FARNESE, Alessandro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 45 (1995)

FARNESE, Alessandro

Stefano Andretta

Nacque a Valentano (od. prov. di Viterbo) il 7 ott. 1520 da Pierluigi e Girolama Orsini del ramo di Pitigliano.

La sua infanzia e prima adolescenza appartengono ad uno dei momenti di maggiore affermazione e ascesa sociale e politica dei Farnese: il padre e soprattutto il nonno cardinale Alessandro stavano consolidando la fortuna della famiglia. Dopo un periodo di alfabetizzazione a Parma venne inviato al collegio "Ancarano" di Bologna. Qui undicenne iniziò a studiare sotto la guida del conte Filippo Manzoli, insieme col fratello Ottavio, seguendo un indirizzo di carattere umanistico, giuridico e teologico. In questa istituzione educativa per giovani rampolli, esclusiva e tranquilla, rimase sino a quando, il 13 ott. 1534, l'elezione del nonno Alessandro a pontefice accelerò d'un colpo il suo inserimento nel corpo ecclesiastico e il F. si trovò a godere immediatamente delle pratiche nepotistiche. Il 1º nov. 1534, appena quattordicenne., sostituì Alessandro Farnese nella ricca diocesi di Parma. E poco più tardi, in occasione della prima nomina cardinalizia (18 dicembre), venne riservato in pectore alla porpora, per essere presentato ufficialmente in concistoro il 21 maggio 1535 durante una seconda creazione insieme con un altro giovanissimo porporato, il sedicenne Guido Ascanio Sforza, figlio di Costanza Farnese e dell'omonimo conte di Santa Fiora.

Nonostante l'apparente e inevitabile unanimità concistoriale, l'elezione provocò una notevole e diffusa irritazione e venne in generale interpretata da tutto il movimento riformatore cattolico come una leggerezza e un messaggio negativo per una imminente convocazione del concilio. Inoltre, l'elezione dei "cardinaletti" venne disinvoltamente sostenuta con l'uso di Alessandro VI e Sisto IV di creare automaticamente cardinali i nipoti suscitando l'insofferenza manifesta di Francesco I e di Enrico VIII e le proteste di Carlo V.

Il F. ricevette come precettori il vescovo di Viterbo Gian Pietro de' Grassi e Latino Giovenale Manetti che, con una organizzazione degli studi più accurata e severa, continuarono ad istruirlo secondo i dettami di una cultura umanistica ai rudimenti della lingua greca e alla prosecuzione degli studi giuridici e filosofici. Nella mente del papa, l'utilizzazione della famiglia negli incarichi pubblici e l'accrescimento della sua ricchezza erano altresì inquadrati nella volontà della ricostruzione di un'identità e di un'immagine dell'autorità pontificia offuscate dalla vicenda del sacco di Roma che aveva penalizzato gli audaci funambolismi delle alleanze dei papi medicei. Il F. beneficiò nell'adolescenza dell'impostazione nepotistica di una politica strettamente familiare che diventò il cardine principale di una interessata equidistanza pontificia dalla Francia e dall'imperatore. La diffidenza per la giovanissima età e il clima di sospetto si accentuarono allorquando alla morte di Ippolito de' Medici (10 ag. 1535) al F. toccò la vicecancelleria e vennero trasferiti sulla sua persona i benefici della maggior parte delle Chiese che quello aveva posseduto in Francia: circolarono nel frangente persino voci di un presunto avvelenamento. Allo stesso modo profittò ben presto di alcuni benefici appartenenti a Benedetto Accolti, cardinale di Ravenna, quando questi venne arrestato e quindi confinato a Ferrara. E alla morte di S.G. Merino, cardinale di Bari, altro protetto come l'Accolti dell'imperatore, il F. si vide assegnare il vescovado vacante di Jaen iniziando così un lungo conflitto giurisdizionale con Carlo V che si risolse soltanto nel 1536 quando il vescovado in questione venne scambiato con quello opulentissimo di Monreale.

In questo periodo di tranquilla formazione diplomatica e di contatto con gli ambienti e le funzioni curiali, egli talvolta venne utilizzato dal padre per mitigare presso il papa lo sconcerto che provocavano alcune sue intemperanze o iniziative personali. Quando Ambrogio Ricalcati venne allontanato dalla segreteria generale dei papa, travolto da una accusa di concussione particolarmente sentita in un periodo di duro fiscalismo pontificio, il 1º genn. 1538 ne ricoprì l'incarico spalleggiato da Marcello Cervini che, nominato suo segretario già al momento della promozione cardinalizia, divenne a sua volta protonotario. Ad esso nel tempo furono affiancati Nicolò Ardinghello e Girolamo Dandini che, con l'alacre e coltissimo Bernardino Maffei, completarono un gruppo di lavoro di tutto rispetto nel sostenere il F. nella sua carica.

