ALGARDI, Alessandro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 2 (1960)

ALGARDI, Alessandro

Antonia Nava Cellini

Nacque da famiglia "non ignobile frà l'altre di Bologna" (Bellori) in questa città il 27 nove 1595; il padre Giuseppe era mercante di seta. Avviato allo studio delle lettere, frequentò poi l'Accademia di L. Carracci per la pittura e il disegno; ed infine, nello studio dello scultore e incisore G. C. Conventi, scoprì la sua vocazione per la scultura. Importanti per lo svolgimento della sua personalità sempre rimasero il primitivo alunnato e la consuetudine con l'ambiente carraccesco, mentre effettivamente poco peso dovette avere l'insegnamento del Conventi. Intorno al 1622 passò a Mantova, dove l'architetto G. Bertazzoli lo presentò al duca Ferdinando, di cui ben presto acquistò la stima e per cui operò in avorio e a far modelli per piccole sculture d'argento e di bronzo. Fu questo un periodo proficuo per l'arricchimento e l'aflinamento della cultura dell'A.: poté studiare il "classico" nella raccolta dei Gonzaga, andata poi distrutta nel sacco del 1630; educato ad attingere alla tradizione rinascimentale, si esercitava intanto sugli affreschi di Giulio Romano nel Palazzo del Te. Veniva svolgendo così, sull'impianto carraccesco, una sua propria esperienza, che, come tutti gli artisti del tempo, desiderò poi ampliare e approfondire nel grande centro romano. Ma prima della definitiva tappa di Roma, ebbe ancora una sosta di qualche mese a Venezia, che lasciò su di lui una traccia duratura. Non poteva d'altronde essere senza conseguenza per un artista non ancora pienamente sbocciato la conoscenza diretta della grande tradizione pittorica veneta e della locale scultura cinquecentesca: e, soprattutto, doveva a lungo ricordarsi della ritrattistica del Vittoria. A Roma giunse nel 1625, durante il pontificato di Urbano VIII. Trovava un ambiente quanto mai complesso e ricco di fermenti e d'indirizzi: nel campo della scultura, in particolare modo, G. L. Bernini aveva rivelato il suo genio coi primi già celebrati ritratti, con statue come l'Apollo e Dafne e il Davide, ed era già impegnato nel baldacchino di S. Pietro e nella S. Bibiana; una vena "neoveneta" era stata da tempo avviata dalle opere di O. Mariani e di P. Bernini; e a parte s'imponeva la personalità isolata, ma saliente, di F. Mochi. L'A., quasi ancora sconosciuto come artista, benché contasse ormai trent'anni, era stato raccomandato dal duca di Mantova al cardinale L. Ludovisi, nipote del defunto pontefice Gregorio XV. Presso questo mecenate e collezionista, di patria bolognese, che proteggeva i Bolognesi e incoraggiava il gusto classicistico e carraccesco, trovò un ambiente a lui adatto e la amicizia di un pittore, anch'egli uscito dalla scuola di L. Carracci, il Domenichino. Ma ben poco importanti e soddisfacenti furono le prime commissioni di lavori, esclusivamente di restauro e di completamento di statue classiche della collezione Ludovisi: notevoli quelli sull'Hermes Loghios e sull'Athena (ora al Museo Naz. Romano). Durante questo periodo difficile e oscuro, badò soprattutto a completare la sua educazione, riattingendo ancora alle fonti antiche, che gli era finalmente possibile studiare sui più famosi documenti ellenistici e romani, e risalendo di nuovo e ben più efficacemente all'esempio del Rinascimento, specie a quello raffaellesco; aggiornandosi anche però nel clima contemporaneo, non solo col seguire gli svolgimenti della tendenza pittorica carraccesca, ma anche col meditare i raggiungimenti così diversi e di nuova portata di Pietro da Cortona e del Bernini.

