AIACE di Oileo

Enciclopedia Italiana (1929)

AIACE di Oileo (Αἴας Οἰλῆος, Aiax Oïlei)

Giorgio Pasquali

Figura singolarissima della leggenda e dell'epopea greca. Nell'Iliade combatte per lo più a fianco dell'omonimo Telamonio (v.), con il quale forma per ogni rispetto un contrasto. È piccolo di statura (l'altro è gigantesco), porta una corazza di lino (l'altro l'immenso scudo miceneo), la sua principale abilità è la velocità nella corsa. È il capo dei Locri (l'altro non ha vera patria). Non s'intende dunque perché i due, che non hanno, si può dire, null'altro di comune che il nome, debbano nell'Iliade combattere quasi sempre a fianco l'uno dell'altro. E il problema è reso più complicato da ciò, che il Telamonio ha anche un fratello legittimo Teucro (v.), dissimile da sé e per certi rispetti simile a quel di Oileo, arciero, come arcieri sono i Locri guidati da Aiace di Oileo. Per un'altra presunta somiglianza v. sotto.

Mentre nell'Iliade A. di Oileo ha, insomma, poca parte, egli fa parecchio parlar di sé negli avvenimenti che tengono subito dietro alla presa di Troia, da quando, si può dire, scompare il suo omonimo. Secondo un poema ciclico, forse l'Iliupersis, nello strappare a forza Cassandra dal simulacro di Atena, rovescia questo, sicché deve rifugiarsi sull'altare della dea per sfuggire al giusto sdegno dei compagni che vogliono lapidare il sacrilego. Secondo un'altra versione, che, al dire di Pausania, fu seguita da Polignoto nella sua pittura in Delfi, A. si salvò invece con uno spergiuro prestato dinanzi all'altare di Atena.

La letteratura e l'arte figurata hanno svolto tali leggende. Già pitture vascolari molto antiche rappresentano l'atto di A. contro Cassandra. Secondo una versione, trattata da Callimaco e da Licofrone, ma già accennata, pare, in una rappresentazione ceramica tarentina anteriore al sec. IV, e forse anche più antica, A. reca violenza a Cassandra presso il Palladio, che per orrore alza gli occhi al cielo, e rimane così anche in seguito.

I Nosti narravano di una tempesta che Atena, adirata per il delitto di Aiace, sollevava contro gli eroi greci tornanti in patria presso il capo Cafereo nell'Eubea, disperdendo la loro flotta. Una parte recente dell'Odissea sa che A. fu precipitato in acqua, ma per la protezione di Posidone poté inerpicarsi sugli scogli Girei (Γυραίη πέτρη) e si sarebbe salvato, se non avesse profferito una parola offensiva per gli dèi, cioè che egli anche contro la loro volontà era sfuggito alla morte; Posidone stesso spezza allora col tridente lo scoglio, sicché l'eroe annega. Un'altra forma della leggenda, secondo la quale egli sarebbe stato colpito da Atena col fulmine di Zeus, è già nota a Euripide nelle Troadi, e adottata poi da Erone nell'esempio di dramma dato nel suo scritto sul teatro automatico.

Il problema che questo eroe ci presenta, è molto complicato. Quali interessi abbiano indotto poeti epici posteriori a rappresentarlo sacrilego, non s'intende. E non è facile dire quale sia la sua relazione con l'omonimo Telamonio. Egli sembra in parte integrarlo (patria), in parte formar con lui, come si è detto, il più spiccato contrasto. È stata spesso sostenuta, anche con argomenti speciosi, un'identità originaria, che dovrebbe a ogni modo essere molto anteriore alla nostra Iliade.

Osservazioni linguistiche, fatti culturali e recenti ritrovamenti rendono il problema sempre più complesso. Se l'Iliade chiama Oileus il padre del nostro eroe, altre fonti, tra cui già un'anfora attica del 450 circa e un frammento attribuito a Esiodo, lo dicono Ileus (o Vileus, 'Ιλεύς e Fιλευς), cioè dànno al nome una forma che par connetterlo con la città di Ilio, contro la quale l'A. di Omero, invece, combatte. E questa tradizione è garantita dalla trascrizione etrusca Vilatas. Né può essere fortuita la coincidenza con il nome del fratello dell'altro A., Teucro, omonimo del popolo dei Teucri. Ma d'altra parte riesce difficile immaginare, oltre lo sdoppiamento, un trasporto di leggenda, e un tale trasporto.

Una tradizione ricca e sicura testimonia che i Locri, colpiti da una pestilenza, avendo interrogato l'oracolo delfico, si ebbero in risposta che cagione della moria era il misfatto di A., che aveva mosso a sdegno Atena: il dio impose loro di mandare quale compenso per la sacerdotessa violata due fanciulle quali ierodule all'Atena d'Ilio. Gli abitatori di quella costa accolgono male, a sassate, le sacerdotesse, ma a queste pur riesce d'insinuarsi nel tempio. L'uso, intermesso nel 345, cioè mille anni dopo la presa di Troia secondo una cronologia molto diffusa, fu rinnovato nel sec. III, come prova un'epigrafe ritrovata recentemente: le ragazze, secondo quest'epigrafe, erano fornite dalle famiglie che riconducevano la loro origine ad Aiace.

Qualcuno da queste notizie altrettanto interessanti quanto difficili a spiegarsi ha concluso che il delitto di A. è un fatto storico! Evidentemente il racconto non mostra altro se non che in un'età nella quale i poemi ciclici erano già notissimi e Delfo godeva già indiscussa autorità, la Locride devastata da una pestilenza si rivolse all'oracolo, e ne ebbe quel responso e vi si attenne. Gli altri problemi sono di ben più difficile soluzione: il bandolo non pare ancora trovato.

Bibl.: I problemi intorno ai due Aiaci e specie al Locro sono stati molto discussi negli ultimi anni. Oltre agli art. di J. Töpffer, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. der class. Altertumswiss., I, col. 936 e Fleischer in roscher, Lexikon der griech. u. röm. Mythologie, I, col. 133 segg., e oltre a Robert, Griech. Heldensage, Berlino 1920 segg., pp. 1037, 1266, 1450; v. Bethe, Homer, Lipsia 1927, III, p. 115, che presenta il materiale con rara completezza, ma inclina a combinazioni troppo ardite. Per le nuove versioni della leggenda del Palladio, Robert, Römische Mitteilungen, XXXIII (1928), 31, non in tutto convincente. Quanto alle fanciulle locre, cfr. ora specie Wilamowitz, Ilias und Homer, Berlino 1916, p. 383 (meglio che Bethe); la soluzione del problema, difficile e interessante, non importa forse molto alla leggenda originaria di A. L'epigrafe di Naryca pubblicata da A. Wilhelm, Österreichische Jahreshefte, 1911, p. 163 segg., con dottissimo commento.

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