CANTONI, Alberto

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 18 (1975)

CANTONI, Alberto

Eugenio Ragni

Nacque il 16 nov. 1841 a Pomponesco (Mantova) da Israele di Moisè Iseppe, e da Anna Errera, primo di cinque figli.

Lo seguirono Amalia (n. nel 1846, sposò Leone Orvieto e fu madre di Angiolo e Adolfo, fondatori della rivista fiorentina Il Marzocco), Luigi (1849-1912, ingegnere idraulico), Giulietta (1851-1909, sempre vissuta a Pomponesco) e Sofia (n. nel 1853, sposò un Musatti e si stabilì a Venezia).

La famiglia paterna, quasi certamente di modeste origini e ormai da tempo fissatasi a Pomponesco, costituiva uno dei nuclei di quella numerosa comunità ebraica che era il fulcro delle attività commerciali della zona di Viadana. Osservantissimo della religione e delle tradizioni ebraiche, Israele, commerciante di grano e di bestiame, con abilità e onestà nel giro di qualche lustro era riuscito a diventare uno dei maggiori proprietari terrieri del mandamento, distinguendosi inoltre per opere e istituzioni benefiche.

La madre, che morirà di tisi nel 1853, era venuta nel 1838 - sposa diciassettenne - a chiudersi nella solitudine nebbiosa di Pomponesco dalla natia briosa Venezia, dove il padre Abramo, collaboratore di D. Manin, possedeva tra l'altro la Ca' d'Oro, e dove sembrava prospettarsi per lei una vita tutta diversa nella società frequentata dalla famiglia. Allo sposo trentatreenne (era nato a Pomponesco nell'anno 1805) e poi ai figli apportò i tratti e il gusto di un'educazione e di una cultura indubbiamente raffinate, oltre a un'intelligenza viva ed estrosa, della quale non trascurabile attestato è il suo diario, inedito, di fidanzata e di giovane sposa.

Il C. iniziò gli studi a Venezia, forse nel collegio Ravà, e li condusse irregolarmente nelle scuole pubbliche, frequentate solo fino al completamento delle elementari, preferendo, egli, all'istruzione ufficiale "piccoli studi capricciosi e di lusso, affatto appartati e quasi eccezionali", condotti seguendo "sempre la inclinizione del momento" (lettera del 4 marzo 1895 a G. B. Intra prefetto dell'Accademia Virgiliana), con preferenza per letteratura e filosofia. Giovane, imparò il francese (che scriverà correntemente) e l'inglese; solo intorno ai quarant'anni il tedesco e il latino (ed è quindi errata la notizia, riferita tra gli altri dal Delfini e dal Menozzi, che il C. avrebbe compiuto gli studi liceali). Amò viaggiare e fu più volte, sempre per brevi soggiorni, per lo più turistici o di cura, a Parigi, in Svizzera, a Vienna, Carlsbad, Berlino, in Spagna.

Di questi viaggi non trasferì alcuna impressione personale nelle opere letterarie, ed è perduto l'epistolario con familiari e amici nel quale, come sottolinea la Gianelli che fu sua corrispondente, si esprimeva il suo "grazioso umorismo, ed anche talora il suo penoso sarcasmo" rivolto a "luoghi... più o meno ricercati, de' quali egli coglieva originali caratteristiche".

Nel 1885, alla morte del padre, dovette assumersi l'amministrazione del rilevante patrimonio familiare. L'impegno lo assorbì soprattutto nei primi anni, e gli limitò quasi del tutto i viaggi e i soggiorni in altre città e all'estero (cfr. la già citata lettera del marzo 1895). Assai meno ne soffersero gli studi, le letture e l'attività creativa del C., che già da un decennio pubblicava sulla Nuova Antologia "schizzi" e racconti; che nel 1887 stampava presso il Barbera a Firenze la raccolta Il demonio dello stile; e che sullo scorcio del decennio stava preparando la prima opera d'un certo impegno, il romanzo Un re umorista, che apparve a Firenze presso il Barbera nel 1891. Nominato socio effettivo "residente in città" dell'Accademia Virgiliana, cessò di farne parte nel 1901.

Se è lecito ritenere che presenziasse alle riunioni dell'istituto, è sicuro che rifiutò ogni partecipazione attiva, respingendo anche le dirette sollecitazioni del prefetto G.B. Intra, trincerandosi ora dietro la timidezza o anzi l'inibizione assoluta "a tenere la più piccola conferenza pubblica" (lettera all'Intra del 22 maggio 1895), ora dietro la propria incompetenza (come per un libretto d'opera dell'Intra: lettera a questo del 4 marzo 1899).I continui rifiuti e le scontrosità dovettero generare incomprensione astiosa con l'Accademia e particolarmente col prefetto, il quale, forse con deliberata intenzione, lo incaricò nel maggio del 1901 della sostituzione del ritratto di Umberto I con quello di Vittorio Emanuele III. Colpito nel proprio orgoglio, ma fors'anche per non fregiarsi ulteriormente di un titolo che nella sua modestia riteneva usurpato, dovette rassegnare le dimissioni: il nome del C. non compare più, dopo il 1901, nell'elenco dei soci effettivi, né sarà menzionato a suo tempo tra quelli dei soci defunti.