Tutelato dalla presenza politica del nonno e dal Cervini, iniziò ad occuparsi progressivamente delle materie di Stato: il primo impegno fu relativo alla formalizzazione della lega antiturca tra Venezia, Roma e l'imperatore (8 febbr. 1538). E unitamente a questo sforzo di contenimento delle insidie ottomane nel Mediterraneo collaborò nel coordinamento del lavoro dei nunzi alla preparazione del viaggio di Paolo III a Nizza per giungere ad una tregua nel conflitto franco-imperiale. Egli stesso partecipò al seguito del papa all'incontro della primavera-estate 1538, affinando la sua dimestichezza con gli ambienti internazionali e con l'apparato diplomatico curiale. Dopo la sconfitta della Prevesa intensificò l'impegno di fedele esecutore dell'azione pontificia per la politica di conciliazione, non rinunciando ai tentativi di mantenere in vita la lega antiturca seriamente compromessa dall'avvenimento militare e dalla crescente indifferenza politica e finanziaria degli alleati. Nel dicembre si occupò in tal senso di favorire una creazione cardinalizia equilibrata e in sintonia con il neutralismo più volte affermato: sostenne personalmente l'elezione di P. Bembo con l'intenzione di manifestare una buona disponibilità nei confronti di Venezia in cambio di una non rinuncia alla lotta antiottomana. Alle questioni di ordine statuale - e sarà una costante - si intrecciarono interessi familiari e personali. Nel novembre 1538 si attivò inutilmente per accasare la sorella Vittoria con un membro della famiglia reale francese, ebbe a questionare con il cardinale Ercole Gonzaga sulla badia di Lucedio da cui ottenne una pensione di 5.000 scudi e sul godimento del beneficio dell'ospizio di Altopascio che darà adito ad una lunghissima diatriba a cui non erano ovviamente estranei i tesi rapporti con Cosimo de' Medici.

Alla morte dell'imperatrice Isabella (1º maggio 1539) risale la prima vera missione diplomatica del Farnese. Egli partì il 19 maggio e giunse a Toledo il 16 giugno per le condoglianze. Con il Cervini avanzò la proposta concreta di un matrimonio di Carlo V con Margherita, la figlia di Francesco I, proponendo la via di una politica matrimoniale per l'appianamento delle tensioni franco-imperiali. Il rifiuto dell'imperatore alla ingenua proposta diede il senso dei fallimento della missione e il F. poté testimoniare al papa soltanto il mantenimento di un contatto con Roma per eventuali sviluppi di conciliazione. Prima di tornare a Roma il 21 luglio non mancò di avanzare l'ipotesi di un matrimonio di Vittoria con lo stesso imperatore, di saggiare il terreno sulle intenzioni imperiali circa la necessità di trovare al più presto uno Stato ad Ottavio e Margherita d'Austria dove collocare la conspicua dote di 150.000 scudi e di ricordare l'imbarazzante situazione di rifiuto da parte della sposa assai più matura d'età del giovanissimo fratello. Richiese a questo proposito un intervento di Carlo V e della sua autorità paterna per porre fine all'incresciosa situazione. Il F., nonostante un mal celato rancore per essere stato sopravanzato, egli primogenito, dal fratello minore ad una posizione prestigiosa e secolare, segnalò la nefasta opera di disturbo sulla infelice e nevrotica Margherita del maggiordomo don Lope Hurtado e della moglie donna Margherita de Rojas. Escludendo di fatto un feudo nei territori imperiali, dopo un accenno alla possibilità di Firenze, ovviamente osteggiatissima da Cosimo, al Cervini e al F. l'ipotesi più praticabile apparve quella di Camerino che venne in effetti concesso dal papa ad Ottavio il 5 nov. 1539.

Pur lontano dal dibattito teorico e teologico sulla riforma della Chiesa e vicino agli aspetti di gestione politica della convocazione di un concilio che si scontrava con la simmetrica volontà di Carlo V di subordinare lo stesso alla ricomposizione dell'unità della Germania, protestò in nome del papa per il recesso di Francoforte, del resto non confermato dall'autorità imperiale, e per le ventilate possibilità di una gestione laica e nazionale della questione confessionale e della conseguente estromissione della Curia. Ancora impacciato e inesperto, il F. si trovò a sostenere una folle proposta di Francesco I circa un'azione contro l'Inghilterra da parte del papa e di Carlo V che avrebbe portato ad una spartizione tripartita dell'isola a cui l'imperatore rispose con una lezione di cautela politica ricordando al legato il rischio di una saldatura tra Enrico VIII e i luterani. In un contesto molto vago e informale maturò nel papa, all'annuncio della volontà di Carlo V d'incontrarsi nel suo viaggio verso le Fiandre con Francesco I, la nomina del F., il 24 nov. 1539, quale nunzio incaricato di seguire lo sviluppo dei colloqui tra i due sovrani. Accompagnato anche questa volta dal Cervini, si trovò ad interpretare i dettami di un'istruzione che considerava l'incontro come una prosecuzione del convegno di Nizza. Veniva confermata la priorità della pace come condizione necessaria per la convocazione del concilio per "purgare la casa", punire i luterani e risolvere il conflitto con Enrico VIII, sottolineando che, in una fase interlocutoria i compiti del legato non dovevano travalicare una sorveglianza esterna degli abboccamenti ufficiali, una conferma del neutralismo e la resistenza ad eventuali iniziative ostili alla S. Sede.

