AGRICOLTURA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991)

AGRICOLTURA

Giuseppe Colombo
Ezio Capizzano

(I, p. 955; App. II, I, p. 95; III, I, p. 49; IV, I, p. 62)

L'agricoltura italiana. − L'evoluzione recente dell'a. italiana è stata caratterizzata dal succedersi di situazioni congiunturali, dominate dall'influsso di differenti variabili macroeconomiche: negli anni Sessanta l'innalzamento dei redditi reali dei consumatori ha portato a un'espansione della domanda di prodotti agricoli e a una sua diversificazione verso le produzioni di maggior pregio, mentre la sostanziale stabilità monetaria ha favorito gli investimenti sia pubblici che privati e l'avvio del processo di ammodernamento delle aziende. Negli anni Settanta, dopo la crisi petrolifera del 1973 conseguente alla guerra arabo-israeliana del Kippur, il quadro è mutato: è comparsa sulla scena l'inflazione che ha dominato il panorama economico per circa un decennio, condizionando ogni attività produttiva. In a. gli effetti non si sono fatti attendere: stasi degli investimenti, arresto del processo di ammodernamento e progressivo aumento del divario strutturale ed economico fra regioni povere e regioni ricche e, nel complesso, fra l'a. italiana e quella degli altri paesi europei. Questi problemi, di per sé complessi in un paese a sviluppo duale come l'Italia, hanno trovato in quegli anni motivi di esaltazione e di complicazione nel delicato periodo di rodaggio avviatosi con l'attribuzione alle Regioni a statuto ordinario delle competenze in materia di agricoltura.

Agli inizi degli anni Ottanta lo scenario è cambiato ulteriormente: con il rientro dell'inflazione e sotto l'effetto della diffusione di tecnologie sempre più produttive, l'a. italiana ha ripreso il suo cammino in un contesto e con un ruolo diversi rispetto al passato. L'obiettivo dell'innalzamento della redditività e della produttività dei fattori per il tramite dei maggiori quantitativi di produzione è infatti andato via via perdendo d'interesse a causa delle crescenti disponibilità di derrate che, a partire dalla prima metà degli anni Ottanta, hanno preso a ingolfare i mercati nazionali e internazionali. Carattere prioritario sono invece venute assumendo le problematiche legate alla qualità dei prodotti, all'individuazione di tecniche produttive risparmiatrici di fattori e, ultimamente, anche di quelle più rispettose dell'ambiente. Esaurita, come si è detto, la fase di spinta verso maggiori quantità di prodotto, se n'è aperta un'altra, soprattutto per gli operatori di settori strutturalmente eccedentari (ortofrutta e vino, in particolare), nella quale il riferimento alla realtà del mercato dev'essere sempre più attento per cogliere le opportunità espresse da una domanda più concentrata e selettiva, sempre meno condizionata da un'offerta esuberante.

È in questo ruolo di fornitrice di beni primari, integrata in un più ampio sistema agro-alimentare e commerciale, che l'a., non più libera arbitra dell'offerta, deve sapersi inserire, con pari dignità, ma anche con la consapevolezza che il futuro le sarà benigno solo se sarà capace di affrontare l'ulteriore prova di un adeguamento all'evoluzione in atto nell'ambito europeo e di cogliere, come parte integrante di un sistema che opera su una scala sempre più ampia, le grandi occasioni di crescita che le si prospettano.

Il processo, già in atto, è certamente complesso non solo perché il quadro delle garanzie comunitarie si va attenuando, ma anche perché il mutamento dovrà sciogliere i vecchi nodi peculiari della situazione italiana, e cioè la debolezza strutturale, la persistenza di un grave deficit della bilancia agro-alimentare (16.000 miliardi di lire nel 1987) − che trae origine non soltanto dall'entità delle partite passive, ma anche dall'insufficiente sviluppo di quelle attive −, il ritardato avvio di un moderno sistema agro-industriale e la perdurante inefficienza dell'apparato pubblico (centrale e regionale) che stenta ad adeguarsi ai compiti affidatigli dalla Costituzione.

Il quadro tracciato dell'evoluzione recente dell'a. italiana e delle sue prospettive di breve e medio periodo consente d'interpretare il cambiamento in corso nei più significativi indicatori strutturali ed economici del settore.

La superficie coperta dalle aziende agricole (tab. 1) nell'intervallo intercensuario 1970-82 si è ridotta di oltre 1,4 milioni di ha (−5,7%) con lievi differenziazioni percentuali fra le zone altimetriche (−5,8% in montagna; −5,9% in collina e −5,1% in pianura), mentre il riferimento alle circoscrizioni geografiche evidenzia una contrazione più marcata nell'Italia centrale (−6,2%) rispetto al Mezzogiorno (−5,8%) e al Nord (−5,2%). Analoga tendenza alla contrazione può rilevarsi nel numero delle aziende, diminuito, dal 1970 al 1982, di oltre 300.000 unità (−9,4%), con più marcate incidenze percentuali nelle zone di montagna (−15,0%) e nel Nord (−15,2%); significative appaiono anche le diminuzioni del numero delle aziende in collina (−7,3%) e in pianura (−8,7%). Viene pertanto confermata, seppure con minore intensità, una tendenza già manifestatasi nel periodo fra i due primi Censimenti generali dell'a. (1961 e 1970), che è alla base del faticoso processo di ampliamento delle superfici medie aziendali risultate nel 1982 di 7,2 ha (4,8 ha in termini di SAU, cioè di Superficie Agricola Utilizzata, che è data dai seminativi, dalle coltivazioni arboree, dai prati permanenti e dai pascoli) con un'ampia diversificazione regionale. Si rilevano, infatti, agli estremi la provincia autonoma di Bolzano con 22,9 ha e la Campania con 3,5 ha (in termini di SAU: max Sardegna con 12,0 ha e min. la Campania con 2,4 ha). Nell'arco temporale considerato, le variazioni intervenute a livello delle forme di conduzione (tab. 2) sono state particolarmente interessanti: dopo la forte flessione subita dalle conduzioni dirette del coltivatore nel periodo intercensuario precedente, si è registrata una diminuzione molto contenuta nel numero di tali imprese (−1,9%) accompagnata da un marcato incremento delle relative superfici (+11,4%); in netto calo le conduzioni con salariati e partecipanti sia in termini numerici (−46,0%) sia come superfici interessate (−20,5%); le colonie e le 'altre' forme contrattuali hanno accelerato il loro processo di conversione prevalentemente verso forme diretto-coltivatrici.

Il quadro, nel complesso, mostra una notevole semplificazione dei tipi d'impresa con il 93,7% (67,7% in termini di superfici) di conduzioni dirette del coltivatore e il 4,7% (30,3% in termini di superfici) di conduzioni 'capitalistiche' con salariati e compartecipanti.