Il C. non era del resto facile nei rapporti, particolarmente con chi gli mostrasse in qualche modo superbia o degnazione; ciò sia per un'innata timidezza e per il riserbo che gli impedivano di mostrare i reali sentimenti, sia soprattutto per uno spirito contraddittorio che lo spingeva a sottolineare la posizione di uomo "nato con libertà" (è l'anagramma del proprio nome che il C. amava ripetere) e di letterato col "vizio d'origine" d'aver "studiato alla meglio e disordinatamente da solo" (lettera all'Intra del marzo 1895).

Queste e altre contraddizioni del carattere fanno sì che amici e contemporanei lo descrivano disposto alla più confidenziale socievolezza ("pronto... ad entrare in dimestichezza coi vicini d'albergo e di trattoria, con ignoti compagni di viaggio, con vetturini ed esercenti, con turisti", Orvieto); o al contrario, come un uomo bizzarro, che improvvisi mutamenti di umore potevano trasformare da piacevole compagno di conversazione in uomo chiuso, misantropo, strambo.

Colpito da un violento attacco di uricemia, di cui soffriva da tempo, il C. morì a Mantova l'11 apr. 1904; fu tumulato a Pomponesco nella tomba di famiglia.

Analizzando la produzione del C. nel volume da lui curato, R. Bacchelli propose di suddividerla in due gruppi: il primo comprendente, oltre al romanzo post. L'illustrissimo (Roma 1906), le creazioni del 1875-1885, di un C. "verista paesano e cittadino"; e il secondo, tutti gli altri scritti composti dal 1885alla morte, caratterizzati invece da una "maniera propriamente umoristica, tormentata e talora cincischiata". Ma una simile ripartizione non risulta soddisfacente, sia perché anche nei primi scritti sono già presenti motivi d'ispirazione e tratti stilistici che è facile rinvenire nella produzione più matura (basterà citare il bozzetto Io, el Rey, del 1875, così affine al tono di Un re umorista, del 1891); sia perché all'arte del C., "arte statica che, manifestatasi ormai matura e calcolata, rimarrà anche in seguito priva di ogni intemperanza che potremmo dire romantica, ma anche di ogni lievito d'entusiasmo" (Ponchiroli), manca un effettivo sviluppo. Per questa staticità, o meglio per il ruotare del C. attorno a due o tre nuclei costanti d'interesse, sarà più costruttivo scavarne le caratteristiche salienti di contenuto e di stile.

Presente già in Un vedovo - uno dei quattro "schizzi" compresi in Foglie al vento (1875) - èl'attenzione concessa agli "umili" e al loro mondo paesano e contadino, cui sarà dedicato praticamente per intero L'illustrissimo. È interesse che tuttavia si ferma alla superficie, alla descrizione accurata e affettuosa decisamente spoglia di impegno morale e sociale: e ciò sia per il sostanziale conservatorismo del C. - legato tuttavia assai più a una posizione di pessimismo teoretico che conseguenza d'una chiara scelta ideologica in senso paternalistico -, sia perché quella attenzione si rivela in buona parte tessuta su derivazione letteraria, complessa ma pur enucleabile nelle componenti basilari, che vanno dall'atteggiamento compassionevole per gli "umili" tipico di tanta narrativa postmanzoniana - dalla quale discende anche il facile fatalismo cattolico di non poche battute pronunciate da contadini e da poveri che vorrebbero forse aver suono di ottimismo sociale -, a certi tratti caratteristici del Nievo "campagnuolo" (che però non genera nel C. alcuna valida sollecitazione all'istanza sociale), al lucido spirito d'osservazione tipico del realismo lombardo, a certi estri bizzarri degli scapigliati rintracciabili soprattutto negli avvii volutamente insoliti o in certe forzature bozzettistiche dei personaggi.

