ALBERICO da Barbiano

Enciclopedia Italiana (1929)

ALBERICO da Barbiano

Albano Sorbelli

Grande importanza ebbero nei sec. XII e XIII, nelle terre di Romagna, i conti di Cunio che si vantavano discendenti dai Carolingi e che riuscirono lentamente ad estendere il dominio sui vicini luoghi di Barbiano, di Zagonara, di Lugo e poi di Casale, Granarolo, Donigallia, Dugliolo, Maiano, Fusignano, Massalombarda e altri attorno, quasi tutti poi fortificati con mura e torri. Nelle contese dei vicini, li vediamo sempre or coll'uno or coll'altro, arditi e violenti, ambiziosi e irrequieti; e spesso le contese le fomentano essi stessi, per aver occasione di trarne vantaggio. Il personaggio di maggior fama di questa famiglia è Alberico, nato a Barbiano, castello ora del tutto scomparso, nella prima metà del '300. Datosi tutto fin da giovinetto al maneggio delle armi e agli esercizî del corpo, ambizioso di eccellere nel valore personale, presto si mise al seguito del condottiero inglese Giovanni Acuto (v.), il più famoso forse di quel tempo; e sotto di lui partecipò alle sanguinose repressioni di Faenza nel 1376 e di Cesena nel 1377. Tristi avvenimenti e oscura gloria per i vincitori, strage di inermi più che battaglia, con molte migliaia di morti nella sola Cesena. Tuttavia un pensiero non ignobile egli veniva maturando. Le compagnie di ventura che riempiono di sé l'Italia del Trecento, sono quasi tutte forestiere: anche se non mancano italiani che militano in esse. Ora, Alberico volle costituirne una nuova ben salda e ordinata, composta tutta d'Italiani, che non solo avesse unità di sentire, ma obbedisse a determinate regole militari, né fosse più la consueta orda di avventurieri, disordinata e feroce, bramosa solo di preda. Raccolse dalle sue terre il fiore dei giovani, li ammaestrò, ne aggiunse altri di altre regioni italiane e formò una compagnia che chiamò di San Giorgio, il santo dei combattenti, come già si eran chiamate le compagnie di Lodrisio e di Ambrogio Visconti e forse anche l'ultima dell'Acuto. La nuova compagnia componevasi di circa 7000 uomini, cioè di 1000 lance e della corrispondente fanteria. La cavalleria, con i perfezionamenti che Alberico aveva introdotti per meglio proteggere le varie parti del corpo, doveva lanciarsi avanti allo sbaraglio, scompaginare la linea avversaria e aprire, entro le file nemiche, il varco al grosso della compagnia. Capeggiando un così fatto nucleo di armati, A. si avviò, invitato da Bernabò Visconti, verso la Lombardia, per combattere contro i signori di Verona alleatisi coi Carraresi e col re d'Ungheria. Aveva già, accanto alle potenti compagnie di Giovanni Acuto e di Lucio Lando, iniziato la marcia verso Verona, quando ricevette un caldo invito da papa Urbano VI di correre a difendere la Chiesa, e con essa l'Italia, dalle bande dei Guasconi e dei Brettoni, i più feroci e più temuti combattenti d'allora, che stringevano da ogni parte Roma, a anche i Romani e, più ancora, santa Caterina da Siena, grande fautrice del papa di Roma. Poco soddisfatto della compagnia dell'Acuto e del conte Lando, pieno di rancore contro i Brettoni già da lui conosciuti, lusingato dal pensiero di combattere, egli, con soli Italiani, contro compagnie fatte tutte di stranieri e di difendere il papa di Roma e l'Italia contro il papa francese, A. accorse sollecito, attraverso il Bolognese, le Marche, l'Umbria. Verso la fine d'aprile giungeva in Roma, ricevuto con grande onore dal popolo e dal pontefice, che gli consegnò con le mani tremanti il vessillo da lui benedetto. Avviatosi alla volta di Marino, a dodici miglia da Roma, ov'era adunato tutto lo sforzo degli avversarî, A. divise la sua compagnia in due grandi squadre, lanciò avanti, con poco successo, la prima; si mosse poi egli stesso alla testa della squadra più forte, si cacciò a furia nel centro delle masse avversarie, le confuse, le disperse. E fu una grande vittoria (30 aprile 1380). Trascinandosi dietro le insegne, i cavalli e le armi tolti agli stranieri, i capitani e ufficiali delle compagnie nemiche incatenati, entrò in Roma tra due folte ali di popolo che lo acclamavano, incontrato da papa Urbano, che s'era mosso verso di lui in processione. Il pontefice lo creò cavaliere di Cristo e gli consegnò un grande stendardo bianco, su cui campeggiava una croce rossa con la scritta: Italia liberata dai barbari. I Brettoni, soprattutto dopo che Alberico ebbe conquistato il castello di Marino e gli altri castelli attorno e liberata tutta la campagna romana, si sparpagliarono per l'Italia, o entrarono in compagnie straniere. La battaglia di Marino non solo fu decisiva per la lotta fra papa romano e antipapa, ma segnò la rinascita delle armi nazionali e il decadimento delle compagnie straniere, che rapidamente scomparvero dall'Italia. E al loro posto, su le orme di A., sorsero nuove compagnie e condottieri, taluni dei quali seppero conquistarsi uno stato: Pandolfo Malatesta, Iacopo Dal Verme, Galeazzo Porro, Facino Cane, Braccio da Montone e Sforza da Cotignola, che fu il più illustre.