L'abbandono dell'attività agricola è proseguito, seppure con minore intensità rispetto al passato, anche nell'ultimo periodo intercensuario. In questo lasso di tempo hanno infatti lasciato il settore 1.002.299 unità, riducendo i 3.242.621 addetti agricoli del 1970 (17,2% degli 'attivi' totali) ai 2.240.322 del 1981 (11,1%). Stime dell'Istituto Centrale di Statistica sull'occupazione indicano, al 1987, un'ulteriore flessione dei lavoratori agricoli a 2.169.000 unità, pari al 9,2% della complessiva forza lavoro. Come per il passato, le differenziazioni regionali sono molto marcate con situazioni estreme in Lombardia (3,5%) e in Molise (23,9%).

Nel processo di ammodernamento dell'a. italiana particolare rilievo ha continuato a mostrare la meccanizzazione sostenuta anche dalla perdurante diminuzione dei lavoratori agricoli. Nel complesso, dal 1973 al 1986, il numero dei cavalli vapore è passato da 44.491.000 a 91.538.000, con un incremento di oltre il 105%. Indicatori significativi di questa espansione possono ricavarsi dai ragguagli a ettaro di superficie agraria e forestale, di SAU e per occupato agricolo che, in media, hanno raggiunto rispettivamente 3,9; 5,8 e 40,8 cavalli vapore con marcate differenziazioni regionali.

Considerati nel loro insieme, gli investimenti lordi in a. hanno raggiunto nel 1986 i 14.128 miliardi con un aumento percentuale a prezzi correnti del 2,4% sull'anno precedente; in termini reali, a prezzi 1980, si è invece registrata una contrazione del 2,0% con un valore minimo del −9,6% nell'Italia nord-occidentale e un valore positivo del 2,2% nell'Italia centrale. La revisione della contabilità nazionale eseguita dall'Istituto centrale di Statistica nel 1986 non consente purtroppo di confrontare i dati riportati con quelli di serie storiche precedenti.

L'utilizzazione del suolo dal 1973 al 1989 (tab. 3) non ha rivelato consistenti mutamenti: −1.993.000 ha le superfici coltivate, con una percentuale ormai consolidata intorno all'83% di erbacee.

In termini quantitativi l'a. italiana, come si è accennato, ha migliorato il suo rendimento incrementando le produzioni nonostante la diminuzione degli impieghi dei fattori terra e lavoro. Dal quadro analitico riportato (tab. 4) si possono rilevare, per i cereali, incrementi per il frumento duro, l'orzo e il mais, cui si contrappongono contrazioni per l'avena e la segale, mentre il riso non mostra variazioni significative. Le leguminose appaiono, nel complesso, in calo, mentre molti segni positivi si notano negli ortofrutticoli con valori di apprezzabile controtendenza solo per patate, carciofi, cavoli, pere, fichi e noci.

Il patrimonio zootecnico nazionale (tab. 5) è, nel complesso delle varie specie allevate, significativamente aumentato. In particolare è da rilevare l'incremento dal 1973 al 1989 dei bovini (+4,0%), degli ovini (+48,1%), dei caprini (+31,4%) e dei suini (+13,1%); gli equini, per contro, hanno confermato la loro tendenza alla diminuzione (−34,4%).

L'andamento della produzione lorda vendibile agricola (tab. 6) è nell'insieme molto positivo sia per quanto riguarda il comparto delle produzioni erbacee, sia per quanto attiene a quello degli allevamenti. Alternante, invece, quello del comparto delle arboree.

Nello stesso arco di tempo sono aumentati significativamente anche i consumi intermedi, passati dal 24,4% della produzione vendibile del 1973 al 28,2% del 1989, confermando un'evoluzione del settore agricolo italiano verso tecniche produttive di livello europeo.

I tassi medi annui di variazione della produzione vendibile agricola, dei consumi intermedi e del valore aggiunto nel periodo 1973-86, in lire correnti, sono risultati rispettivamente pari al 14,3%, 16,0% e 13,6%; mentre gli analoghi relativi ai rispettivi valori espressi in lire costanti 1970 sono risultati 1,7%, 3,0% e 1,3%.

Nei confronti della formazione del prodotto interno lordo nazionale l'a. − stricto sensu - nonostante i buoni risultati conseguiti, a causa della maggiore espansione registratasi negli altri settori ha ridotto dal 1973 al 1989 il suo apporto percentuale dall'8,3 al 3,6%.

Nel periodo 1973-87 la superficie forestale italiana è aumentata di circa l'8,4%, passando da 6.223.000 a 6.748.000 ha (tab. 7). Questo dato, che potrebbe apparire soddisfacente (+37.000 ha/anno), in realtà non è tale, ove si osservi che dal 1985 l'ISTAT ha cominciato a censire fra le superfici forestali anche quelle a ''macchia mediterranea'', attualmente pari a circa 225.500 ha.

Si nota quindi una limitata espansione delle superfici forestali, aumentate − nonostante i numerosi provvedimenti legislativi adottati per ampliarne la consistenza − di appena 360.000 ha contro i 417.000 circa del quindicennio precedente.

Attualmente le formazioni più rappresentate sono le fustaie e i cedui semplici, con una leggera prevalenza delle prime (2.916.000 ha, contro 2.826.000 ha). I cedui composti sono invece meno rappresentati, occupando solo 780.000 ha.

La forma di governo ad alto fusto è aumentata dal 1973 di circa 328.000 ha (+12,3%), soprattutto in seguito alle azioni di politica forestale intraprese: le fustaie resinose e quelle miste sono aumentate rispettivamente di 171.000 e 89.700 ha circa, principalmente a causa dei rimboschimenti protettivi e produttivi attuati, mentre l'aumento delle fustaie di latifoglie, di soli 67.000 ha, discende come saldo di due opposte pratiche selvicolturali: le conversioni dal ceduo all'alto fusto (faggio, ecc.), sostenute da provvedimenti di politica forestale, e la conversione da fustaia a ceduo, soprattutto per motivi di natura fitopatologica (come per es. nel caso del castagno).

Meno significative sono state le variazioni di superficie delle altre due forme di governo: i cedui semplici sono rimasti praticamente costanti (+4000 ha), mentre sono leggermente diminuiti i cedui composti (−23.700 ha).

Alla vigilia dell'attivazione del mercato unico (1° gennaio 1993), che comporterà l'abolizione delle frontiere doganali e finanziarie fra i paesi della CEE, l'esame dell'evoluzione compiuta dall'a. italiana a fianco di rassicuranti luci mette in risalto il persistere di preoccupanti ombre nel recepimento delle linee di tendenza della politica agricola comunitaria e nell'impegno per un reale rinnovamento strutturale. La circostanza che oltre i due terzi dell'a. italiana si attui in zone difficili di montagna e di collina ha fatto sì che nell'arco di tempo preso in considerazione si sia determinato un peggioramento relativo dei parametri strutturali ed economici italiani nei confronti degli analoghi europei.