Queste o altre suggestioni letterarie non assumono il peso di un rimasticamento: si presentano invece come espenenze assimilate, rinnovate anzi dalla partecipazione del C. alla vita dei personaggi. Una partecipazione su cui però sin nelle prime prove s'innesta quella che costituisce indubbiamente la caratteristica distintiva della narrativa del C.: l'innata "disposizione dello scrittore ad investire il mondo della sua fantasia con uno spirito dubitoso e arrovellato" (Faccioli, p. 388). Ma ciò, se pure crea talora la base per un felice spunto di humour, per una divagazione gustosa o per un'altrettanto gustosa presa di posizione dello scrittore (e allora il C. si affianca, pur con una sua personalità, al miglior Nievo dell'Antiafrodisiaco o del Conte Pecoraio), troppo spesso è causa prima di squilibri narrativi anche notevoli, di una disordinata scomposizione di piani narrativi che annullano in pratica la necessaria prospettiva, di fastidiosi piétiner sur place, di salti tonali improvvisi, d'un'eccessiva spezzatura in parentesi, incisi, precisazioni, che irrimediabilmente appesantiscono "schizzi", racconti e "novelle critiche". Le quali proprio per questa loro complessa e composita struttura procedono quasi sempre nelle ambagi d'una fondamentale ambiguità fra sentimento e riflessione, fra realismo e simbologia, fra immagine e critica: ambiguità in parte involontaria, in parte perseguita almeno laddove il C. intende mostrare l'impossibilità d'immobilizzare la realtà in una rappresentazione univoca (e in questa tesi si può trovare qualche anticipazione del Pirandello, non a caso forse uno dei maggiori estimatori del C.), o anche laddove programmaticamente lo scrittore mette in scena personaggi che vorrebbero costituire nelle intenzioni le pedine d'una dimostrazione, le esemplificazioni narrative di una tesi già accettata e costruita a priori, e che invece più o meno decisamente finiscono per trascinarlo, con la loro vitalità di creature umane sollecitanti la fantasia, fuori dell'ambiguità prospettica della visione intellettualistica, in direzione d'un realismo disteso ed efficace, "di un temperato e verecondo realismo idillico, ma vigoroso e penetrante" (Bacchelli, p. XXXI). Il che è poi, una delle componenti più attive della sua ispirazione; quella che, con l'humour, sostiene le pagine più riuscite, che domina in definitiva la prova più equilibrata e valida, L'illustrissimo, e che invano è rinnegata anche con la ricerca, a volte infelice, del pretesto o dell'intreccio narrativo del tutto inusuale, bizzarro ad ogni costo, o con quell'amore eccessivo del paradosso, del raro, del sofistico che troppo spesso raffredda le pagine.

Si tratta di cadute artistiche che indubbiamente possono denunciare talora il dilettantismo e il provincialismo dello scrittore, ma che sono, insieme, il segno di un disagio, di un'insoddisfazione che è anche novità, nel quadro un po' monocorde della narrativa italiana di fine Ottocento, a parte il Verga e il Fogazzaro. Proprio il fermento e la tensione, avvertibili chiaramente sotto aspetti dispersivi o dissonanti dell'opera del C., siglano l'interessante, estrosa personalità di questo solitario, riservato, ombroso scrittore provinciale.

Fonti e Bibl.: Tutte le opere del C. sono riunite nel volume curato da R. Bacchelli (Milano 1953) per la collana "Romanzi e racconti italiani dell'Ottocento" diretta da P. Pancrazi; vi si rinvia per l'elenco e la cronologia, e per la Prefazione critico biografica (pp. IX-LVI). Per le notizie biografiche si vedano soprattutto: E. Gianelli, A. C., Trieste 1906; G. Bongiovanni, Su le orme di A. C., Mantova 1922; F. Rosina, A. C., in Il Resto del Carlino, 18 ag. 1923; A. Orvieto, A. C.,l'uomo e lo scrittore, in Il Marzocco, 2 settembre 1923; Id., La persona e l'opera di A. C. celebrate nella sua terra natale,ibid., 9 sett. 1923; G. Delfini, A. C., in La Voce di Mantova, 21 settembre 1937 e 15 giugno 1938; B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, III, Napoli 1942, p. 372; G. Tassoni, A. C., in Gazz. di Mantova, 4 e 18 dic. 1949; G. Delfini, Dedicate ad A. C. le nuove Elementari di Pomponesco,ibid., 4 febbr. 1962; E. Faccioli, A. C., in Storia di Mantova. Le lettere, III, Mantova 1963, pp. 377-408 (che pubblica le inedite lettere del C. all'Intra, conserv. negli archivi dell'Accad. Virgiliana: 4 marzo 1895, 15 maggio 1901, e del Museo del Risorg. di Mantova: 22 maggio 1895, 4 marzo 1899). Tra i contributi critici si vedano: S. Benco, A. C., in L'Indipendente, 22 apr. 1901 (poi in La corsa del tempo, Trieste 1922); L. Pirandello, A. C. romanziere, in Nuova Antol., 16 marzo 1905, pp. 233-248 (poi come Introd. ad A. C., L'illustrissimo, Roma 1906; e col titolo Un critico fantastico, in Arte e scienza, Roma 1908, pp. 35-73); E. Gianelli, Per A. C., Trieste 1907; B. Croce, A. C., in La Critica, VI (1908), pp. 401-407 (poi in Letter. della nuova Italia, III, Bari 1964, pp. 224-233); L. Russo, I narratori, Milano-Messina 1958, pp. 87-89; F. Bernini, Modernità di A. C., in Giorn. stor. della letter. ital., CIX (1937), pp. 61-91; D. Ponchiroli, A. C., in Belfagor, VI (1951), pp. 422-437 (con ampia e accuratissima bibl.); A. Borlenghi, in Narratori dell'Ottocento e del primo Novecento..., Milano-Napoli 1962, pp. 1235 s.; F. Menozzi, Originalità e fortuna di A. C., in Annuario dell'Ist. tecnico commerc. "Ettore Sanfelice", Viadana 1965, pp. 6-15.

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