Kurosawa, Akira

Enciclopedia dei ragazzi (2006)

Kurosawa, Akira

Marco Pistoia

Il regista dei samurai

Kurosawa è stato il più famoso e celebrato tra i registi giapponesi del Novecento, grazie anche alla sua predilezione per le storie ambientate nel mondo dei samurai, con le quali ha reso famosa nel mondo occidentale una fondamentale tradizione del suo paese. Oltre a realizzare film dalle immagini suggestive e dal carattere avventuroso, basati su personaggi forti ma spesso ambigui e tormentati, Kurosawa ha raccontato, negli stessi anni nei quali in Italia si affermava il neorealismo, storie di vita quotidiana per lo più ambientate in luoghi poveri e desolati

Gli anni della formazione

Akira Kurosawa, nato a Tokyo nel 1910, discendeva da una famiglia di samurai e sin da bambino sviluppò un forte interesse per il cinema, appassionandosi anche ai film europei.

Nella sua autobiografia – L’ultimo dei samurai. Quasi un’autobiografia (1983) – racconta che tra i 9 e i 20 anni ebbe modo di vedere numerosi film, spesso occidentali, classici del cinema muto. Dedicatosi alla pittura, era in realtà destinato al cinema e all’età di venticinque anni entrò come assistente negli studi della casa di produzione Photo chemical laboratory di Tokyo. Alcuni anni dopo ebbe la possibilità di collaborare con uno dei più importanti registi giapponesi dell’epoca, Mikio Naruse, e nel 1943 diresse il suo primo film, Sugata Sanshiro, ispirato alla vita di un famoso campione di judo. Lo spirito più tipico del suo cinema si rivela già in questo film d’azione, che tratta temi, poi abituali del regista, quali il coraggio e la lealtà.

Il gusto delle piccole azioni quotidiane

Uscito poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale, Una meravigliosa domenica (1947) esprime l’altro aspetto dello stile di Kurosawa, quello incline al racconto di storie semplici e di ambientazione contemporanea. La vicenda di due poveri fidanzati alla ricerca di una casa offre una rappresentazione simile a quelle del neorealismo italiano, poi confermata da L’angelo ubriaco (1948), considerato uno dei suoi capolavori. Con questa storia, che narra il rapporto tra un medico e uno yakuza – un gangster giapponese –, avvenne l’esordio di un grande attore, Mifune Toshiro, che sarà spesso protagonista dei suoi film.

Kurosawa da questo momento iniziò ad alternare la realizzazione di drammi contemporanei a quella di drammi storici, nei quali emergono la spettacolarità del suo cinema e il ritmo impresso a ogni scena e a ogni inquadratura. Il regista si rivelò subito in grado di fare tesoro della lezione ricavata dai numerosi film occidentali che aveva amato e di saperla coniugare con le tradizioni culturali del suo paese (in particolare, il teatro giapponese), con l’impostazione stilizzata della recitazione e il gusto buffonesco di certe rappresentazioni.

Nei suoi primi importanti film un ruolo assai significativo è svolto dalla città di Tokyo che, soprattutto con i suoi bassifondi, è ancora al centro di Cane randagio (1949), il film che precedette l’uscita dell’opera più celebre di Kurosawa, Rashomon (1950).

Le grandi azioni di battaglia

Fu Rashomon a far conoscere il regista nel mondo occidentale, anche grazie al Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia e all’Oscar come migliore film straniero, entrambi ottenuti nel 1951.

Davanti a un portale che conduce al castello di Rashomon si svolge una storia misteriosa, basata su alcune testimonianze relative alla morte di un samurai. In un’atmosfera magica e incantata, la vicenda viene raccontata più volte seguendo le diverse e contrastanti versioni dei personaggi coinvolti. La discordanza fra le testimonianze dimostra l’impossibilità per l’uomo di conoscere veramente la realtà e di stabilire il confine tra verità e menzogna.

A partire da quest’opera Kurosawa fu considerato il regista dei film di samurai – in realtà protagonisti anche di opere di altri importanti registi giapponesi – e ciò venne confermato dal successivo I sette samurai (1954). Con questo film, dal respiro epico, egli ribadì il suo notevole gusto figurativo, raccontando le mirabolanti imprese di sette guerrieri schierati in difesa di una comunità di contadini. Non tutti riescono a sopravvivere alle battaglie che si trovano ad affrontare, ma alla fine la pace ritorna nella comunità e i quattro samurai morti sono considerati eroi. I sette samurai conferma il gusto di Kurosawa per le scene di grande effetto spettacolare: si pensi alla battaglia finale sotto una pioggia battente e in mezzo a un mare di fango.