L'agricoltura nel mondo. - Le previsioni pessimistiche formulate negli anni Settanta sulle disponibilità alimentari − alle quali non poco contribuì il rilancio di tesi neomalthusiane sulle potenzialità dell'offerta di derrate che trovarono espressione preoccupata nell'opera del Club di Roma (1973) − non sono state confermate, nel complesso, dai fatti.

Esse, e altre iniziative di approfondimento della situazione alimentare mondiale, prime fra tutte quelle della FAO, hanno avuto tuttavia il merito di tenere desta l'attenzione e d'incentivare l'impegno concreto di molti paesi verso i problemi della fame e del sottosviluppo e di essere state il riferimento culturale di quella ''rivoluzione verde'' che sta mutando le condizioni di vita di ampie regioni del globo.

Su questa strada, tuttavia, sussistono grossi ostacoli: alcuni tipici dei paesi in via di sviluppo, quali l'elevata crescita demografica, l'instabilità politica, la crescente urbanizzazione, i bassi prezzi alla produzione, la mancanza di una reale partecipazione popolare; altri derivanti dal contesto internazionale, quali i differenti livelli di crescita economica, i problemi riguardanti il pagamento degli interessi per i debiti contratti dai paesi del Terzo Mondo, il ristagno del commercio e la crescita del protezionismo. Non mancano, per contro, elementi positivi che nel medio-lungo periodo potranno produrre favorevoli effetti, quali l'intensità e la diffusione del progresso tecnologico e la modifica delle politiche agricole che si sta attuando in molti paesi.

La consapevolezza degli errori di valutazione commessi negli anni Settanta, come l'enfatizzazione della crescita dei costi energetici e la sottovalutazione della sicurezza alimentare e dell'autosufficienza, così come quella della degradazione ambientale e delle risorse idriche, è oggi alla base di un diverso approccio ai problemi alimentari dovuto alla convinzione che non è sufficiente produrre di più per ridurre la malnutrizione.

La ricerca scientifica, in questa prospettiva, ha un ruolo di primo piano, e dalla sua capacità di trovare risposte ai problemi prioritari del miglioramento delle colture nelle terre marginali, della selezione di varietà cerealicole adatte agli ambienti più poveri, dello sviluppo di colture alimentari secondarie ad alto rendimento e resistenti alla siccità, del miglioramento delle varietà di radici e tuberi e in particolare della fissazione biologica dell'azoto atmosferico nel terreno, dipenderà molto dell'avvenire alimentare delle regioni più povere. La ricerca scientifica non potrà comunque esplicare completamente la sua potenzialità se nelle sedi responsabili non si metteranno a punto politiche meno protezionistiche e destabilizzanti da parte dei paesi sviluppati e non si troveranno più facili termini di pagamento per le importazioni di derrate primarie da parte dei paesi più poveri, senza che ciò comporti loro stravolgimenti nello schema delle altre importazioni.

Dal punto di vista dell'utilizzazione delle terre (tab. 9) può dirsi che, dal 1970 al 1988, vi sono state variazioni rilevanti per le terre a coltura (seminativi e arboree), che sono aumentate del 4,8%, e per le foreste, che sono diminuite di circa il 3,4%; mentre pressoché stazionarie sono risultate le superfici a pascolo (+1,2%) e le superfici inutilizzate o improduttive (+0,7%). L'evoluzione regionale dei tipi di utilizzazione del suolo fornisce utili elementi per interpretare le trasformazioni in atto: le terre coltivate aumentano in Oceania, in Africa, in America Latina e in Estremo Oriente, mentre sostanzialmente restano stazionarie o risultano in calo nelle altre regioni; i prati e i pascoli, base dell'attività zootecnica, sono in aumento nel Nord America, nell'America Latina, nel Medio Oriente e nei paesi a economia centralizzata europei; le foreste aumentano nell'Europa occidentale e nei paesi a economia centralizzata sia asiatici che europei, mentre diminuiscono altrove, soprattutto nel Nord America, in Oceania e in tutti i paesi in via di sviluppo; le superfici inutilizzate o improduttive, infine, sono generalmente in aumento, mentre diminuiscono nettamente nei paesi a economia centralizzata sia asiatici che europei.

Dai riferimenti per abitante (tab. 10) è deducibile, per effetto dell'andamento demografico, un calo generalizzato nelle disponibilità individuali di terre; fanno modesta eccezione i prati e i pascoli in Medio Oriente e le foreste in Oceania.

Recenti studi della FAO mettono in evidenza che nel futuro in molte regioni in via di sviluppo, a meno dell'introduzione massiccia di nuove tecniche produttive agricole, le derrate pro capite saranno insufficienti, mentre in altre aree sviluppate il problema è opposto per i continui incrementi di produttività che generano, anche per la sostanziale stasi demografica, eccedenze alimentari. Nelle prime quindi solo l'innovazione tecnologica e il rallentamento del tasso di crescita della popolazione sembrano poter offrire una risposta adeguata al problema, così come nelle seconde maggiori aperture commerciali e utilizzazioni alternative dei suoli possono allentare la tensione e contribuire a un maggiore equilibrio tra paesi a differente livello di sviluppo.

In termini di valori reali (tab. 11) si nota dal 1980 al 1985 un aumento soddisfacente della produzione agricola mondiale che è cresciuta al tasso annuo del 2,6%; con riferimento a questo valore hanno mostrato risultati migliori, fra i paesi sviluppati, l'Oceania (3,7%), fra i paesi in via di sviluppo, l'Estremo Oriente (3,6%) e l'Africa (2,7%) e, fra i paesi a economia centralizzata, quelli asiatici (5,3%). Gli aggregati a minore saggio di sviluppo sono stati l'Europa occidentale (1,0%) fra quelli sviluppati, il Medio Oriente (2,4%) fra quelli in via di sviluppo, e i paesi dell'Europa orientale e l'Unione Sovietica (2,1%) fra quelli a economia centralizzata.

Fra i fattori impiegati quello più significativo nei confronti fra aggregati appare il consumo di fertilizzanti che mostra peraltro una marcata differenziazione; in Africa nel 1983 l'impiego di fertilizzanti per ettaro di terra coltivato ha raggiunto appena un ventesimo di quello dei paesi sviluppati; tale valore è salito a circa il 40% nel Medio ed Estremo Oriente, mentre nei paesi asiatici a economia centralizzata questo ha superato il 140%; in generale può dirsi che l'uso di fertilizzanti sulle terre coltivate è basso in tutti i paesi in via di sviluppo a eccezione dei paesi asiatici a economia centralizzata, mentre il riferimento pro capite evidenzia un netto divario fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo.

