’area coltivata che fornisce il 40% del valore della produzione agricola. Ben 15÷35% di questa acqua è prelevata in modo non sostenibile, con la conseguenza dell’abbassamento della falda a profondità da cui è difficile attingerla, e nelle zone costiere ha consentito l’intrusione di acqua salata. La non corretta gestione idrica ha determinato la risalita e il deposito di sali negli strati superficiali del terreno, un fenomeno che ormai interessa il 40% della superficie irrigata in Asia. Per migliorare l’uso dell’acqua sono necessari sistemi di distribuzione più flessibili, che presuppongono l’esistenza di una combinazione di investimenti in strutture, incentivi economici e cambiamenti istituzionali; questi ultimi sembrano di non facile accettazione da parte degli agricoltori, che avevano in precedenza ricevuto incentivi e prezzi garantiti per stimolare l’uso delle tecnologie e l’aumento di produzione, a meno che i provvedimenti non siano inseriti in un più ampio contesto di riforme sociali ed economiche e/o accompagnati da un forte sostegno politico. Le riforme istituzionali devono essere integrate con interventi tecnici, come la diversificazione delle specie coltivate, l’automazione delle operazioni di irrigazione, la valutazione delle esigenze idriche delle colture con moderne tecnologie di remote sensing e tenendo conto dell’aumentata frequenza e intensità delle deficienze idriche e dei cambiamenti climatici.

Oltre che sull’irrigazione, la Rivoluzione verde si è sviluppata per l’adozione di altri mezzi tecnici come la monocoltura, le varietà migliorate, i fertilizzanti, i presidi sanitari. L’abuso di questi ultimi ha causato inquinamento idrico, danno indiretto agli ecosistemi per eccesso di nitrati, avvelenamento di persone, animali e piante e insetti-non parassiti, mentre la percolazione di fertilizzanti nelle falde è diventata uno dei maggiori problemi dei sistemi agricoli intensivi. L’agricoltura intensiva ha anche ridotto la diversità nei comprensori interessati e la diversità genetica nei campi coltivati. Molte varietà coltivate hanno una base genetica comune, solo in parte bilanciata da un più rapido turnover varietale, ed è urgente la ricerca di diversificate fonti di resistenza alle malattie e agli insetti, di tolleranza alle avversità ambientali e un più generale ampliamento della base genetica delle colture, anche facendo ricorso alle specie selvatiche affini e ai moderni mezzi che la scienza mette a disposizione.

È inoltre necessaria una miglior sintonizzazione delle colture e delle pratiche colturali alle condizioni locali, in modo da ridurre la necessità di fertilizzanti e presidi sanitari senza sacrificare la produzione. La gestione integrata degli insetti nocivi, combinando principî ecologici con un uso giudizioso dei presidi fitosanitari, può aumentare la produzione senza causare danni all’ambiente, come, più in generale, la gestione integrata delle pratiche agricole con varietà resistenti e la più precisa tempistica nella somministrazione dei fertilizzanti, dell’acqua, la semina senza aratura o con lavorazioni minime possono consentire una migliore e più corretta gestione del sistema colturale, anche se si tratta di pratiche a elevata conoscenza, che richiedono efficienti sistemi di ricerca e diffusione delle innovazioni, delle tecnologie, e di professionalità e abilità decisionali.

Interessanti spinte derivano da iniziative come la cosiddetta agricoltura biologica, che sta stimolando l’adozione di pratiche più sostenibili, mentre la certificazione dei prodotti e l’elaborazione di standard di qualità, di catene di rifornimento alimentare e supermercati stanno spingendo gli agricoltori ad adottare migliori e più sostenibili pratiche agricole.

La rapida crescita dei sistemi zootecnici intensivi nelle zone peri-urbane ha consentito di fornire carne, latte, uova alla popolazione man mano che si inurbava e aumentava il reddito pro capite. L’intensificazione produttiva è stata assistita da progressi tecnologici nel miglioramento genetico, nell’alimentazione e nella sanità animale. I problemi ambientali che ne derivano riguardano in modo particolare l’inquinamento idrico e del suolo da parte dei rifiuti, in particolare azoto, fosforo e metalli pesanti, come cadmio, rame e zinco, e la diffusione di malattie con gravi perdite economiche. Le strategie per evitare questi problemi sono diverse: dalla limitazione delle dimensioni degli allevamenti, adottata in Norvegia, alla riduzione del numero di animali per azienda (Germania), all’introduzione di distanze minime fra aziende (Spagna), al divieto di creare allevamenti nelle vicinanze di corsi d’acqua (Brasile), agli investimenti per la costruzione di infrastrutture che impediscano la percolazione (adottata dai Paesi dell’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo, OCSE), mentre un sistema di assegnazione di quote di letame è stato introdotto in Olanda.