Partito da Roma il 28 novembre, proseguì nella totale indifferenza per giungere infine a Parigi. Nonostante la sua missione non risultasse in fondo troppo gradita, egli poté sovente partecipare a conviti esclusivi: il 3 e il 4 genn. 1540 venne ricevuto da solo rispettivamente da Francesco I e da Carlo V a cui raccomandò di non scegliere la via dell'accordo privato e segreto rinunciando ad un doveroso consulto con il papa. Con Carlo V non mancarono elementi di tensione circa le pressanti richieste di danaro da destinare alla lotta antiottomana che l'imperatore riteneva dovessero gravare soprattutto su Roma e che erano senz'altro per lui esorbitanti e insostenibili. Brillante nella vita di corte, il F. viaggiò a Rouen, Caen e Amiens per curare interessi privati e, dopo un'ulteriore e inutile udienza con Francesco I, il 14 febbraio partì verso Gand per avvicinarsi all'imperatore. Qui poté verificare la scarsa volontà di pace e di convocazione del concilio, anzi il "dubio" e la "tardanza" divennero protesta per l'intenzione imperiale di ricercare accordi politici con il mondo riformato tedesco organizzato nella Lega di Smalcalda, per l'ipotesi di una tregua generale con i Turchi e addirittura di un riavvicinamento con Enrico VIII.

L'interesse principale della legazione fu orientato ad una paziente opera di convincimento nei confronti dell'imperatore per allontanarlo vieppiù dalla volontà di trattativa e di compromesso anche religioso nei confronti dei luterani, soprattutto dopo la manifesta intenzione veneziana di concludere una pace separata con i Turchi, di consolidare finanziariamente la Lega cattolica e di spingere per una sollecita apertura del concilio, unico rimedio alle crescenti defezioni che andavano verificandosi anche in campo cattolico. Nell'aprile persistendo la sua esclusione, quella del Cervini - per la verità vero responsabile della missione, estensore della corrispondenza diplomatica e recentemente creato cardinale nel dicembre 1539 - e dei nunzi persino dall'informazione, essendo le proposte papali circa la risoluzione della successione del Ducato di Milano come base della pace d'Italia praticamente ignorate, il F. giunse a sospettare addirittura di un disegno franco-imperiale per spartirsi l'Inghilterra e l'Italia. Infine l'11 maggio, verificata l'inutilità della prosecuzione della missione, il F. si congedò dall'imperatore e il Cervini venne lasciato come legato.

Ripreso il suo posto in Curia a Roma, continuò a seguire le questioni fondamentali che agitavano la politica papale. Nonostante non si possa parlare d , i una verae propria autonomia di iniziative, egli attivò una scrupolosa e intensa corrispondenza con i nunzi presso le corti franceseed imperiale. Specie con quest'ultima sifece portavoce in più occasioni della volontà papale di ostacolare ogni concessione ai luterani anche se giustificata con lo sforzo di ricercare l'unità politica della Germania: in tale senso nel luglio e nell'agosto manifestò ripetutamente a Marcello Cervini e a Giovanni Morone l'imbarazzo e l'opposizione ad una partecipazione pregiudiziale al colloquio di Wormsed organizzò il tormentato invio di Tommaso Campeggi (4 novembre) e di Gaspare Contarini quando la Dieta fu trasferita a Ratisbona (12 marzo 1541) in un estremo tentativo di conciliazione. Tuttavia, l'atteggiamento egemonico e soprattutto politico dell'imperatore di fronte alproblema della Riforma, il radicalismodell'interlocutore, il fallimento di Ratisbona dove ogni tipo di soluzione era stata prospettata, persino quella suggeritadal Granvelle di corrompere con 50.000 scudi i principali teologi protestanti, fecero sì che il F. in nome di Paolo 111 richiamasse il Contarini e riaffermasse chesoltanto il concilio poteva essere la sedeidonea ove affrontare l'eresia luterana conuna marcata rivendicazione dell'assoluta autorità del papa in materia religiosa.

Contemporaneamente il F. fu strumento della politica espansionistica familiare: partecipò come membro garante alla commissione per la resa di Ascanio Colonna nell'ambito della lotta antifeudale: un'azione intrapresa con energia sin dall'inizio del 1541 e conclusasi con la caduta di Paliano e il ridimensionamento del partito filoimperiale e di qualunque velleità baronale di coniugare le proprie aspirazioni al grande scontento popolare provocato dal pesantissimo fiscalismo di Paolo III. In un clima di crescente tensione, l'8 settembre il F. fece parte del seguito papale al convegno di Lucca seguendo i tentativi di pacificazione, che sembravano compromessi dall'assassinio degli inviati francesi A. Rincon e C. Fregoso, sostanziandoli con una strategia diplomatica di contenimento di una vanificazione della tregua di Nizza e di ripresa delle ostilità e con una intensificazione del controllo dei focolai di insoddisfazione e dei tentativi d'inserimento degli Stati italiani nel conflitto franco-imperiale.

Sovente puntiglioso e burocratico, sbarazzatosi della tutela da lui considerata moralistica di Marcello Cervini, andava rinsaldando il sodalizio con il padre e con il fratello Ottavio per soddisfare ambizioni dinastiche e assumendo la fisionomia di un politico impegnato nel doppio fronte, internazionale e curiale, dell'organizzazione della segreteria: non alieno da esibizionismi concepiva meccanicamente e talvolta rozzamente, non sempre in sintonia con la superiore intelligenza tattica dei papa, il neutralismo e il controllo della situazione italiana come totalmente subordinato agli interessi personali e in genere dei membri più giovani della famiglia Farnese.