La tab. 12 riassume l'evoluzione del rapporto fra crescita della popolazione, produzione agricola e importazioni alimentari nel periodo 1974-84, mettendo in risalto alcune fondamentali differenze fra gli andamenti delle curve relative ai paesi sviluppati e quelle riferite ai paesi in via di sviluppo. L'analisi evidenzia, in linea di massima, una crescita della produzione alimentare più rapida di quella della popolazione: solo nei paesi meno avanzati, e soprattutto in Africa, l'incremento demografico continua a essere superiore a quello alimentare. Occorre peraltro rilevare che anche quando la produzione di derrate cresce più rapidamente della popolazione il suo tasso d'incremento non è tale da far fronte alla domanda, per cui molti paesi sono comunque costretti ad aumentare le importazioni solo per mantenere costante il livello di energia alimentare pro capite. Fa eccezione a questa tendenza il comportamento dei paesi asiatici altamente popolati, che sono riusciti a realizzare tassi incrementali di prodotto talmente elevati da compensare gli aumenti demografici e a migliorare nello stesso tempo livelli di energia alimentare pro capite. Nonostante questi favorevoli sviluppi, milioni di persone rimangono ancor oggi sottonutrite e inoltre in interi continenti, come l'Africa, i ritmi d'incremento demografico, se non saranno contenuti, porteranno nei prossimi anni a un aggravio della situazione alimentare.

Politica comunitaria. - Dopo oltre trent'anni dalla firma del Trattato di Roma è oggi possibile fare un consuntivo e verificare se, e in quale misura, gli obiettivi enunciati sono stati raggiunti.

Per alcuni di essi la risposta può essere senz'altro positiva, come per la sicurezza degli approvvigionamenti, che è sensibilmente migliorata in termini sia qualitativi che quantitativi, per il contenimento dei prezzi alla produzione, per lo sviluppo della produttività, che nell'a. europea ha progredito più che in qualsiasi altro settore; per altri obiettivi il cammino iniziato potrà dare risultati realisticamente solo nel lungo periodo, come per l'allineamento dei redditi agricoli a quelli degli altri settori e la loro stabilizzazione, o per l'armonizzazione delle legislazioni agricole; per altri, infine, si può dire che l'obiettivo è stato mancato, come testimonia il divario esistente fra le strutture e i redditi delle diverse a. europee che, ben lungi da una riduzione, si è, anzi, per alcuni aspetti aggravato rispetto al 1957 (tabb. 13-16). Responsabile dell'insuccesso è stato non tanto il complesso delle politiche poste in essere, in materia di prezzi e di strutture, quanto il modo distorto nel quale esse hanno operato, di cui sono prova la netta prevalenza del costo della prima − la politica dei prezzi − sulla seconda − la politica delle strutture − (il 95% delle spese FEAOG previste per il 1989 sono per la Sezione Garanzia) e la sperequata distribuzione dei vantaggi risultati assai più ampi per le a. più forti e meglio organizzate e per le strutture produttive più efficienti e competitive. Le conseguenze sono state, da un lato, la creazione di eccedenze produttive non collocabili sui mercati solvibili e costose nella loro gestione, il ritardo del processo di ammodernamento e di effettiva integrazione delle diverse a. nazionali, la nascita e il consolidamento di un sistema agricolo europeo protetto e scarsamente sensibile all'evoluzione dei mercati internazionali, nel quale gli interessi nazionali hanno prevalso su quelli comuni, e dall'altro lato − quello dei consumatori − l'onere di doverne pagare il costo sempre più elevato.

Il nodo centrale è stato il meccanismo di funzionamento della politica dei prezzi che si è prestato più al soddisfacimento di istanze nazionali o corporative che all'affermarsi di un sistema agricolo integrato. In molti casi le scelte del livello dei prezzi agricoli hanno trovato larghe convergenze sia fra le nazioni ad a. debole (perché veniva in qualche modo garantita loro la sopravvivenza di interi comparti produttivi) sia tra i paesi ad a. forte (perché per essi maggiori erano i vantaggi economici, come nel caso dei cereali, del latte e dei suoi derivati). In altri casi, la mancanza di un comune interesse o lo scarso peso politico del paese proponente hanno portato a trascurare ampi comparti creando problemi gravi, anche se territorialmente circoscritti, come nel caso delle produzioni oleaginose. A ciò deve aggiungersi che le diversità strutturali di partenza che sono state alla base dello scarso interesse di nazioni ad a. forte come la Francia, la Germania e l'Olanda e la mancanza di sensibilità per i problemi non contingenti paradossalmente mostrata da paesi ad a. debole come l'Italia, hanno limitato nei contenuti e ritardato nel tempo l'avvio di un'efficace politica di riequilibrio strutturale che, a posteriori si può ormai dire, è stata comunque, ancora una volta, meglio utilizzata dai paesi più organizzati per un ulteriore avvantaggiamento.

Proprio per intervenire a favore dei paesi e dei comparti più in ritardo è stato varato nella seconda metà degli anni Settanta un sistema di aiuti specifico chiamato ''Pacchetto mediterraneo'' che, sempre nella logica dagli effetti perversi delle integrazioni di prezzo e dei premi alla produzione, ha temporaneamente sostenuto l'esistente rimandando ancora una volta la realizzazione di aziende valide ed efficienti nel futuro.

Sta di fatto che il protezionismo che si è affermato nell'a. europea ha giovato solo ad alcuni produttori e ha generato imponenti eccedenze che alimentano vendite in dumping, e generano e sostengono tensioni internazionali come i conflitti d'interesse fra CEE e Stati Uniti in sede GATT (General Agreement on Tariffs and Trade). Tali eccedenze, del resto, anche quando sono impiegate per aiuti umanitari nel Terzo Mondo, al di là del beneficio contingente, producono al paese che li riceve guasti duraturi in quanto esercitano una concorrenza impropria nei confronti delle già deboli a. locali.

Tutto questo ha un costo, un costo molto elevato per la finanza pubblica e per i consumatori che sono sempre meno disposti ad accettarne l'onere e che non capiscono perché non si possa spendere meglio quel denaro indirizzandolo verso investimenti produttivi e perché non si possa venire a capo del controsenso di violentare l'ambiente con fertilizzanti e pesticidi per forzare produzioni non vendibili e costose da immagazzinare: quasi il 50% del bilancio complessivo della Comunità economica europea (oltre 20.000 miliardi di lire) è impiegato non per interventi diretti in a., ma per la gestione e lo smaltimento delle scorte.

