ALABASTRO

Enciclopedia Italiana (1929)

ALABASTRO (dal gr. ἀλάβαστρον "vaso di alabastro", vocabolo d'origine orientale; fr. albâtre; sp. alabastro; ted. e ingl. Alabaster)

F. M.
G. Q. G.
L. L.
V. T.

Mineralogia. - L'alabastro calcareo od orientale è una varietà translucida di calcare con struttura fibrosa, fibroso-raggiata o zonato-concentrica (alabastro onice). Si rinviene nel Bergamasco, in provincia di Cuneo, in Toscana e nell'Africa del nord. Viene adoperato come pregiata pietra da ornamento (v. calcare, marmi). L'alabastro gessoso è costituito da gesso saccaroide a grana molto fina, translucida di color bianco o roseo o a struttura zonata. Si rinviene nei pressi di Volterra e a Castelline Marittima dove è oggetto di lavorazione e di esportazione (v. gesso).

Uso nell'arte antica. - Tanto l'alabastro calcare quanto l'alabastro gessoso hanno trovato il loro impiego nell'arte. Di fronte agli altri generi di pietre e di marmi da costruzione e da scultura l'alabastro offre un vantaggio nella facile lavorazione e uno svantaggio nella facile corrosione. Per questo il suo uso è relativamente limitato, e prevale in quelle arti e in quei periodi che non conobbero il marmo o ebbero scarsezza di esso.

L'Egitto, che aveva cave di alabastro nei tratti della catena arabica che si stende tra il Cairo ed Asiūt, lo ha adoperato di frequente facendone lastre di rivestimento nell'interno degli edifici per le pareti e per il soffitto; ad es., nel tempio presso la grande sfinge di Gīzeh. Ma di alabastro ha fatto anche dei vasi, particolarmente quei vasi che, sormontati dalla testa dei quattro figlioli del dio Horus, servivano a racchiudere le viscere del morto nel sito dell'imbalsamazione.

Nel bacino dell'Egeo la civiltà eneolitica o cicladica aveva già fatto di alabastro delle figurine umane. Ma il suo uso grandemente si diffonde durante la civiltà del bronzo, cioè nell'arte cretese-micenea. E, come nell'Egitto, era usato per lastre di rivestimento delle pareti o del pavimento o per la fabbricazione dei vasi. Del suo uso architettonico dànno molteplice testimonianza gl'interni dei palazzi di Cnosso, Festo, Hagia Triada in Creta. Esso era egualmente adoperato per colonne e per fregi, come mostrano gli avanzi di palazzi di Tirinto e di Micene.

L'arte assira conosce l'alabastro per uso architettonico e scultorio insieme, perché lo adopera a preferenza per decorare le porte monumentali, talvolta con figure monolitiche di tori, e per rivestire le pareti con lastre a rilievo. I palazzi di Chorsabad (Dūr Sarrukin), di Qōyūngiq (Ninive), Nimrūd (Kajach) hanno procurato al Museo Britannico e al Louvre ricchissime serie di questi rilievi.

L'arte orientalizzante (Fenicia, Cipro) sembra che restringa l'uso dell'alabastro alla fabbricazione di vasi e in prevalenza di quel vaso a corpo conico, arrotondato in basso, che porta lo stesso nome della pietra (v. sotto). Se ne sono trovati a Cipro, nella necropoli di Kition, a Sidone, nella tomba di Aliatte in Lidia, a Gordion in Frigia, in Rodi e in Italia, sia nell'Etruria (tomba d'Iside a Vulci), sia nel Lazio, cioè in ogni luogo in cui è giunto il commercio fenicio. Il vaso, adattatissimo, per la sua materia, a contenere olio per gli usi della palestra o della cura del corpo, e, per la sua trasparenza, a indicare la quantità esistente del contenuto, si è conservato nella medesima forma per più secoli, dal sec. VII al IV-IIl a. C., giacché un numero notevole ne ha restituito la necropoli di Praeneste (Palestrina).