Ciò fu evidente quando, a guerra franco-imperiale ormai riaperta, fu incaricato, unitamente a Pierluigi, di preparare l'incontro tra il pontefice e Carlo V a Busseto nel giugno del 1543 ove venne avanzata l'ipotesi di una assegnazione del Ducato di Milano ad Ottavio, senza però raggiungere "cosa alcuna sustantiale" per l'insostenibilità della somma richiesta come contropartita. Nel novembre, in un clima sempre più avvelenato dalle accuse di faziosità o dalle impellenti richieste di pronunciamento di entrambi i contendenti, dalle infinite difficoltà di gestione, direzione e partecipazione poste dalla convocazione del concilio a Trento, il papa tentò la carta di una nuova legazione di pace incaricando il F., a sottolineare l'importanza dell'iniziativa, di recarsi presso i belligeranti. Nominato il 21 novembre, il 28 era già partito per giungere il 1º gennaio 1544 a Fontainebleau: a corte, nonostante la gentilezza formale, non poté che cogliere un'atmosfera di fredda sospettosità e di scarsa fiducia nei confronti di Roma appena ravvivata dalle sue pratiche per sondare la possibilità di un matrimonio tra la sorella Vittoria e il duca d'Orléans. Proseguì rincorrendo l'imperatore per riuscire finalmente a contattarlo a Magonza il 20 dello stesso mese. Nulla poté ottenere al cospetto di un imperatore irritato dai reiterati rifiuti del papa alle richieste di finanziamenti e di aiuti avanzati per sostenere la lotta ai protestanti e dalla equipollenza tra la sua persona e il re di Francia che veniva affermata diplomaticamente nella strategia neutralista del papa.

Scosso dall'irruenza di Carlo che non aveva mancato di ricordare l'esempio di Clemente VII e di dichiarare che avrebbe intrapreso l'opera di riforma nella Germania senza l'intervento alle Diete di legati sgraditi e dannosi, il F. sulla via del ritorno si recò in Francia dove riprese, o tentò di farlo, le trattative per il matrimonio di Vittoria con il duca d'Orléans e assisté al battesimo dei delfino. Sottoposto ad un'incalzante richiesta di schieramento filofrancese, il F. si mantenne alle consegne neutraliste senza dunque ottenere nulla se non attestati di stima e una calorosa accoglienza.

Tornato a Roma si occupò di ordinaria amministrazione sino a quando con la pace di Crépy (18 sett. 1544) e la conseguente pacificazione tra le maggiori potenze cattoliche non fu possibile riaprire la discussione sulla convocazione e sull'apertura del concilio. Ipotesi che aveva ricevuto mortificazioni da un situazione politica particolarmente tesa con l'imperatore, il quale aveva manifestato le sue intenzioni di esclusione e di subalternità dell'autorità pontificia dichiarando, a conclusione della Dieta di Spira (giugno 1544), con un atto formale, la precisa volontà di convocare un sinodo nazionale tedesco in attesa dei concilio, di concedere l'ingresso a riformati nella Camera imperiale e la sospensiva di processi per motivi religiosi. Roma rispose con un breve di biasimo (27 luglio), ma negli spiragli concessi dalla fine delle ostilità il F. si attivò nel rasserenare il clima generale e consentire così l'apertura del concilio a Trento: da tempo aveva partecipato alla scelta della sede, che doveva vedere consenzienti sia i Francesi sia i Tedeschi, e aveva curato, per stemperare l'animosità imperiale, le pratiche per l'elezione di tre cardinali spagnoli (19 dic. 1544). Il momento più impegnativo fu per lui, in questa strategia di avvicinamento tra Carlo V e Paolo III, l'incarico di recarsi a Worms per una missione preparata da Cristoforo Madruzzo, vescovo di Trento e neopubblicato cardinale, e per riallacciare una collaborazione e immaginare una strategia comune, a ridosso della ormai imminente apertura del concilio.

Partito il 17 aprile da Roma, il 23 era a Mantova e il 25 giungeva a Trento con un seguito di 250 cavalieri dove si convinse della necessità di una breve dilazione dell'apertura subordinata all'esito della missione. Quindi, timoroso di divenire "buona preda" di cavalieri "heretici" "imboscati" nelle strade alpine, si fece accompagnare da una nutrita scorta armata con mille precauzioni di itinerario per giungere a Worms il 17 maggio 1545 apparentemente per discutere sull'entità del sussidio papale per la lotta contro il Turco. In realtà oltre a ciò, per cui aveva una cedola cambiaria di 100.000 scudi da consegnare al banco di Augusta, aveva avuto l'incarico prioritario di affrontare la riappacificazione e il coordinamento di Carlo V con il papa come passo fondamentale per procedere ad una sollecita punizione militare e inquisitoriale del luteranesimo.