Abbandonato il Lazio, A. si volse poi verso la Toscana, un po' in cerca d'avventure e di guadagno, un po' per aiutare i fuorusciti fiorentini; ma ributtato a Malmantile da una compagnia tedesca, si ritirò nella Maremma e s'avviò verso Napoli, chiamato da Carlo II di Durazzo, nipote di Giovanna I regina di Napoli, la quale, dopo averlo in un primo tempo creato erede del trono, lo aveva poi spogliato per favorire Luigi d'Angiò, fratello di Carlo V re di Francia. Con l'aiuto di A., Carlo entrò in Napoli, sconfisse Ottone di Brunswick, imprigionò la regina, che l'anno dopo moriva, e fu coronato re di Napoli dal papa nel 1381. Trascorsi due anni qua e là per la Toscana e ad Arezzo, predando e rifornendosi di uomini e di denaro, scaramucciando contro l'Acuto e contro tutte le città avversarie del papa, A. fu di nuovo richiamato a Napoli nel 1383, per difendere il Durazzo da Luigi d'Angiò, che discendeva con un forte esercito per vendicare la morte della regina Giovanna e impadronirsi del reame. Gli avversarî stettero a lungo di fronte senza combattere, sinché Luigi d'Angiò, disperando, si ritirò e morì a Bari di peste nel 1384. Dopo di che, A. s'avviò verso la Romagna per aiutare il fratello Giovanni a conquistare il castello di Barbiano, da cui traevano il nome, caduto in possesso dei Bolognesi. Fu un lungo battagliare, chiuso con l'accordo che il castello sarebbe passato ai due fratelli, previo riconoscimento dell'alto dominio bolognese (aprile 1386).

Sollecitato una terza volta da Carlo di Durazzo, che muoveva alla conquista del regno d'Ungheria, e che poi fu ucciso a tradimento, A. difese e seguì le sorti del giovinetto Ladislao e prese parte a quasi tutte le guerricciole che si svolsero nel regno napoletano tra i Durazzeschi e gli Angioini, ottenendo da Ladislao la signoria di Trani e Giovinazzo nelle Puglie, come dal padre aveva avuto il titolo di gran conestabile del regno. In una di queste battaglie, ad Ascoli, combattendo contro le milizie dei Sanseverino, fu fatto prigioniero insieme con Ottone di Brunswick (10 aprile 1392). Ma intervenne Gian Galeazzo Visconti, che lo liberò versando 30.000 ducati, e lo prese al suo servizio, ottenendone il giuramento che per 10 anni non avrebbe più combattuto nel reame. Un po' per conto del duca di Milano, un po' anche per conto proprio, A. si recò a combattere in Toscana per impegnare i Fiorentini e impedire che potessero efficacemente aiutare i Gonzaga, contro i quali muoveva Gian Galeazzo. Dopo la sconfitta (Serraglio, presso Governolo) del condottiero visconteo Iacopo Dal Verme, corse A. alla riscossa, con 1000 lance, e ottenne una bella vittoria a Borgoforte contro i Gonzaga e collegati (1397), la quale indusse i contendenti a una tregua di dieci anni, pubblicata il 26 di maggio del 1398. Volendo poi trar vendetta del fratello Giovanni, giustiziato dai Bolognesi nel settembre del 1399 per consiglio di Astorre Manfredi, A. ottenne da Gian Galeazzo un corpo di milizie e mosse contro i Manfredi e contro i Bolognesi. Assediò a lungo Faenza, e portò più volte le armi nel territorio e fin sotto le mura di Bologna, senza peraltro riuscire a sconfiggere Giovanni I Bentivoglio, che se n'era fatto signore. Distratto dall'impresa nel 1401 per la venuta in Italia di Roberto di Baviera, contro il quale vittoriosamente combatté, riprese, coll'aiuto del Visconti, l'offensiva contro il Bentivoglio, e lo sbaragliò nella celebre battaglia di Casalecchio del 26 giugno 1402, che costò al Bentivoglio la vita, e concesse a Gian Galeazzo l'ambita signoria di quella città, tenuta per breve tempo a cagione della morte improvvisa del grande signore. Guastatosi con la vedova di Gian Galeazzo, A. si volse di nuovo contro il Manfredi; poi, chiamato da papa Bonifacio IX alla riconquista di terre recentemente perdute, fra le quali Bologna, accettò l'invito, e in seguito all'azione sua e dei collegati la duchessa di Milano si pacificò col papa, rinunciò a Bologna, Assisi e Perugia, permise che Tossignano e Castelbolognese fossero dati ad Alberico. In questo e negli anni seguenti Alberico ebbe grandi contese col cardinal legato di Bologna Baldassarre Cossa. Richiamato da Ladislao a Napoli, vi ritornò, essendo ormai passati i dieci anni di promessa lontananza, e là svolse le ultime sue azioni guerresche. Moriva a Castello della Pieve, nel Perugino, il 26 aprile 1409, lasciando di sé fama di eccellente condottiero, di perspicace innovatore dell'arte militare, di suscitatore dello spirito delle armi nel popolo italiano.

Bibl.: E. Barelli, De Alberico VII cogn. Magno, Milano 1782; L. Fumi, Notizie officiali sulla battaglia di Marino, in Studî e documenti di storia e diritto, VII (1886); E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura, II, Torino 1844; F. Giorgi, Alberico e Giovanni da Barbiano nel Bolognese, in Atti e mem. della R. Deputaz. di storia patria per la prov. di Romagna, s. 3ª, XII (1894); G. Solieri, Alberico da Barbiano, Iesi 1908.

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