Il costo del protezionismo agricolo europeo è tuttavia per il contribuente ben più elevato: l'OCSE lo stima intorno ai 120.000 miliardi di lire annui ripartito per il 35% sulle risorse pubbliche (le contribuzioni degli Stati membri) e per il restante 65% sul mercato, cioè sul consumatore che paga le derrate a prezzi più elevati di quelli praticati per le stesse derrate sui mercati internazionali. L'insostenibilità della situazione ha avviato un processo di revisione della politica agricola comunitaria che si è progressivamente accelerato per il mutato quadro di riferimento internazionale − dominato dalla nuova realtà di un eccesso di offerta sulla domanda − e per le necessità di bilancio in relazione all'esigenza di mettere sotto controllo la spesa agricola. Tale revisione è incentrata per quanto riguarda le politiche di mercato su tre linee:

− applicazione di una restrittiva politica in materia di prezzi;

− eliminazione graduale degli automatismi e miglioramento della flessibilità dei meccanismi d'intervento per restituire loro la funzione di ''rete di sicurezza'' che opera solo per attenuare le fluttuazioni congiunturali della produzione e non per smaltire le eccedenze;

− generalizzazione della corresponsabilità degli agricoltori nello smaltimento della produzione attraverso la fissazione di quantitativi massimi per i quali viene concesso l'aiuto comunitario con riduzioni proporzionali dello stesso in rapporto al superamento di tale limite.

Queste linee comportano certamente un impatto negativo sui redditi agricoli, soprattutto su quelli dei conduttori di aziende insufficientemente strutturate o ubicate in zone marginali per cui, nelle more del non breve processo di adeguamento strutturale e di riequilibrio fra offerta e domanda e nell'intento di attenuare gli effetti di una politica di rigore, è stata prevista la possibilità di riconoscere temporaneamente diritti nazionali a contingenti di produzione a prezzo garantito e di consentire aiuti diretti da parte dei governi dei paesi maggiormente colpiti. La logica dunque è ora quella di favorire l'adeguamento strutturale attraverso un regime comunitario di aiuti agli agricoltori, taluni di natura congiunturale e con caratteristiche di flessibilità tali da consentire agli Stati membri una certa libertà di azione nel rispetto del livello di aiuto stabilito. Ciò è previsto per le aziende che presentano condizioni strutturali in grado di raggiungere elevati livelli di efficienza e che sono gestite da imprenditori ''a titolo principale'', mentre per le aziende che, pur non avendo queste prospettive, hanno tuttavia una rilevanza occupazionale marcata e un ruolo importante in equilibri socio-economici locali sono previsti aiuti diretti al reddito. Analogamente viene fatto a favore degli imprenditori in età avanzata per favorirne la cessazione dell'attività e per consentire la ristrutturazione delle loro aziende. Nota caratteristica di questi aiuti è che essi sono del tutto indipendenti dai prezzi, dalla produzione e dalla quantità dei fattori impiegati, per cui si tratta, e qui sta l'innovazione, di sostegni che non vanno, come avveniva in passato, attraverso la politica dei prezzi, a vantaggio delle imprese più solide. Da questa impostazione, inoltre, discende la possibilità, inesistente in passato, di modulare l'intervento e di localizzare individualmente e territorialmente i flussi finanziari, ma discende anche la necessità per gli agricoltori di programmare con più attenzione la produzione e di disporre di un'adeguata assistenza tecnica ed economica.

Non meno problematico appare il giudizio sulla politica delle strutture. Nonostante che nella Conferenza di Stresa (1958) si fosse messo nella massima evidenza che sarebbe stato impossibile nel processo d'integrazione agricola dissociare i problemi di struttura da quelli di mercato e che in concreto si fossero emanate già nel 1972 e nel 1975 direttive specifiche per l'ammodernamento delle strutture, i risultati di questa politica sono stati in Europa controversi: bene in Francia e in Germania quella sulla formazione professionale; scarsamente attiva in Italia, per deficienze organizzative e ostacolata dalla crisi degli anni Ottanta quella sull'ammodernamento strutturale sulla base dei piani di sviluppo aziendali; generalmente poco utilizzata in Europa quella sull'incentivazione alla cessazione dell'attività agricola attraverso il prepensionamento degli imprenditori. Dal punto di vista delle somme erogate la direttiva che ha operato di più è stata quella in favore delle zone svantaggiate che, applicata su quasi la metà della superficie agricola della Comunità, è oggi la più riuscita fra le azioni strutturali in termini di apporto finanziario. Poiché nelle zone difficili è spesso necessario intervenire sull'intero tessuto economico, si è cercato di operare attraverso programmi integrati consistenti nella concentrazione su di un progetto di importanti interventi finanziari provenienti da varie fonti − comunitarie, statali e regionali − con il fine di catalizzare lo sviluppo dell'intera regione.

Nell'insieme, quindi, la politica delle strutture è in gran parte fallita. Per questo motivo nel 1985 è stata avviata una nuova politica per l'ammodernamento strutturale dell'a. europea (regolamento 797) operativa fino al 1990 e innovativa per molti aspetti:

− sostituzione del piano di sviluppo a fini produttivistici con il piano di miglioramento delle aziende e dei redditi agricoli da attuarsi mediante la riduzione dei costi di produzione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e la protezione dell'ambiente;

− graduazione fino a zero dei contributi comunitari per interventi volti ad accrescere la produzione in settori eccedentari;

− corresponsione di consistenti aiuti per la formazione professionale e per l'assistenza all'a. nelle zone svantaggiate;

− sostegno alla selvicoltura e al rimboschimento delle superfici agricole.

Al finanziamento di questa nuova politica contribuirà la riforma dei fondi strutturali (agricolo, regionale e sociale) e il loro previsto raddoppio entro il 1993, ma il risultato dell'operazione appare ancora incerto in quanto lo sfasamento fra i tempi d'intervento di una politica sempre più restrittiva sui mercati (con effetti a breve) e quelli di un'azione di miglioramento strutturale (efficace nel medio-lungo periodo) potrebbe portare a una rinazionalizzazione degli aiuti e di conseguenza a un riallontanamento dell'a. europea da una reale integrazione sovranazionale.

Bibl.: Club di Roma, I limiti dello sviluppo, Milano 1973; Arab Organization for Agricultural Development, Studies 1972-1982, Khartoum 1983; Society for International Development, Innovative approaches to rural development, Roma 1983; G. Colombo, I problemi della agricoltura meridionale nella prospettiva dell'allargamento comunitario, in Atti dell'Accademia dei Georgofili, Firenze 1984; E. Di Cocco, L'agricoltura nella società in sviluppo, Bologna 1984; Commissione delle Comunità Europee, Prospettive per la politica agricola comunitaria-Documento Com (85) 333, del 15 luglio 1985; M. De Benedictis, Rapporto CNEL sulla Politica agricola comunitaria negli anni '80, Roma 1986; Confederazione generale della agricoltura italiana, Rapporto sulla agricoltura italiana, ivi 1987; FAO, Land resources for populations of the future, ivi 1987; D. Salvatore, The new protectionist threat to world welfare, New York 1987; E. Salvini, Imprenditoria agricola, progresso tecnico e nuovi soggetti decisionali, in Arti e Mercature, Firenze 1987; G. Colombo, Economical aspects of re-use of drainage water, in Atti dell'International Seminar on the re-use of low quality water for irrigation, Aswan 1988; A. Marinelli, L. Casini e D. Romano, Le produzioni forestali, in Annuario della agricoltura italiana, Roma 1988.