Gli abboccamenti con l'imperatore e il cardinale di Granvelle rivelarono al F., ormai sempre più a suo agio e maturo negli ambienti diplomatici, che persistevano nell'imperatore incertezze legate alla dimensione e alla rilevanza delle forze protestanti: si richiamava per il momento la difficoltà di optare per una soluzione di forza, a sostegno della quale comunque era considerato indispensabile un ingente sforzo finanziario del papa. Anche qui interessi personali e una certa preoccupazione per il futuro, sollecitata in primo luogo dal padre Pierluigi a mostrarsi accondiscendenti alla volontà imperiale in virtù delle incertezze per l'età avanzata dei papa, contribuirono a che il F. approvasse l'idea di una lega con Carlo V, finanziata generosamente dal pontefice per ingaggiare un conflitto risolutivo con la Lega protestante. S'impegnò nel sondare il margine di manovra e le contropartite che l'imperatore concedeva "all'ingrandimento della casa", trattò senz'altro la possibilità di matrimonio tra Fabrizio Colonna e Vittoria Farnese ma soprattutto, in grande segretezza, accennò alla creazione di un ducato di Parma e Piacenza da destinare ad Ottavio nel caso di un fallimento dell'opzione milanese. Partito alla chetichella alla fine di maggio con una fuga notturna che non mancò di far avanzare ipotesi audaci - la più suggestiva delle quali indicava che avesse voluto "barattar il cardinalato con il ducato di Milano et pigliar moglie" - il 2 giugno era nuovamente a Trento per riferire ai padri conciliari. Quindi fu a Roma l'8 giugno per discutere la liceità della sua approvazione e l'entità degli aiuti finanziari con lo stesso papa che si dichiarò disponibile a offrire altri 200.000 scudi, 12.000 fanti e 500 cavalieri spesati per quattro mesi, a concedere la metà delle entrate ecclesiastiche ispaniche e la facoltà di vendere monasteri spagnoli a patto che tutte queste risorse venissero impegnate unicamente contro i luterani. Con questo preliminare accordo di carattere offensivo ottenuto dal F. e ratificato dal papa, il 13 dic. 1545 il concilio di Trento ebbe la sua apertura ufficiale.

Nella prosecuzione dell'opera di applicazione della pace, venne indicato come possibile legato presso la corte cesarea, ma Carlo V si opponeva alla presenza di legati pontifici che si intromettessero o anche solo controllassero le trattative con Francesco I. Il F. fu poi contrariato per la creazione del fratello Ranuccio a cardinale (16 dic. 1545) che intralciava una crescente collaborazione d'intenti con il padre di cui divenne strumento degli sforzi nel convincere il papa, tramontata l'assegnazione del Ducato di Milano ad Ottavio, ad assumere un atteggiamento più compromissorio nei confronti dell'imperatore per preparare l'investitura a Pierluigi Farnese del Ducato di Parma e Piacenza e, per se stesso, a corroborare una probabile candidatura a divenire papa. Nonostante le cautele, il senso tattico e l'abilità nel contribuire alla costituzione di un gruppo di pressione sul papa non riuscì ad evitare un pesante litigio con quest'ultimo circa le aspirazioni di Pierluigi che evidenziò gli schieramenti all'interno della famiglia. E di riflesso queste invadenze provocarono nell'agosto 1545, in una riunione concistoriale, dubbi e dissensi manifesti in molti Cardinali che solo l'intervento di Paolo III riuscì a contenere. La fitta corrispondenza con il padre e con Apollonio Filareto, un frenetico e disinvolto attivismo negli ambienti curiali e diplomatici, l'ostinazione nel respingere il malcontento di Vittoria, Margherita ed Ottavio, dei Santa Fiora e dei Gonzaga, la sostanziale indifferenza agli echi negativi che un tale atto nepotistico avrebbe provocato in sede conciliare attestarono il ruolo determinante del F. nel nuovo assestamento giuridico e familiare: Pierluigi, "in una notte come nasce un fungo", otteneva come vassallo il Ducato della Chiesa di Parma e Piacenza permutando Nepi e Camerino, cedendo quello di Castro e il titolo ad Ottavio.

I trascorsi e l'esperienza maturata in precedenza furono decisivi nella destinazione del F. come legato al seguito dell'esercito pontificio nella guerra contro i protestanti. Ricevuta la croce il 4 luglio 1546 insieme con Ottavio, comandante in capo delle truppe, si recò a Bologna per sovrintendere all'allestimento e all'approvvigionamento dell'armata e ripartì per raggiungere l'imperatore il 16 luglio ed iniziare così la campagna contro la Lega smalcaldica. Ammalatosi di febbri che lo costrinsero a sostare a Trento e Rovereto (2-7 agosto), non giunse a Ratisbona per unirsi al fratello che il 24 agosto, per trovarsi di fronte ad ulteriori e pressanti richieste di danaro e per assistere al disastro progressivo della spedizione.

Il F. e Ottavio furono al centro di severe critiche circa la gestione delle truppe e dei comandanti, irregolarità nei pagamenti e personali sprechi che determinarono una grave caduta d'immagine agli occhi dell'imperatore. Questi non ebbe quasi rapporti diretti con il legato né volle riconoscerlo come tale, specie quando si trattò di riproporre una mediazione papale in occasione della pace con la Francia oppure nelle vivaci discussioni sull'opportunità di una traslazione del concilio.