Ai lavori di restauro vero e proprio, non solo per il card. Ludovisi, ma anche per altri committenti, come i Frangipane, e alle libere integrazioni e ricostruzioni dell'antico come l'Ercole e l'Idra (Museo Capitolino), l'A. aggiungeva le prime opericciuole di marmo, citate dal Bellori, quali il putto sulla tartaruga e l'altro morso dal serpente, ordinategli dal cardinale Ludovisi. Era questo un genere assai richiesto di scultura decorativa, ispirata all'Ellenismo e al Rinascimento, che l'A. continuò a coltivare anche in seguito, raggiungendo un vertice di virtuosismo tecnico e d'eleganza, con la figura in marmo nero antico del Sonno,rappresentato come un fanciullo con ali di farfalla e col ghiro dormiente al fianco. L'opera, che fu subito ammirata e celebrata poi tra le sue sculture famose, è databile al 1630 circa: fu accolta nella collezione Borghese, dove si trova tuttora con due anfore pure di marmo nero, con manici a serpenti annodati, che, secondo i documenti ritrovati da I. Faldi, Silvio da Velletri intraprendeva a lavorare nel 1638, da modello dello stesso Algardi.

Intanto dal 1628 circa aveva ottenuto, per interessamento del Domenichino, la commissione delle prime opere pubbliche di qualche importanza: le due statue di stucco rappresentanti S. Giovanni Evangelista e S. Maria Maddalena per le nicchie della cappella Bandini in S. Silvestro al Quirinale, cappella ove il Domenichino operava in affresco. Soprattutto la Maddalena, "solleuata in dolce aria di testa, et in espressione di doglia e di sentimento" (Bellori), piacque al suo tempo, e rimane ancor oggi esempio raggiunto del primo stile dell'A.: vi trova libera e originale espressione la sua educazione emiliana e carraccesca, mentre la qualità trasparente della luce e la legata e morbida composizione rivelano un accostamento alla pittura del Reni, più che suggerire l'influenza del Bernini e del Cortona. Ma la fama e la fortuna dell'A. non ebbero da questo lavoro immediato accrescimento, se ancora poteva dedicare il massimo del tempo alla sua abituale operosità in far modelli "di putti, figurine, teste, crocifissi, et ornamenti per gli Orefici", e se ancora nel 1630 il suo intervento era richiesto solo per aggiungere le gambe e le braccia al torso di scavo che fu integrato come statua onoraria di Carlo Barberini in Campidoglio, innegabilmente in sottordine al Bernini, che vi aggiungeva la testa.

Eppure già a quella data l'A. aveva comindato a produrre una serie di importanti ritratti, la cui alta qualità e la cui sostanziale indipendenza ed originalità rispetto alla ritrattistica berniniana dovettero subito risultare palesi agli intenditori. Certamente al 1626, ché tale era la data iscritta "nella base primitiva, secondo la testimonianza di H. Posse, risale il busto del bolognese Card. Laudivio Zacchia (Staatliche Museen, Berlino): da considerarsi un capolavoro, esso mostra come il tessuto fortemente pittorico del volto e il grandioso panneggio siano intrisi di una luce che chiaramente appare derivata dal Vittoria. Un naturalismo sentito, ma controllato dal freno della cultura e dello stile, sia nella generate stesura sia nella sensibile penetrazione dei particolari, una chiara luminosità di origine emiliana e veneta sono le qualità caratterizzatrici anche degli altri ritratti, che pure accolgono qualche esteriore suggerimento compositivo berniniano: la mezza figura del Cardinale Giovanni Garzia Mulini, morto nel 1629, che occupa, nella cappella di S. Maria del Popolo, il centro di un raffinato e fragile prospetto architettonico disegnato dall'A. stesso; il busto bronzeo di Ulpiano Volpi, vescovo di Chieti, anteriore al 1629, anno nel quale il personaggio moriva in Roma, che fu giustamente all'A. restituito da A. Muftoz (Galleria Poldi Pezzoli, Milano).