L'arte greca così ricca di marmi, difficilmente ricorse all'alabastro. Tuttavia, in periodo ellenistico, se ne fecero statuette, poiché esso si prestava a quella lavorazione sfumata della superficie, particolarmente nel volto, che contraddistingue uno degli indirizzi artistici di questa età.

L'alabastro fu invece un eccellente surrogato del marmo per l'arte etrusca. E fu adoperato tanto quello del Monte Circeo quanto quello di Volterra. Non sembra peraltro che il suo uso sia incominciato prima del sec. IV a. C., e fu limitato a sarcofagi e ad urne. Tra i sarcofagi meritano di essere menzionati per i loro pregi d'arte uno trovato tra Chiusi e Città della Pieve, che rappresenta il defunto sdraiato sul letto conviviale, in atto di carezzare la moglie che siede ai suoi piedi (Museo archeologico, Firenze); due di Vulci, che hanno sul coperchio le coppie dei defunti abbracciati, come se fossero distesi sul talamo, e la cassa ornata di rilievi, l'uno con un'Amazonomachia, l'altro con una scena nuziale (erano nel castello di Musignano); due di Tarquinii (Museo archeologico, Firenze - Museo di Tarquinia), che sono ornati intorno alla cassa con pitture a tempera rappresentanti un'Amazonomachia; tre, esistenti nella cosiddetta tomba dei sarcofag; di Caere, e di cui due hanno sul coperchio la figura giacente del defunto, mentre il terzo ha il coperchio a forma di tetto di tempio. Più numerose sono le urne cinerarie, le quali, oltre ad avere sul coperchio la figura del defunto banchettante, hanno intorno alla cassa una decorazione a rilievo tratta dal mito o dal rito funebre (v. etrusca arte; urna cineraria).

Nell'arte romana, che oltre ai marmi di Greiia ebbe a sua disposizione anche il marmo lunense (di Carrara), l'alabastro perde importanza come pietra statuaria, ma trova invece la maggiore applicazione nella decorazione architettonica, nella fabbricazione di vasi, di uso nella scultura dei busti per i ritratti.

I primi pezzi di alabastro orientale (onice) portati dall'Arabia a Roma erano così piccoli, che dapprima se ne fecero solo vasi da bere e poscia piedi di letti e di sedili (Plin., XXXVI, 59). Apparve quindi grande miracolo ai Romani quando, nel 64 a. C., P. Lentulo Spintere mostrò delle anfore di alabastro che avevano la grandezza dei barili di Chio. Cinque anni dopo si videro delle colonne della lunghezza di 32 piedi (più di m. 9.50). Quattro colonne d'alabastro Cornelio Balbo pose nel suo teatro, e Plinio ne vide trenta, anche più grandi, nella sala da pranzo di Callisto, liberto dell'imperatore Claudio. La biblioteca di Adriano in Atene aveva rivestimenti di alabastro (Paus., I, 28, 9). La passione dei Romani per i marmi policromi fece loro particolarmente apprezzare gli alabastri variegati, di cui alcuni bene si prestavano per rendere i paludamenti dei busti. Con nomi convenzionali tratti dal loro aspetto si distinguono l'alabastro fiorito, dorato, cotognino, a occhi, a tartaruga, a pecorelle, a rose.

Nella statuaria, in cui l'alabastro fu non di rado adoperato per figurazione di dei orientali (Iside), esso trovò inoltre presso i Romani un caratteristico uso per la rappresentazione di animali, giacché la sua varia colorazione serviva a imitare la pelle maculata.