Una strada a due sensi

Cultore del cinema occidentale, Kurosawa lo avrebbe influenzato a sua volta come dimostrano gli innovativi western all’italiana di Sergio Leone, ricchi di riferimenti all’opera del maestro giapponese, e I magnifici sette (1960), rifacimento in chiave western di I sette samurai, realizzato negli Stati Uniti da John Sturges, che ebbe grande successo.

Nell’intervallo tra questi due straordinari film, il regista aveva girato un’altra importante storia di vita umile e quotidiana, Vivere (1952), sulla lotta di un impiegato malato contro la burocrazia. Mentre nel 1951 grande successo di pubblico aveva riscosso L’idiota, trasposizione nella realtà giapponese del secondo dopoguerra del famoso romanzo di Dostoevskij.

Una nuova giovinezza

Pur continuando ad alternare film con i samurai – ambientati nel passato storico – a opere di ambientazione contemporanea, Kurosawa rivela uno stile inconfondibile nelle sue opere più spettacolari, realizzate non più nel bianco e nero dei suoi titoli più celebri ma in colori ricchi e pieni. Così è in Dodes’ ka-den (1970), primo film a colori, che narra in parallelo otto storie ambientate con toni fiabeschi in una città di oggi; oppure in Dersu Uzala, il piccolo uomo delle grandi pianure (1975), avventurosa storia di un cacciatore nella Siberia dell’inizio del Novecento, quasi un’epica rappresentazione del rapporto tra uomo e natura, che nel 1976 ottenne il premio Oscar come miglior film straniero e che ebbe anche grande popolarità tra gli spettatori più giovani.

A partire da quest’opera il regista visse una seconda giovinezza all’insegna di un notevole fervore creativo, che si espresse in particolare con Kagemusha, l’ombra del guerriero (1980) e Ran (1985) in cui, accanto a quelle dei samurai, sono rappresentate figure di imperatori, in scene di battaglia che spesso evocano la pittura occidentale di epoca rinascimentale.

Il termine kagemusha indica il sosia, l’uomo-ombra: infatti il film narra la storia di un ladro costretto ad assumere l’identità di un principe, ‘il Maestro’, ucciso in battaglia. Per non gettare scompiglio nel paese, la notizia viene tenuta nascosta e il kagemusha prende il suo posto, a tal punto immedesimandosi con la nuova identità da essere pronto a morire per quelli che ormai sente come i suoi soldati.

Ran racconta invece la storia della lotta fra i tre figli di un re che finisce per diventare pazzo. Le splendide scene di battaglia, tra le più belle del cinema, e i colori luminosi danno un profondo respiro epico alle azioni e alle immagini. Anche in questo caso Kurosawa mostra di saper porre magnificamente in relazione culture diverse, raccontando storie di ambientazione giapponese, ma ricche di riferimenti alla cultura occidentale, con precisi riferimenti alle opere di William Shakespeare: se infatti Re Lear è la fonte di Ran, Macbeth in precedenza aveva già ispirato un altro film del regista, Il trono di sangue (1957).

Gli ultimi sogni

L’incontro tra mondi e realtà culturali diverse rappresenta il senso più profondo della lezione di arte e vita che Kurosawa ha continuato a offrire anche con i film più tardi, come Sogni (1990), mosaico di otto storie nel quale emerge ancora la capacità del regista di lasciare spazio alla dimensione favolistica. Estremamente efficace è l’omaggio che in un episodio egli rende alla pittura, all’arte e alla figura di Vincent Van Gogh (interpretato dal regista Martin Scorsese) che, grazie a una sofisticata tecnologia, finisce per viaggiare dentro i suoi quadri. L’ultimo film di Kurosawa, Madadayo – Il compleanno (1993), ha segnato invece un ritorno alla componente più intimista della sua poetica nell’evocare la figura di un anziano professore, alla fine dei suoi giorni, nel Giappone degli anni Cinquanta. Sorta di figura autobiografica con la quale il regista ha preso congedo dal cinema e dalla vita: egli sarebbe scomparso pochi anni più tardi a Tokyo, nel 1998.

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