A questi altri ancora seguono: ma, mancando la maggior parte di sicura datazione, varia, a seconda dell'opinione degli studiosi, sia la costituzione del gruppo primitivo sia l'ulteriore cronologia. Il Mons. Odoardo Santarelli nel battistero di S. Maria Maggiore, che da alcuni è considerato assai più tardo, e che è ricordato per la prima volta nel 1643, sembra a R. Wittkower forse il primo ritratto romano; per altri autori ambisce a tal posto Costanzo Patrizi, che risulta collocato nella cappella omonima della medesima basilica forse soltanto nel 1635. Databile a circa il 1632 è, secondo il Wittkower, il ritratto nel Victoria and Albert Museum di Londra, già attribuito all'A. dal Muftoz, per particolare analogia di fattura con il Cardinale Domenico Ginnasi della Galleria Borghese, e poi identificato come Francesco Bracciolini, ritratto che altri, invece, e congiuntamente appunto al Ginnasi, riferisce a mano diversa, per ipotesi a quella di Giuliano Finelli. Simili nello stile e nel momento appaiono l'ora distrutto busto del Cardinale Montalto (già nel Museo di Berlino) e quello di Scipione Borghese (Metropolitan Mus., New York), considerato da O. Raggio come posteriore di pochi anni al 1633; mentre un caso a parte e ancora da risolvere è quello del Principe Damasceni Peretti, (Staatliche Museum, Berlino), sia per la fattura lontana dall'A. sia perché l'esecuzione non ne è ultimata. Del primo periodo è considerato dal Wittkower e da O. Raggio, soprattutto per l'impostazione a mezza figura, il Cardinale Paolo Emilio Zacchia (Collez. Qietti, Firenze), che invece altre osservazioni e notizie porterebbero a far credere opera tarda e non finita. E, nel gruppo, O. Raggio inserisce inepiegabilmente anche il Mons. Ottavio Corsini in S. Giovanni dei Fiorentini, per la cui datazione è piuttosto di giusto riferimento il 1641, data di morte del prelato. Resta come punto fermo che a chiisura di questa prima serie, per altro così incerta e dibattuta, sono stati collocati dal Wittkower i tre ritratti postumi di Muzio, Roberto e Lelio Frangipane in S. Marcello al Corso, sicuramente anteriori al 1638, che per alcuni caratteri e per un maggior prado di idealizzazione sembrano• mediare il rapporto con la serie più tarda. Del busto di Muzio va ricordato il bellissimo modello di terracotta, segnalato da A. Gatti (Ist. di Belle Arti, Bologna).

L'A. poi riuscì, dopo gli inizi faticosi, a imporsi e ottenere sempre più frequenti e importanti commissioni. Già nel 1634 aveva stabilito il contratto per un'opera di grande rilievo, la Tomba di Leone XI in S. Pietro. Nel 1639 era compiuta e collocata sulla facciata di una chiesa presso il Porto Grande di La Valletta a Malta una mezza figura di bronzo a rilievo del Salvatore benedicente, che doveva proteggere all'uscita e al ritorno la flotta dell'Ordine: una grande fusione fatta su suo modello, che ora si vede sull'alto del timpano, all'esterno della cattedrale di S. Giovanni in quella città. Poco dopo, per sua devozione, offriva alla chiesa dei S.S. Luca e Martina il modello di un gruppo dei Tre santi martiri Concordio, Epifanio e Papia, che non fu mai realizzato in bronzo e che si conserva nella cripta. Del 1640 è la prima compiuta affermazione nel campo della scultura monumentale, con il gruppo marmoreo di S. Filippo con l'Angelo, commessogli da Pietro Boncompagni per l'altare della sacrestia di S. Maria in Vallicella. Nelle due statue "che viuono, e spirano nell'affetto del Santo vecchio, e nella grada soavissima dell'Angelo", come ben parve al Bellori, l'A. mostra una gamma ispirata di sentimenti, che va dalla passione nobilmente idealizzata del s. Filippo alla reniana dolcezza della figura angelica, legate ambedue dall'unità di un ritmo compositivo e di una luce che sono sempre di sorgente neoveneta e carraccesca: un'affermazione quindi, da parte dell'A., anche nella "maniera grande", di personalità propria e d'indipendenza dal Bernini. Il gruppo, divenuto ben presto famoso, esercitò un influsso anche iconografico fino al termine del secolo e al Settecento. Molte sono le derivazioni, ma è stato attribuito alla mano dell'A. medesimo, sebbene in un periodo più tardo, forse contemporaneo alla fattura dell'Innocenzo X e della Fuga d'Attila, il bellissimo busto del santo nella sacrestia di S. Filippo a Spoleto, con la testa inclinata verso la spalla destra e varianti nel ricamo della pianeta: prototipo da cui G. B. Maini esemplò la statua del santo nella navata di S. Pietro, di assai inferiore livello qualitativo. Nella sacrestia vallicelliana l'A. introduceva, collocandola in una nicchia ovale in alto, orante verso l'altare, l'effigie di Gregorio XV modellata vigorosamente nel bronzo (doc. in O. Pollak, Die Kunsttätigkeit... I, p. 436).