Bibl.: E. Guillaume, in Daremberg e Saglio, Dict. d. antiq. I, p. 175 seg.; H. Blümner, Technik u. Terminologie d. Gewerbe u. Künste, Lipsia 1884, III, p. 60 segg.; Nies, in Pauly-Wissowa, Real-Encyclopädie I, col. 1271 seg. Sull'alabastro nell'arte egiziana: G. Perrot e Ch. Chipiez, Hist. de l'art dans l'ant., Parigi 1881-1914, I, pp. 107, 330; nell'arte cretese micenea: Perrot e Chipiez, op. cit., VI, pp. 350, 477, 545 seg., 556, 698 seg., 711, 951; nell'arte assira: Perrot e Chipiez, op. cit., II, p. 120. Vasi d'alabastro dell'arte orientalizzante, a Kition: Perrot e Chipiez, op. cit., III, p. 208; a Sidone: Perrot e Chipiez, op. cit., III, p. 198; nella tomba d'Aliatte in Lidia: Perrot e Chipiez, op. cit., V, p. 292; a Gordio in Frigia: Koerte, Gordion, Berlino 1904, p. 123 segg.; nella tomba d'Iside a Vulci: P. Ducati, Storia dell'arte etrusca, Firenze 1927, I, p. 123; II, fig. 108; a Praeneste; A. Della Seta, Museo di Villa Giulia, Roma 1918, p. 361 segg.; sarcofago di Chiusi: Bianchi Bandinelli, in Mon. Accad. Lincei, XXX (1925), col. 423; P. Ducati, op. cit., I, p. 328; II, fig. 352; sarcofagi di Vulci: Brunn, in Ann. dell'Ist., 1865, p. 244 segg.; Mon. dell'Ist., VIII, tav. 18 segg.; di Tarquinii: P. Ducati, op. cit., I, p. 419; fig. 478; A. Della Seta, Italia ant., 2ª ed., Bergamo 1928, p. 465; di Caere: Mengarelli, in Studi etr., I (1927), p. 155.

Vaso. - In greco e in latino il vocabolo alabastro designa un vaso. Si è lungamente discusso, senza giungere a risultati definitivi, se la pietra abbia dato il nome al vaso, o viceversa. Si tratta di un vaso di piccole dimensioni destinato a contenere unguenti e olî profumati. La forma più comune ha corpo cilindrico, collo molto corto, labbro largo e piatto, bocca strettissima e talora delle prese forate per il passaggio del filo di sospensione. Il tipo proviene certamente dall'Egitto, come il materiale da cui ha derivato il nome, e si diffuse in Grecia durante il periodo orientalizzante (secoli VIII-VII a. C.). Oltre al gesso alabastrino furono usati nella fabbricazione degli alabastri: l'onice orientale, il vetro, l'oro, l'argento e, specialmente nella ceramica attica, l'argilla (fig. 2, a, b, esemplare di stile attico a figure rosse del Museo del Louvre). Sui varî usi, cui era destinato l'alabastro, c'informano le fonti letterarie (Erodoto, III, 20; Orazio, Carm., IV, 12, 17; Marziale, VII, 94, XI, 50) e i monumenti figurati, specialmente vasi attici (giuochi ginnici, scene di acconciatura, funerali, ecc.); alcuni di essi c'indicano come gli alabastri venissero conservati in cassette con o senza coperchio chiamate alabastroteche. Fra gli alabastri sono numerosi gli esemplari figurati in cui l'imboccatura è foggiata a testa umana o d'animale (fig. 2, c, alabastro corinzio da Chiusi, Museo archeologico di Firenze).

Per i vasi: W. Smith, A Dict. of Greek and Rom. Antiq., Londra 1890; H. B. Walter, Hist. of ancient pottery, Londra 1905, I; M. Herford, A Handbook of Greek vase painting, Manchester 1909; E. Pfuhl, Malerei u. Zeichnung d. Griechen, Monaco 1923. Rappresentazione di un'alabastroteca su un cratere falisco: G. Q. Giglioli, Corp. Vas. Villa Giulia, IV, B 2, tav. 6, 2.