Sofferente per fastidiosi disturbi intestinali venne richiamato verso la fine di ottobre, provocando la diserzione di mille soldati che aggravò ulteriormente nella qualità e nella quantità un'armata sottoposta alla fame, al freddo, agli sbandi e infine alla peste. Sostò a Trento dove ebbe modo di verificare e di difendere la traslazione a Bologna per l'ostiiità crescente delle popolazioni e la vicinanza dei riformati. Raccolse qui i segnali delle divisioni interne al concilio sulle procedure e sui tentativi imperiali di pilotare i lavori conciliari e di esercitare una sorta di egemonia connessa con gli sviluppi della campagna antismalcaldica. Constatati gli umori differenziati circa l'accordo per una sospensione del concilio per sei mesi e del rinvio della pubblicazione dei decreti sulla giustificazione e sulla residenza (particolarmente osteggiati a Roma e sostenuti invece dai prelati spagnoli e in genere da coloro che meno erano legati alla Curia), si recò a Venezia per "sollazzo" e nei primi giorni del 1547 era di rientro a Roma. Qui difese vanamente, forse per confermare il ruolo di intermediario e la sua simpatia agli ambienti imperiali che lo consideravano peraltro alla stregua di un "fazzoletto", la necessità di un rinnovo della lega con Carlo V contro i luterani.

La congiura e la morte tragica di Pierluigi (10 sett. 1547) coinvolsero naturalmente anche il F. che aveva da tempo assecondato il padre e gli atteggiamenti filoimperiali: improvvisamente tutte le sue riflessioni e scelte diplomatiche venivano ad essere messe in discussione. Ad un primo stordimento fece seguito un'immediata azione presso l'imperatore per ricordare l'antica dedizione e soprattutto la necessità di riconoscere ad Ottavio il Ducato e porre fine all'occupazione di Piacenza da parte di don Ferrante Gonzaga, che aveva significato per i Farnese una perdita di 224.000 scudi d'oro. Inoltre, sostenne, di conserva con l'ambasciatore cesareo Diego Hurtado de Mendoza, l'idea di ritrasferire il concilio a Trento per non irritare ulteriormente l'imperatore e favorì prima gli aggiornamenti bolognesi e quindi la stessa sospensione. E contemporaneamente, la drammaticità dell'evento gli provocò inquietudini sulla politica personale seguita sino a quel momento in modo che, insensibilmente, ma costantemente, maturò anche un lento avvicinamento alla corte francese. Con discrezione cominciò ad affiancare e consigliare il neoeletto cardinale Carlo Guisa - che saggiava il papa sulla possibilità di una lega difensiva veneto-franco-pontificia - e, in generale, a mostrare una rinnovata attenzione verso gli ambienti francesi e i loro alleati italiani, in primo luogo i fuoriusciti fiorentini capitanati dagli Strozzi. Nel frattempo contribuì considerevolmente a finanziare con sostanze personali e di propria iniziativa il fratello precipitatosi nel settembre 1547 al soccorso e alla difesa di Parma.

Le preoccupazioni per il vicino tramonto del pontificato farnesiano e il crescente clima di ostilità contro la casa Farnese aumentarono l'autonomia del F., che diede incarico a Giuliano Ardinghelli, inviato all'imperatore nel marzo 1548, di avanzare una trattativa sul destino di Piacenza, tentando d'imporsi come l'interlocutore privilegiato e testimone degli interessi di Ottavio e di Margherita. Un'anticipazione di quell'accordo segreto che, dopo il ritrasferimento del possesso di Parma e Piacenza alla S. Sede per volontà di Paolo III, ebbe con Ottavio il quale iniziò ad intavolare trattative con il luogotenente imperiale di Milano Ferrante Gonzaga per una ricompensa o l'investitura di Parma da parte dell'imperatore. Il F. ebbe una parte rilevantissima nel sostenere a Roma questa azione che attirò su di lui le ire del papa: ciò non gli impedì tuttavia di strappare al nonno moribondo un breve che riconcedeva la città al fratello (8 nov. 1549). Mantenne questa spregiudicatezza anche in occasione del lungo conclave che portò all'elezione di Giulio III. Nei lenti lavori, con la minaccia di affidare l'elezione del papa ai padri conciliari, in un sostanziale equilibrio tra i partiti avversi, tra violazioni del regolamento per i continui contatti con l'esterno, a ventinove anni, con diciassette voti a disposizione, fu animatore del partito imperiale-farnesiano. ottenne una dichiarazione solenne di riconoscimento del possesso di Parma a Ottavio a cui consigliò con fermezza una strategia di attesa e moderazione. Sostenne invano la candidatura di R. Pole, indicò i cardinali sgraditi, stroncò le aspirazioni del card. G. Salviati sostenuto dal re di Francia anche contro l'opinione di cardinali vicini all'imperatore (Gonzaga, Madruzzo, Sforza). Infine, a più di due mesi dalla convocazione, governò i dissensi emersi all'interno della famiglia Farnese sull'elezione, si accordò personalmente con il cardinale di Lorena Carlo di Guisa, "l'anima del re christianissimo", sul nome di Giovan Maria Ciocchi Del Monte su cui fece convogliare l'8 febbr. 1550 tutti i voti del gruppo da lui controllato obbligandosi così il neoeletto pontefice Giulio III.