Nel 1640 ebbe la carica di Principe dell'Accademia di S. Luca (doc. nell'Archivio dell'Accad. di S. Luca); e subito dopo otteneva una commissione che la fama venutagli dal successo del S. Filippo gli aveva procurato: la Decapitazione di s. Paolo per la chiesa dei barnabiti a Bologna, ordinata dal cardinale Bernardino Spada. Il gruppo marmoreo di a. Paolo e del suo carnefice risalta plastico e luminoso sullo sfondo di un'esedra di colonne scanalate, sull'alto di un grandioso altare, firmato da Domenico Facchetti romano e datato 1650. E di questo altare, in cui sono echi evidenti di forme palladiane insieme con caratteri romani, s'è perfino supposto che il progetto potesse risalire all'A.; solo in un secondo tempo F. Borromini interveniva per il disegno e la costruzione della mensa e del suo paliotto, in cui fu incluso il rilievo rappresentante il Miracolo delle Tre Fontane, modellato dall'A., di cui si conserva il bozzetto nel Museo di Pal. Venezia a Roma.

Nel momento immediatamente successivo è da collocarsi la Tomba di Leone XI nella navata laterale sinistra della basilica di S. Pietro: e ciò, oltre che dallo stile delle sculture, più evoluto, cioè appena più sciolto e grandioso che nel gruppo bolognese, risulta dai documenti (O. Pollak, Die Kunsttätigkeit..., II, pp. 281-292), secondo i quali le statue si trovavano a buon punto di fattura sin dal 1644, sebbene il monumento venisse poi scoperto soltanto nel 1652. Per il Wittkower sono di esecucuzione diretta dell'A. non solo la figura del pontefice e il rilievo dell'urna (bozzetto nell'Accad. di S. Luca), ma anche le due Virtù, tradizionalmente, per indicazione del Passeri, attribuite alla scuola: la Fortezza al Ferrata, la Liberalità al Peroni.

Il Ferrata e il Peroni avrebbero frequentato lo "studio" solo quando il complesso era quasi terminato nelle varie sue parti: e tale opinione, tratta da una particolare interpretazione dei documenti, merita di essere considerata, anche perché un'alta qualità, un'intima rispondenza di schema e di forma sono chiare nelle due statue. Resta comunque difficile contraddire una fonte contemporanea come il Passeri, per cui sembra più prudente accostarsi al parere di I. Hess, che ammette la collaborazione degli scolari, ma la restringe a un minimo contributo. Il monumento di Leone XI è l'opera di più grande respiro prima della tavola della Fuga d'Attila. L'A., pure accogliendo qualche suggerimento dalle tombe berniniane della Contessa Matilde e di Urbano VIII, risolve con originalità l'ampio schema struttivo triangolare: attento a valori di equilibrio e di sentita misura, alle rispondenze sottili tra luminose superfici e morbide e chiaroscurate masse plastiche; eletto e idealizzato nelle forme.

Nel 1644 succedeva a Urbano VIII, gran mecenate d'artisti, ma soprattutto protettore del Bernini, il nuovo pontefice Innocenzo X Pamphilj: e s'iniziava per l'A. un decennio, l'ultimo della sua non molto lunga esistenza, che fu denso di commissioni e di lavori importanti e ricco di fama.

Alcuni busti precedono questa data, di maggiore o minor tempo, e in qualche modo preannunciano la maturità dei ritratti Pamphilj. In genere in essi all'ispirazione naturalistica viene aggiungendosi un tono d'aulica compostezza, il modellato si fa più legato e sintetico, la luce trova più larghe e mosse superfici. Secondo il Posse, sono da porre ora, oltre i già citati Odoardo Santarelli e Ottavio Corsini (S. Giovanni dei Fiorentini), l'Urbano Mellini in S. Maria del Popolo, che invece, qualora si volesse seguire il parere di V. Martinelli, verrebbe collocato prima, circa il 1635. La mezza figura di Giovanni Savenier (S. Maria dell'Anima), restituita all'A. su una notizia del Baldinucci, fu eseguita dopo il 1638, data di morte del personaggio, con una fattura che anticipa, specialmente nel panneggio e nei capelli, il più tardo Principe Camillo. Nel gruppo Pamphilj emerge, singolare per il raggiungimento e per la puntuale profonda caratterizzazione l'immagine di Donna Olimpia, la cognata del pontefice; con ogni probabilità posteriore al 1647 è il ritratto giovanile "col collare a lattuga", se s'identifica, piuttosto che con il secondo suo marito Pamphiljo, con il figlio Camillo. Nel palazzo Doria Pamphilj, dove questi si conservano, sono stati pure assicurati all'A. tre busti di Innocenzo X: uno di marmo, ben distinguibile da quello di G. L. Bernini, uno di bronzo e uno di bronzo e porfido, che, secondo l'avvertimento del Wittkower, fu forse aggiunto più tardi, dopo il 1650. Ed è da ricordare come di mano dell'A. e come precedente nel tempo, e forse preparatoria del ritratto di marmo e di quello di bronzo, la terracotta fatta conoscere da I. Faldi (palazzo Giustiniani Odescalchi, Bassano di Sutri), mentre sono solo ripetizioni di scuola quelle del Museo Civico di Bologna e del Museo di Ravenna, ed è perduta l'effigie onoraria bronzea del pontefice, posta nel 1650 nell'Ospizio della Trinità dei Pellegrini.