Diritto. - Una pluralità di fonti normative concorre alla formazione del diritto agrario moderno: i mutamenti istituzionali interni verificatisi nel corso degli anni Settanta con la formazione degli ordinamenti regionali e il consolidarsi di quello comunitario con il conseguente adeguamento dell'ordinamento interno alla politica agricola che ispira il diritto comunitario, consentirebbero di parlare di un diritto agrario comunitario e di un diritto agrario regionale. Parlando tout court di diritto dell'agricoltura o di diritto agrario si presuppone, pertanto, la nuova base ordinamentale e il concorso di tali fonti. La completa comunitarizzazione dei diritti interni dei paesi membri della CEE, una volta superati gli stadi del ''riavvicinamento'' delle diverse legislazioni, dovrebbe costituire il punto terminale di un processo di integrazione, anche legislativa, tuttora in atto.

Il processo di integrazione in parola è stato segnato in questi ultimi anni dalla modifica degli stessi Trattati istitutivi delle Comunità europee con la sottoscrizione dell'Atto Unico Europeo (Lussemburgo, 17 febbraio 1986) ratificato in Italia con l. 23 dicembre n. 909 dello stesso anno. L'art. 130-R di tale Atto amplia, confermando l'evoluzione della politica comunitaria in quella direzione, le competenze della Comunità istituzionalizzando anche quelle in materia ambientale: tale linea evolutiva si salda, infatti, a quella inaugurata in materia di politica agraria delle strutture (Regolamento CEE 797/85 e sue modificazioni) segnando − rispetto alle Direttive socio-strutturali del 1972 − il nuovo corso della politica comunitaria.

La nuova politica delle strutture è pensata in funzione della riduzione delle produzioni eccedentarie ma contemporaneamente anche in funzione del ripristino dell'agro-eco-sistema e quindi a tutela delle risorse naturali e a salvaguardia dello spazio rurale. Spesso ricorre nella recente normativa comunitaria la tecnica di incentivazione di un diverso modo di produrre (si parla così spesso di a. biologica; v. agricoltura biologica, in questa Appendice). La disciplina della produzione agricola, ivi compresa quella di natura zootecnica, è vista pertanto in funzione della qualità dei prodotti (di natura vegetale e animale) destinati all'alimentazione dell'uomo. Anche il sistema normativo del diritto agrario interno è destinato pertanto, in quest'ottica, a svolgere una nuova funzione, quella della tutela della salute del consumatore e della qualità della vita attraverso la tutela dell'ambiente (Capizzano 1987).

D'altra parte non c'è incompatibilità fra esigenze produttive e ''razionalità dello sfruttamento del suolo'', secondo la formula costituzionale dell'art. 44, essendo evidente l'interesse dello stesso produttore, oltre che della collettività, a un uso ''razionale'' delle risorse, nel momento in cui la stessa produzione agricola di qualità diventa un importante elemento di concorrenzialità fra gli stessi produttori sul mercato dei prodotti agricoli e il nuovo corso della politica comunitaria va incontro alle mature esigenze dei consumatori. Viene superato, a distanza di quasi quindici anni dalle Direttive sopra richiamate del 1972, il momento della produttività a ogni costo in funzione di una maggiore competitività sul mercato di imprese agricole in grado di svilupparsi, centrale nel piano Mansholt. E ciò dal punto di vista del nostro ordinamento interno, mentre riemerge quella concezione dottrinaria che aveva gettato le basi, negli anni immediatamente successivi al completamento dell'ordinamento regionale (dPR 616/77), di una reinterpretazione della norma costituzionale aperta ai valori e agli interessi sottesi alla tutela ambientale attraverso la concezione di un'a. funzionale alla protezione della natura. Le funzioni regionali attinenti all'''a. e alle foreste'', ordinate, sulla base del predetto decreto, in funzione dell'''assetto e utilizzazione del territorio'', che fungeva da ''superconcetto'', consentivano alla Commissione Giannini di prospettare gli interventi degli enti territoriali per settori organici, sì che a.-produzione e a.-protezione tendevano a unificarsi sotto il profilo funzionale e a costituire, per il futuro, oggetto di unitaria normazione. Ciò che è accaduto, come si è detto, a livello comunitario, con la recente normativa: il programma d'azione delle Comunità europee in materia ambientale per gli anni 1987-1992 (Risoluzione del Consiglio del 19 ottobre 1987) è testimonianza di questa nuova filosofia della politica comunitaria e in esso, nel paragrafo concernente il ''miglioramento della gestione delle risorse'', figurano le misure di ''incoraggiamento alle pratiche agricole che arrecano giovamento all'ambiente''.

Si può così oggi discorrere, con le avvertenze iniziali, anche di un diritto agrario ambientale − come sistema normativo di settore che punta sulla tutela della salute dei consumatori attraverso una produzione agricola ottenuta con una contemporanea azione, dovuta alle ''nuove'' pratiche agricole, che preludono a un'a. ''dechimicizzata'' e comunque controllata − e di disinquinamento del territorio agricolo, che è gran parte dello habitat dell'uomo e degli altri esseri viventi.

Il punto terminale della elaborazione dottrinaria in questa disciplina, latamente definibile come diritto dell'economia agraria a base biologica, fa registrare una ricostruzione dello stesso diritto d'impresa in termini di plurifunzionalità dell'a., tradizionalmente intesa come mera attività produttiva e invece ora come erogatrice anche di servizi (imprese cosiddette agro-ambientali) per uno sviluppo socio-economico in funzione del riequilibrio territoriale e del rispetto del complesso dei beni culturali e ambientali, secondo la più moderna lettura dell'art. 9 della nostra Costituzione. A queste ulteriori esigenze sembra richiamarsi uno degli ultimi regolamenti comunitari (n. 3808 del 12 dicembre 1989) quando attribuisce all'imprenditore agricolo, di là dalla sua qualificazione formale, il potere, legittimante gli aiuti comunitari agli investimenti, di svolgere nella propria azienda ''attività forestali, turistiche, artigiane, o di protezione dell'ambiente e di conservazione dello spazio naturale e del paesaggio'': e ancora, sempre con l'obiettivo di una diversificazione delle fonti del reddito, ''l'attività di fabbricazione e vendita nell'azienda di prodotti dell'azienda stessa'' o di ''miglioramento delle condizioni igieniche e del benessere degli animali''.