Uso nell'arte medievale e moderna. - L'arte e l'industria dell'alabastro sembrano dimenticate fin quasi all'età moderna, fatta eccezione quasi solo per l'Inghilterra, ove nei secoli XIV, XV e XVI si lavora largamente l'alabastro delle cave di Chellaston (Derbyshire), tendente al grigio e talora venato di bruno. Se ne fanno specialmente statue tombali, numerose ancora nelle chiese del Derbyshire e delle contee vicine; ma se ne trovano anche a Canterbury, Winchester, Westminster, Londra; e sembrano opera di laboratorî diversi, ma con caratteri comuni, e forse tutti quanti posti nei dintorni di Chellaston. Ma a Nottingham, a Londra e altrove si lavoravano anche piccole lastre (di cm. 20 o 30 per 40 o 50) con sacre scene a rilievo, che servivano per comporne paliotti o polittici da altare. I documenti ci parlano di artisti inglesi recantisi in Francia a portarvi di tali lavori, e di un artefice francese, Alexandre Berneval, che nel 1414 andava in Inghilterra ad acquistare alabastro per un reliquiario destinato all'Abbazia di Fécamp. Grandissima dovette essere l'esportazione di tali polittici, costituiti da formelle di alabastro racchiuse in cornici di legno, poiché se ne trovano ancora a centinaia in Francia e particolarmente in Normandia, nel Belgio, in Olanda, in Norvegia, in Danimarca, in Spagna, nel Portogallo, nelle isole Baleari, in Germania, nella Svizzera e nel Tirolo. In Italia si conservano frammenti di polittici nel Palazzo Bianco a Genova, in S. Benedetto a Settimo a Pisa, e nel museo del Castello Sforzesco a Milano; un trittico a S. Caterina di Venezia; e due polittici nel museo del Palazzo di Schifanoia a Ferrara e nel museo di Napoli (fig. 4). Inoltre due notevoli statue di arte inglese del '300, raffiguranti i Ss. Pietro e Paolo, si trovano in S. Croce in Gerusalemme a Roma (fig. 5).

Anche in Germania la scultura in alabastro ebbe molta fortuna nel'400, e si distinse nettamente per stile ed iconografia dalla produzione inglese contemporanea; e di sculture tedesche in alabastro si conserva nella cappella della Madonna dell'acqua, in S. Francesco a Rimini, una Pietà eseguita intorno al 1440 da un cosiddetto "Maestro dei Crocifissi" (fig. 3).

Per l'Italia, a Volterra la lavorazione dell'alabastro sarebbe stata ripresa solo nel sec. XVI; e allora un Francesco Rossetti avrebbe eseguito al tornio un vaso che il granduca Francesco regalò al duca di Baviera. Ma sembra fossero tentativi isolati. La lavorazione fu normalmente ripresa solo al principio del sec. XIX per iniziativa di Marcello Inghirami, ed ebbe sviluppo e fortuna grandissima per tutto il secolo, con intenti e mire industriali, mentre si stabilivano laboratorî anche altrove, come a Firenze e a Milano, che riproducevano a migliaia copie di capolavori, statuette di genere, oggetti spesso di scarso gusto artistico. Dal principio di questo secolo l'industria dell'alabastro è in decadenza; si tenta di risollevarla con nuovi intendimenti, cioè abbandonando la fabbricazione della statuetta e del busticino e tentando di adoperar l'alabastro per oggetti di decorazione e d'uso.

Per l'arte med. e moderna: A. F. Giachi, Saggio di ricerche su Volterra, Firenze 1786, I; D. F. M., L'industria dell'alabastro in Volterra, in L'Arte, 25 ottobre 1857; A. Michel, Histoire de l'art, III, Parigi 1908; R. Papini, Polittici di alabastro, in L'Arte, XIII (1910), p. 202 segg.; id., Tre sculture inglesi del Quattrocento a Milano, in Rass. d'Arte, XII (1912), pp. 160-61; G. Swarzenski, Deutsche Alabasterplastik des 15. Jahrhunderts, in Städel-Jahrbuch, I (1921), pp. 167-213; E. Maclagan, An English alabaster Altarpiece in the Victoria and Albert Museum, in The Burlington Magazine, XXXVI (1920), pp. 53-65 (con esaurienti indicazioni bibl. e un elenco delle sculture inglesi in alabastro); W. L. Hildeburgh, A group of panels of English Alabaster, ibid., XLVI (1925), pp. 307-315; A. Gardner, Alabaster Tombs of the Gothic Period, Londra 1923; U. Middeldorf, Two English alabaster Statuettes in Rome, in Art in America, XVI (1928), pp. 199-203.

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