Altri busti possono essere considerati paralleli ai Pamphilj: il bellissimo Prospero Santacroce in S. Maria della Scala, la cui esecuzione è immediatamente susseguente alla morte immatura del ritrattato, avvenuta in battaglia nel 1643, e la Elisabetta Cantucci Coli, collocata nel 1648 in S. Domenico di Perugia, sicuramente autografa e ricordata in quella città come dell'A. sin dal Seicento. Posteriore al 1650, secondo la precisazione del Wittkower, ma opera del tutto di scuola, è il Mario Mellini in S. Maria del Popolo. Il già citato Cardinale Paolo Emilio Zacchia, se è vero, come scrisse il Muftoz, che fu fatto raffigurare, per onorarne la memoria, dalla nipote marchesa Zacchia Rondanini e che giaceva alla morte dell'A, incompiuto nel suo studio, risulta un caso isolato e singolare, e per certe larghezze di fattura nel panneggio, nel libro e nelle mani, si è anche potuto supporre che fosse stato portato innanzi da mano diversa, con fattura berniniana. E un'ultima prova è il busto di terracotta di Giacinta Sanvitale Conti, duchessa di Poli (Museo di Pal. Venezia, Roma), da credersi, piuttosto che opera di G. Finelli, veramente il modello da cui Domenico Guidi trasse il marmo per la tomba della gentildonna, morta nel 1652 (5. Rocco, Parma).

Altri ritratti, pur pubblicati, qui non si ricordano, e sono da espungere dal catalogo dell'A., per non avere appoggio di documenti nè di fonti, e nemmeno validi riferimenti di stile.

Prima di ricordare le opere dell'A, predominanti per mole ed importanza, commesse dai Pamphilj, converrà accennare a una sua varia attività rivolta in altre direzioni. A Bologna inviava il gruppo bronzeo di S. Michele che atterra il Demonio, eseguito per il superiore del convento di S. Michele in Bosco (Museo Civico, Bologna), e per la chiesa di S. Ignazio un Crocifisso ora perduto. Anche questo era di bronzo e grande più del vero, simile a quello mandato a Genova ad Agostino Franzone: cavati ambedue dal bel modello che si conserva in S. Marta in Vaticano. Erano i Franzone suoi mecenati e protettori: Agostino fece costruire, nella chiesa genovese dei SS. Vittore e Carlo, la cappella di famiglia, dopo il 1677, probabilmente secondo un disegno dell'A., che risultò poi del tutto svisato nell'esecuzione e appesantito dalle aggiunte, e la ornò con bronzi algardiani già in suo possesso: oltre il Crocefisso,anche la portella dell'altare, con la Visione di s. Agnese (bozzetto nel Museo di Pal. Venezia) e dodici busti di santi, certo eseguiti dalla scuola e fusi probabilmente dal Guidi.