Sempre più oculato nel considerare innanzitutto la propria fortuna personale, all'interno della famiglia la sua posizione divenne predominante: ai primi di ottobre del 1550 orientò risolutamente il "consiglio di famiglia" che decise nel marzo seguente di stipulare un'alleanza con Enrico II e sancì l'indipendenza degli "inesperti, mal consigliati" Farnese rispetto agli orientamenti filoimperiali del papa. Di fronte alla inaffidabilità del papa, all'accordo con Ottavio di preservare Parma e di riconquistare Piacenza, nonostante la preoccupazione per le rendite nel Regno di Napoli e della diocesi di Monreale, il F. fu l'animatore e il propulsore di una politica strumentale di intesa con il re di Francia. L'avvicinamento fu improntato alla cautela e il raggiungimento degli stessi fini venne da lui subordinato ad una tattica temporeggiatrice in una situazione delicata nella quale si preoccupò di non interrompere formalmente i rapporti con entrambe le Corone e con il papa. L'animosità del papa di fronte alla ribellione di Ottavio, che non voleva cedere alla proposta di consegnare le città emiliane in feudo pontificio, la convocazione di un concilio nazionale in Francia proprio nel momento in cui era richiesta una presenza francese qualificata per legittimare la riapertura conciliare a Trento e un possibile intervento del re in Italia lo posero spesso in imbarazzo nel mantenere questa condotta di apparente neutralità. Fortemente sospettato di doppiezza e sorvegliatissimo, venne incaricato dal papa di portare personalmente ad Ottavio un ultimo richiamo all'obbedienza: partì da Roma il 18 apr. 1551 e raggiunse Parma il 28 aprile. Dopo la firma del trattato (27 maggio 1551) con Enrico II, divenuto protettore della casa Farnese con la promessa di 2.000 fanti, 200 cavalieri e un sussidio annuale di 12.000 scudi d'oro, con Orazio promesso sposo di Diana di Francia, figlia naturale di Enrico II, e organizzatore con i fuoriusciti dei preparativi militari, il F., nonostante la proibizione del papa, si allontanò da Parma il 14 maggio 1551 per rifugiarsi presso la sorella Vittoria, lontano dall'epicentro delle ostilità per meglio partecipare alla difesa degli interessi familiari e preservare lo stato ecclesiastico personale senza pregiudicarsi completamente la possibilità futura di una dissociazione.

Sottoposto come gli altri membri della famiglia a rappresaglie, gli venne intimato dal papa di rientrare a Roma il 16 giugno e il 20 dello stesso mese gli venivano venduti i mobili di palazzo Farnese per 30.000 scudi e posta sotto sequestro la diocesi di Monreale ottenne soltanto di potersi recare a Firenze dove giunse il 23 luglio. Seguì durante l'anno gli sviluppi militari con una certa apprensione soprattutto per la disomogeneità e le rivalità presenti tra Orazio e Ottavio da un lato, le forze del fuoriuscitismo fiorentino e i contingenti francesi: non cessò mai di avere rapporti epistolari con Margherita d'Austria e il fratello Ranuccio. Il breve del 20 apr. 1552 che aprì la strada alla tregua d'armi venne accolto con sollievo e persino come un successo dal F. che tuttavia continuò a restare lontano da Roma sino al 7 giugno: il giorno dopo si recò a pacificarsi con Giulio III e a recuperare le sue rendite ecclesiastiche con un rientro sfarzoso "pontificalissimamente" accompagnato in corteo da tre cardinali, ventiquattro vescovi e quattrocento cavalieri. Tuttavia, dopo poco era già in viaggio: aveva passato l'estate nei possedimenti farnesiani del Viterbese, il 4 settembre era a Siena, ribellatasi agli Spagnoli, per testimoniare con la sua persona una solidarietà sino ad allora soltanto formale ed epistolare e per scontrarsi con il suo rivale Fabio Mignanelli, nominato legato in sua vece. Giunse a Parma il 10 settembre e ne ripartì ben presto con l'intenzione di recarsi alla corte di Francia dove godere del felice esito dell'alleanza con Enrico II e per mantenersi prudenzialmente distante dalle insidie degli ambienti curiali che non lo vedevano più personaggio di spicco e di potere come nel recente passato. Attraverso la Valtellina, la Svizzera, Lione, si riunì alla corte a Chilons in Champagne iI 16 nov. 1552.

I motivi del viaggio erano legati alla speranza, fallito il tentativo di farsi inviare come legato del papa a Siena, di ottenerne dal re di Francia la luogotenenza per Orazio, e per sé la "protezione" degli affari francesi, garanzia di un ritorno più tranquillo in Curia. Egli coltivò anche segretamente il sogno di un'ulteriore espansione dei territori familiari così da saldare il Viterbese al Senese e ai possedimenti parmensi, dando in tale modo ulteriore concretezza all'antico progetto farnesiano di creare un forte potere nell'Italia centrale.