Si inscrivono, così, in questa più ampia concezione del ruolo dell'agricoltore degli anni Novanta, le cui funzioni produttive sono inserite nel contesto socio-culturale e ambientale del territorio, alcuni interventi del legislatore nazionale, come quello di cui alla l. 5 dicembre 1985, n. 730 (l. quadro sull'agriturismo), che sono testimonianza dell'ampliamento delle attività che possono essere esercitate dall'imprenditore agricolo in funzione anche della domanda di un ''servizio''. La considerazione delle attività agrituristiche sub specie di attività d'impresa sia pure connesse (con un ampliamento della nozione delle stesse ex art. 2135 c.c. comma 2) viene inserita, però, nell'impianto generale di una legge che ha per principali finalità, come recita l'art. 1 della stessa, quelle di ''favorire lo sviluppo e il riequilibrio del territorio agricolo'', di ''agevolare la permanenza dei produttori agricoli nelle zone rurali attraverso l'integrazione dei redditi aziendali e il miglioramento delle condizioni di vita'', di ''favorire la conservazione e la tutela dell'ambiente'', di ''valorizzare i prodotti tipici'', di ''tutelare e promuovere le tradizioni e le iniziative culturali del mondo rurale'', di ''sviluppare il turismo sociale e giovanile'', di ''favorire i rapporti tra la città e la campagna''. Ciò consente all'interprete una duplice interpretazione e addita nello stesso tempo una nuova concezione dell'agricoltura. Da un lato, infatti, la capacità espansiva della categoria ''impresa agricola'' si sviluppa in due direzioni: verso nuovi prodotti, quali quelli dell'a. cosiddetta biologica, oltre che nella erogazione di servizi, in funzione del mercato; dall'altro lato, attraverso il recupero di una maggiore socialità della produzione e conseguente valorizzazione della specifica attività d'impresa.

Sono i due connotati dell'a. moderna non sempre contemporaneamente presenti negli interventi del legislatore degli anni Ottanta che a volte per motivi contingenti ha dato una risposta in termini di solo mercato a interessi di nuove categorie: ciò è avvenuto per es. per la funghicoltura (l. 5 aprile 1985, n. 126), considerata a tutti gli effetti attività imprenditoriale agricola e come tale sottoposta al particolare favor, anche e soprattutto nel caso di specie per ragioni fiscali, dello statuto dell'imprenditore agricolo. Un caso analogo si ha con la l. 20 novembre 1986, n. 778 che, allo scopo di estendere l'assicurazione infortuni e malattie professionali a nuove categorie di allevatori, amplia la nozione di allevamento quale risultava − secondo una prevalente dottrina e giurisprudenza − dall'art. 2135 del Codice civile.

Anche sul fronte del credito agrario, la cui legislazione superata attende ancora una radicale riforma, il legislatore si è mosso sulla base di motivi contingenti (per risolvere la crisi dell'industria di trasformazione del pomodoro in particolare) con la l. 1 ottobre 1981, n. 553. Sempre con riferimento ai rapporti fra imprese agro-industriali e produttori agricoli, l'attenzione del legislatore si incentra in epoca recente sui livelli di diretta contrattazione fra i rappresentanti delle opposte categorie (quelle dei produttori agricoli e le imprese di trasformazione o commercializzazione) con la finalità di consentire ai produttori agricoli una programmazione della loro produzione; l'obiettivo è quello di ''perseguire condizioni di equilibrio e stabilità del mercato''. Ma la l. 16 marzo 1988, n. 88, che disciplina attraverso gli accordi interprofessionali i cosiddetti contratti di integrazione agro-industriale, si spinge lungo l'itinerario accennato con l'intento di coniugare, anche in funzione della nuova domanda dei consumatori di prodotti alimentari, il profilo della produzione e della sicurezza dello sbocco sul mercato (con la determinazione in anticipo dei relativi prezzi o dei criteri per la loro determinazione), con quello della ''salvaguardia della salute dei consumatori'' attraverso il miglioramento della ''qualità'' dei prodotti stessi.

L'itinerario, in sostanza, che ha portato il legislatore degli anni Ottanta a scoprire da un lato il collegamento fra a. e ambiente e dall'altro quello fra produzione agricola destinata all'alimentazione e salute, si inserisce in un più ampio progetto di sviluppo economico-sociale del settore lungo la duplice direttrice tracciata al legislatore ordinario dalla Carta costituzionale nel già menzionato art. 44 e negli impliciti collegamenti sistematici di tale norma con altre importanti norme costituzionali tra cui l'art. 9, l'art. 32, l'art. 36 e l'art. 41 della stessa Carta. L'attuazione concreta di quel ''progetto'' passa ora, come si diceva all'inizio, attraverso il nuovo circuito istituzionale CEE-Stato-Regioni la cui evoluzione tuttora in atto ha mostrato la piena compatibilità esistente fra le norme di rango costituzionale interno e l'allargamento della base ordinamentale.

Il ruolo svolto al riguardo dalla giurisprudenza della Corte costituzionale negli anni Ottanta è stato ragguardevole e la sentenza n. 170 del 1984 rappresentò una vera svolta (v. anche le successive sentenze nn. 216, 304, 399 e 433 del 1987): l'immediata applicabilità della regolamentazione comunitaria anche in presenza di norme interne, con essa contrastanti e pure successive, rappresenta un principio ormai definitivamente acquisito. A quella della Corte costituzionale si aggiunse l'orientamento della stessa Cassazione che, con la sentenza 22 aprile 1987, n. 3909, attribuì all'interpretazione del regolamento da parte della Corte di Giustizia della Comunità, su richiesta di un giudice nazionale, efficacia vincolante per il giudice di ultima istanza, ove quest'ultimo, procedendo a un'autonoma valutazione, non ritenga di ravvisare ulteriori dubbi interpretativi e quindi rimettere nuovamente la questione alla Corte lussemburghese. L'impatto del diritto interno con quello comunitario e la necessità di una sua ''rivisitazione'' per adeguarlo alla normativa ''sovranazionale'' hanno costituito oggetto di ampi dibattiti nella dottrina anche agraristica e il legislatore nazionale è intervenuto con la l. 16 aprile 1987, n. 183, nell'intento di coordinare le politiche riguardanti l'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee e di adeguare l'ordinamento interno ai relativi atti normativi comunitari.