Di qualsiasi lavoro ricevesse l'incarico, l'A. operava in Roma e da Roma contentava i lontani committenti; nel 1648, dopo qualche incertezza, rifiutò perfino l'invito in Francia fattogli dal cardinale Mazzarino, per rimanere fedele alla grazia munifica dei Pamphilj, dissuaso specialmente dal principe Camillo. Per ordine di questo, dal 1644 al 1652, sopraintese alla costruzione e alla decorazione della villa detta di "Belrespiro" fuori porta S. Pancrazio (doc. in O. Pollak, A.A. als Arch., pp.68-78). Riguardo alla fabbrica, non dette forse più che un generale indirizzo e, secondo il Bellori, la disposizione delle sale interne, il vero e proprio architetto essendo G. F. Grimaldi. Ma soprattutto all'A. si deve la parte migliore: la splendida decorazione di stucchi, da lui disegnati e per lo più eseguiti sotto la sua guida con un rilievo fluido e mosso, disposti con una raffinata sensibilità per la ritmica spartizione delle superfici. Il complesso costituisce un insigne esempio dell'altezza di qualità del suo gusto, originale nei raggiungimenti, ma pur sempre maturato nella meditazione sugli esempi classici e rinascimentali. Anche in altre opere, delle quali è sua la disposizione architettonica, risultano come predominanti valori quella "purità e simmetria" che può parere e parve ad alcuno povertà e secchezza: la fontana del cortile di S. Damaso in Vaticano, eseguita dal 1645 al 1649, e ornata di un piccolo rilievo, non ha certo nerbo struttivo né grandioso impianto, ma è opera raggiunta e tipica dell'A. architetto in minore e decoratore, per la pura semplicità delle linee e per i limpidi rapporti chiaroscurali.

A S. Ignazio, dal 1649 al 1650, ornava di un'ampia fascia di stucchi la nave centrale e la facciata interna: l'unica parte che gli spetti, essendo errata l'attribuzione a lui della fronte esterna ddlla chiesa. La targa, che celebra i Ludovisi, promotori della fabbrica, e Innocenzo X, che la consacrò nell'anno del giubileo, è sorretta da belle figure di Virtù, la Fede e la Magnjficenza, dal panneggio mosso e vibrante; e il fondo motivo sovrapposto d'angioletti danzanti che reggono festoni si prolunga sugli archi della grande navata. In alcune opere di questo periodo culminante l'A., forse per suggestione del Bernini, ricerca e raggiunge effetti di movimento e di contrastato chiaroscuro. Tuttavia rimane sempre coerente con sé stesso, e la sua formazione, così diversa da quella di Gian Lorenzo, il suo particolare gusto lo portano ad accordare ogni valore in un superiore equilibrio, in uno studiato contrapposto. Intimamente diversa dalla berniniana e sempre rivelante un'origine carraccesca e veneta rimane la tessitura pittorica del suo modellato, che pure si fa più mosso e complesso: ne è prova tra l'altro lo stupendo giuoco dei piani, dei riflessi, delle ombre nella statua bronzea di Innocenzo X, posta nel 1650 nel Palazzo dei Conservatori. L'A. ebbe ricchi premi e la croce di Cavaliere di Cristo per questo capolavoro, che regge il confronto con l'Urbano VIII del Bernini, esposto nella stessa sala, e lo fa volgere anzi a suo vantaggio, anche per la bellezza idealizzata del ritratto e per la calda e umana eloquenza del gesto.

Pure ultimata nel 1650 è la serie dei rilievi di stucco, eseguiti su suo disegno, per l'interno borrominiano di S. Giovanni in Laterano. E nel medesimo anno giubilare era finito e posto in situ, al termine della nave sinistra di S. Pietro, perché il pontefice ne vedesse l'effetto, il grande modello del rilievo della Fuga d'Attila, quello stesso che poi, donato ai Filippini, venne murato nello scalone del Pal. Vallicelliano. L'opera, che era stata commessa sin dal 1646, fu trasposta in marmo dall'A. stesso, aiutato solo in parte dagli scolari, specialmente dal Guidi, e terminata completamente solo nel 1653. La scena rappresenta l'incontro di Leone Magno con Attila, e l'improvviso arrestarsi di questo ultimo all'apparire in cielo dei due apostoli maggiori; l'A. vi raggiunge una grandiosa complessità nel divergere dei movimenti, subito controbilanciati e ripresi, una forte illusività pittorica, e un'appassionata evidenza nell'inscenazione, dove rivivono ricordi ellenistici, traianei, raffaelleschi, e che è pur sempre tenuta in classica misura, in tono aulico e solenne. Era quasi alla fine della sua vita, e nessun'altra opera poté ultimare dopo questa, che fu il "suo più importante legato alla posterità" (Wittkower), opera subito ammiratissima e a lungo imitata nelle pale marmoree del Seicento e del Settecento.