Circa il 54% dell’area agricola, ove risiede il 31% della popolazione dei PVS, ha limitate potenzialità a causa di clima, terreno, lontananza dal mercato, assenza di infrastrutture. Si tratta, nei diversi continenti, di aree collinari e montane poco popolate, interessate da allevamenti estensivi, sistemi agroforestali e agricoltura promiscua (colture erbacee e arboree, animali). L’erosione idrica dei suoli impoverisce il terreno e causa l’interramento delle dighe; i ristagni d’acqua aumentano la salinità, mentre l’erosione eolica, l’abolizione o la limitazione del maggese e l’assenza di fertilizzanti non restituiscono al terreno quanto prelevato con il raccolto, rendendo sempre meno fertili queste terre. E un problema non secondario è la perdita di biodiversità, particolarmente evidente in queste zone.

Le strategie per queste aree devono prevedere il coinvolgimento delle popolazioni locali nelle decisioni strategiche e il miglioramento delle tecnologie per una gestione sostenibile delle risorse naturali: acqua, terreno e biodiversità. Tra le tecnologie si ricorda la costituzione di varietà più tolleranti alla siccità, più adatte all’ambiente e al clima, meno esigenti in fatto di fertilità del terreno e resistenti agli insetti e agli agenti patogeni e più adatte all’ambiente. Queste varietà, oltre a fornire incrementi significativi di produzione e di reddito per gli agricoltori, a stabilizzare la produzione e ad assicurare ai consumatori cibi sani, e quindi benessere e salute, possono giocare un ruolo importante anche per far fronte ai cambiamenti climatici. L’agroforestazione è un altro approccio, specie se si usano piante azotofissatrici, che sta dando grossi contributi in molte zone dell’Africa, anche nell’intensificazione dei sistemi zootecnici, per i quali è opportuno migliorare i pascoli e approntare mangimi complementari con i residui della lavorazione di altre derrate.

Conclusioni

Le argomentazioni prodotte e i dati citati indicano che l’agricoltura è un’attività multifunzionale: deve produrre alimenti per una popolazione in continua crescita e reddito per gli agricoltori, deve promuovere lo sviluppo sociale ed economico delle popolazioni, dare vitalità economica alle nazioni e garantire la sostenibilità ecologica. Sebbene globalmente già oggi l’agricoltura è in grado di produrre alimenti per tutti gli esseri umani, sono presenti sulla Terra 830 milioni di persone sottoalimentate, e oltre 1 miliardo di esseri umani vive con meno di un dollaro statunitense al giorno.

In realtà il mondo è diviso in ricchi e poveri. Nei PVS – dove vive la maggioranza dei poveri, in alcune nazioni una persona su tre – ben oltre la metà della popolazione vive nelle zone rurali ed è occupata in agricoltura. L’agricoltura deve consentire a tutti di uscire dalla spirale di fame, disoccupazione e povertà in cui è imprigionata.

Le situazioni sono diverse. Esistono aree del Pianeta dove l’agricoltura non fornisce, purtroppo, gli alimenti necessari e le popolazioni non hanno un reddito sufficiente per acquisirli. È necessario un impegno politico e tecnico-scientifico per una più vasta e migliore utilizzazione delle risorse fisiche e biologiche, per promuovere una crescita ecologicamente ed economicamente sostenibile della produzione agricola a cui attendono i 2/3 della popolazione e quindi sicurezza alimentare e riduzione della povertà. In altre regioni esistono, invece, aree che, pur non difficili dal punto di vista pedoclimatico, sono marginalizzate dalla mancanza di infrastrutture e di accesso ai mercati e ai servizi. L’impegno politico per eliminare i fattori infrastrutturali di marginalizzazione sembrano temporaneamente prevalere sugli aspetti tecnico-scientifici, che tuttavia non possono mancare. Una terza tipologia riguarda le aree in cui gli elementi fisici e biologici frenano lo sviluppo. Si tratta di aree che pongono vere sfide alla ricerca per la gestione corretta delle poche risorse – acqua e fertilità del terreno – di cui dispongono, e che saranno fra le più colpite dai cambiamenti climatici.

Ma la situazione è impegnativa anche nelle aree irrigue e con grandi potenzialità produttive e abbondante mercato. I già elevati livelli produttivi devono essere mantenuti e ulteriormente innalzati, la produzione deve essere diversificata e pronta a cogliere le opportunità dei mercati. Un impegno gravoso ed esaltante per la ricerca scientifica e per i mercati, che deve dare impulso alla fantasia e ad accorgimenti sofisticati e soluzioni più brillanti. In tutti i casi gli inconvenienti tecnici vanno evitati e le aree degradate vanno recuperate alla produttività.

La Conferenza dell’ONU su ambiente e sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, ha considerato interconnesse e inseparabili l’agenda agricola e quella ambientale. Il degrado delle risorse naturali mina le basi della pratica agricola e aumenta la vulnerabilità del nostro pianeta, determina perdite economiche e di alimenti che il mondo non può tollerare. È imperativo l’uso sostenibile delle risorse fisiche e biologiche – acqua, terreno, biodiversità – e l’aumento della produzione agricola, così da soddisfare le esigenze e le aspettative di ogni essere umano che vive sul nostro pianeta e che dall’agricoltura e da una nutrizione sana e sufficiente, riceve la fondamentale energia per la vita.

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