Il diritto agrario si sviluppa, così, alla stregua del modello comunitario di a. che punta al mercato unico e che, al riguardo della integrazione a.-industria, fa a meno, in una visione pragmatica dei relativi problemi, delle elaborazioni proprie della dogmatica come quelle in tema di impresa e azienda. Il problema agricolo è comunque collocato nella prospettiva dell'industria agro-alimentare: infatti i problemi della trasformazione e commercializzazione dei prodotti agricoli, considerati in un primo tempo attraverso il Reg. 353/77 come appartenenti a un'area extragricola, sono stati riportati dalla Corte di Giustizia nell'area della produzione agricola col conseguente diritto del produttore alla finanziabilità di investimenti rivolti al miglioramento delle relative strutture di conservazione, trasformazione e commercializzazione. In questo disegno si inserisce la politica di rafforzamento dell'associazionismo dei produttori (Reg. 1360/78) con competenze in ordine alla gestione dell'offerta e relativa organizzazione del mercato attraverso il Reg. 1760/87, che modifica lo stesso Reg. 353/77 con riferimento alla trasformazione e commercializzazione dei prodotti ottenuti dalla cosiddetta a. biologica. Col Reg. 1760 del 1987 la politica comunitaria batte definitivamente, attraverso le misure di riconversione ed estensivizzazione della produzione, la strada di una nuova professionalità in a., equivalente a capacità tecnica in funzione delle nuove esigenze del mercato e di una produzione compatibile con le esigenze dell'ambiente e quindi capace di avvalersi delle moderne tecnologie ''pulite''. Alle Regioni è demandato il compito di tradurre e di adeguare alle peculiari realtà i nuovi orientamenti della politica comunitaria.

Sul fronte dei rapporti contrattuali agrari (nei rapporti di mero diritto privato le Regioni non hanno competenza legislativa) l'evoluzione segue, per così dire, una via nazionale di consolidamento di alcune scelte di fondo. Il legame con la politica comunitaria è rappresentato dalla preferenza per il contratto d'affitto e la sua lunga durata. Ma la loro evoluzione nel senso della trasformazione dei contratti di natura associativa in quello d'affitto, che aveva preso l'avvio con la cosiddetta l. antimezzadria 1964, segue una sua strada.

La vicenda complessiva in parola risulta segnata da scelte, anche politiche, di superamento di forme contrattuali fondate sulla collaborazione capitale-lavoro di stampo corporativo, che diventano palesi nel periodo dei governi di solidarietà nazionale e dopo alterne vicende si conclude con la l. n. 203 del maggio 1982.

Tale legge, cosiddetta di riforma dei patti agrari, oltre a consolidare il sistema dell'equo canone, a stabilire una durata legale di quindici anni per il contratto d'affitto anche a coltivatore diretto, ha come motivo centrale l'istituto della conversione delle forme contrattuali citate in quella dell'affitto. La Corte costituzionale (v. sentenza n. 138 del 1984) ha sostanzialmente avallato le scelte del legislatore (v. per l'equo canone la sentenza n. 139 dello stesso periodo) introducendo però, per quanto riguardava la conversione, il nuovo criterio dell'''adeguato apporto'' del concedente alla condirezione dell'impresa mezzadrile, la cui sussistenza, ad avviso della Corte, rendeva illegittima la conversione a richiesta di una sola parte e senza il consenso del concedente: in presenza di tale ''addizione'' i numerosi giudizi pendenti davanti alle diverse sezioni specializzate agrarie avevano avuto diverse soluzioni, data la difficoltà di una interpretazione uniforme di una formula priva di concreto contenuto normativo; altri giudizi erano rimasti quiescenti in attesa di una legge che traducesse in una precisa regola di valutazione la formula adottata dalla Corte costituzionale.

Successivamente è intervenuta a dirimere il conflitto interpretativo, fra le sezioni specializzate e nella stessa dottrina, una sentenza della Cassazione a sezioni unite (n. 3947, 10 giugno 1988), fondando la sua interpretazione (considerata da una parte della dottrina come filoconcedente) sull'assenteismo del concedente, che era alla base della stessa sentenza dei giudici della Consulta. All'assenteismo, quando esso ricorreva, andava imputata, secondo la Cassazione, la trasformazione di fatto del rapporto associativo in quello d'affitto, dato che la ''trasformazione'' del rapporto, avvenuta in fatto, aveva reso il concedente un ''puro percettore di reddito''. La Cassazione ha così ritenuto che l'osservanza nel corso del rapporto degli obblighi contrattuali, discendenti dal contratto di mezzadria da parte del concedente, e quindi la sua partecipazione alla condirezione dell'impresa, anche a mezzo di propri rappresentanti, è di ostacolo alla conversione di cui all'art. 25 della l. n. 203/82. È intervenuta, ora, la l. 14 febbraio 1990, n. 29 che, sulla stessa linea interpretativa, enuncia la regola della sussistenza dell'''adeguato apporto alla condirezione dell'impresa'' ogni qualvolta ricorrano congiuntamente una serie di circostanze che vanno dalla partecipazione del concedente agli investimenti, all'abitabilità della casa colonica, al conferimento di scorte vive e morte e alla regolare tenuta della contabilità (v. art. 4, l. cit.).

L'epilogo della vicenda segnato dalla citata l. n. 29 del 1990 è assai significativo: tra l'altro, in ordine alla durata dei contratti associativi non trasformati in affitto, la recente legge riconosce all'art. 6 piena validità a clausole contrattuali che prevedano una più lunga durata, rispetto alle durate massime legali scadenzate dall'art. 34 della l. n. 203/82, qualora siano poste in essere con la procedura di cui all'art. 45 (''accordi in deroga'' stipulati dalle parti contraenti assistite dai rappresentanti delle rispettive organizzazioni professionali) della stessa legge di riforma del 1982. Si viene così a legittimare un prolungamento della durata delle mezzadrie ancora in corso, nonostante il divieto, enunciato a chiare lettere dall'art. 45, di stipulare, anche attraverso la procedura degli ''accordi in deroga'', nuovi contratti di mezzadria, colonia parziaria, di compartecipazione agraria, esclusi quelli stagionali e quelli di soccida. E così la riduzione della tipologia contrattuale all'affitto operata dalla l. n. 203/82 perde gran parte della sua rigidità e nella prassi contrattuale il ricorso all'art. 45 è destinato ad accompagnare la stipula non soltanto dei nuovi contratti d'affitto (contratti ''tipo'' sono prefigurati in accordi collettivi stipulati dalle organizzazioni professionali in alcune province italiane) ma forse anche a far rivivere le mezzadrie pur nello sfavore legislativo a cui esse sono state fatte segno dagli anni Sessanta a oggi.

Bibl.: E. Capizzano, Per un diritto agrario ambientale, in Rivista di Diritto Agrario, 1987; E. Romagnoli, L'impresa agricola, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. 21, Torino 1987; G. Sgarbanti, Le fonti del diritto agrario, i, Padova 1988; L. Francario, L'impresa agricola di servizi, Napoli 1988; E. Capizzano, Agricoltura e Zootecnia, in Enciclopedia Giuridica, vol. i, Roma 1988; Compendio di diritto agrario comunitario, a cura di E. Capizzano, Università di Camerino 1988; Impresa e azienda nel diritto agrario, strumenti della P.A.C. e ruolo delle Regioni, a cura di E. Capizzano, ivi 1989.

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