Per l'altare di S. Niccolò da Tolentino, iniziato per incarico di Camillo Pamphilj nel 1651 e costruito su suo progetto da Giovan Maria Baratta, ideò il gruppo di marmo con La Vergine, s. Niccolò, s. Monica e s. Agostino: ma lo fece sin dall'inizio eseguire dagli allievi: il Ferrata, il Guidi, Francesco Baratta, che lo terminarono dopo la sua morte, nel 1655 (doc. in O. Pollak, A.A. als Arch., pp. 78-79). Non arrivò a porre in marmo il grande rilievo, ordinatogli da donna Olimpia, che avrebbe dovuto trovar luogo sull'altare maggiore della nuova chiesa di S. Agnese in Agone, rappresentante la Miracolosa liberazione della santa, la cui composizione aveva studiato e concretato, e che noi possiamo conoscere nella trascrizione verbale del Bellori e in quel grande modello, che è conservato, un po' guasto, nel Palazzo Vallicelliano, a cui perfettamente risponde la placca bronzea del Museo di Vienna. E con questa commissione non va confusa la minore tavola di marmo, con S. Agnese condotta al martirio, che solo alcuni studiosi gli attribuiscono, e che è comunque, se dell'A., opera fatta in epoca anteriore per la già venerata cripta della chiesa.

Non si può omettere, dopo aver citato le sculture monumentali e i ritratti, un accenno a quei lavori minori, a cui più frequentemente attese nella giovinezza, ma che mai trascurò anche in seguito. Alcune teste reliquiario d'argento, che s'esponevano in varie chiese di Roma, erano, secondo la testimonianza del Bellori, fatte su suo modello; così da "forme" di Crocefissi, anche di piccola misura, si traevano esemplari a lui attribuiti, come quello di S. Pietro a Perugia, dell'Acc. di Belle Arti a Bologna. Era sua opera l'urna in cui furono deposte le ossa di S. Ignazio al Gesù, urna la cui forma attuale, con la scena sovrapposta, corrisponde probabilmente però al rifacimento settecentesco di Giuseppe Rusconi. A St. Maximin in Provenza aveva mandato una statuetta di bronzo dorato di s. Maddalena,insieme con un modesto rilievo marmoreo con l'Estasi della santa (bozzetto nella chiesa dei SS. Luca e Martina, Roma): rilievo rinvenuto da E. Barton non già nella grotta di S.te Madeleine, ma nella basilica dedicata alla medesima santa in St. Maximin e dalla studiosa giudicato come in gran parte eseguito con la collaborazione della scuola (A preliminary Study of A. A., Harvard 1952, tesi non pubbl.). Alcuni disegni testimoniano che progettava reliquiari e ostensori; c'è notizia che per Innocenzo X facesse in argento non solo un Crocefisso, ma anche un gruppo rappresentante il Battesimo di Gesù, e disegnasse un cofano che nel 1649 il pontefice regalava alla regina di Spagna. Tra le molte attribuzioni, basterà ricordare la bellissima Flagellazione bronzea (ora nel Hofmuseuni, Vienna), la Madonna col Bambino di bronzo, la cui migliore versione è quella del Palazzo ducale d'Urbino, giustamente dal Wittkower posta in relazione con le opere tarde. Nel 1650 ebbe la commissione di quattro alari per Filippo IV. Curò da solo i modelli dei gruppi di Giove e di Giunone e abbozzò quelli di Nettuno e di Cibele, poi ultimati dal Ferrata e dal Guidi, che eseguì egregiamente le fusioni in bronzo: e sono questi gli ultimi capolavori suoi nel genere della plastica decorativa, che noi conosciamo attraverso gli esemplari completi di Aranjuez, e altri sparsi in qualche collezione.

L'A. fu stimato e ammirato al suo tempo come il maggiore antagonista di G. L. Bernini, e rimase anche in seguito considerarato il rappresentante e quasi il simbolo, per la scultura, di quella corrente cosiddetta classicista e tradizionalista del Seicento, che fu una corrente di gusto assai rappresentativa di quel secolo, piena di vitale energia, di sinceri e originali interessi e motivi. Così l'opera sua è da considerare valida per sé stessa, per l'intrinseca dignità e qualità, anche di fronte al genio predominante del Bernini; e attraverso l'attività importante della vasta scuola, la sua mfluenza si esercitò a lungo e sin nel Settecento.

Morì il 10 giugno 1654 in Roma; il sepolcro nella chiesa dei SS. Giovanni e Petronio dei Bolognesi andò distrutto, e perduto il suo ritratto in marmo, che era opera del Guidi.

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