La sua permanenza in Francia lo vide molto presente nelle attività cortigiane, diviso tra il seguito reale e soggiorni ad Avignone (il primo fu nel marzo del 1553) di cui aveva la vicelegazione, della quale, del resto, si occupò assai poco. Probabilmente riuscì a convincere il re, specie dopo la vittoria di Metz e la riproposizione dell'Italia come nuovo terreno di conflitto, che nell'ambito della politica italiana un rafforzamento dei Farnese e della loro posizione politica, economica, territoriale avrebbe significato un vantaggio non trascurabile. Il F. si offerse come anello di congiunzione con la politica papale, in un momento generale di appassimento delle relazioni con l'imperatore e un concilio non ancora concluso, e garante di una rappresentatività a Roma che approfittava della volontà del re di Francia di rafforzare la sua influenza in Curia. Per questa ragione si vide assegnare nel gennaio 1553 le entrate del vescovato di Grenoble e di un'abbazia di Tolosa per un totale di 30.000 libbre poco prima di assistere al matrirnonio di Orazio, suo fratello minore, con la figlia bastarda del re Diana di Francia duchessa d'Angouléme (14 febbraio). Dopo la morte repentina di Orazio in battaglia (19 luglio 1553) e l'inconsistenza degli aiuti offerti ad Ottavio anche dopo il suo arrivo e il suo breve soggiorno a corte, rimase di fatto l'unico beneficiario del favore del re e ottenne nel novembre 1554 il vescovato di Caliors (18.000 libbre di rendita). Il F. lasciava la corte francese il 24 giugno 1554 con un memoriale del sovrano francese che lo pregava di usare tutta la sua influenza per ottenere l'appoggio di Giulio 111 nella guerra di Toscana.

Accolto trionfalmente a Roma al ritorno nell'estate del 1554, la sua solidità finanziaria si era addirittura accresciuta se in un computo del 1º agosto la sua corte era capace di sfamare centottantatré persone tra fámiliari, camerieri, palafrenieri, cantinieri, mulattieri, trincianti, credenzieri, cuochi, bottiglieri, stallieri, scopatori, portieri, giardinieri, musici, scalchi e sottoscalchi. Inoltre il 27 luglio, scalzando il cardinal Jean du Bellay, otteneva comunque la carica molto remunerativa di protettore della Francia presso la corte romana (120.000 libbre) per cederla però ben presto e a malincuore al cardinale Ippolito d'Este. In questo periodo fu oscuramente impegnato ad attendere l'esito della guerra di Siena, disastroso per i fuoriusciti (Marciano, 2 ag. 1554), e a tentare di riavvicinare, a nome del papa, il duca Cosimo con il re di Francia in vista di una campagna nel Napoletano. In realtà, egli sino al dicembre cercò di sfruttare la situazione per far assegnare da Enrico II il governo militare dello Stato senese ad Ottavio.

La morte di Giulio III e il brevissimo pontificato di Marcello II Cervini servirono a palesare però la diffidenza sostanziale che ormai intercorreva tra il re di Francia e il Farnese. Partito da Roma il 13 genn. 1555, dopo una breve sosta nel Viterbese, s'imbarcò per Tolone e di li partì per Avignone, dove giunse l'11 marzo probabilmente per tentare di dissipare i timori e i sospetti, peraltro fondati, sulla sua affidabilità. Altri candidati erano stati presentati come graditi a Parigi in un momento in cui ancora viva era l'animosità per la guerra di Siena. Tornato precipitosamente a Roma il 15 aprile, si vide offrire da Marcello II la possibilità di tornare alla segreteria di Stato ma rifiutò questa proposta insistendo Presso il papa per una solerte restituzione di Piacenza ad Ottavio. All'apertura del nuovo conclave, il 15 maggio 1555, il F. aspirava alla tiara in assoluto contrasto con i cardinali Ippolito d'Este e Jean du Bellay. Svanita questa opportunità, si collocò al centro tra Francesi e Imperiali, da vero arbitro, e si attivò nella crescente divisione della fazione filofrancese per rendere possibile l'elezione il 23 maggio di Paolo IV. Subito dopo fu tra i sostenitori della promozione controversa di Carlo Carafa al cardinalato con la manifesta intenzione di legarsi al nuovo potere pontificale.

Formalmente uomo della Francia, il F. era, in realtà, molto attento all'evolversi della situazione politica: le presenze e le cariche ecclesiastiche a Roma del clero francese venivano seguite da vicino anche con prese di posizione personali. Proverbiale era il sentimento di antipatia nei confronti di Jean du Bellay e il sostegno che venne accordato a F. de Tournon quando a questo non venne concesso il decanato.

Discretamente affiancò l'ambasciatore francese Jean d'Avanson nel far avanzare il trattato d'alleanza franco-papale sino alla stesura e alla firma del progetto di lega (15 dic. 1555). La resistenza ad esporsi troppo, oltre che per la crescente diffidenza della corte francese, era determinata da un giudizio d'inopportunità circa i disegni eccessivi dei cardinali Carlo e Ludovico di Guisa nella penisola, in effetti sconfessati e vanificati poco più tardi dalla tregua di Vaucelles (16 febbr. 1556). Tuttavia, la ragione sostanziale stava per il F. in una strategia di progressivo avvicinamento alla casa d'Austria dopo aver visto sfumare ogni possibilità di trarre vantaggio dalla guerra di Siena: dopo la sconfitta di Marciano i contatti con gli Imperiali si fecero sempre più frequenti inseguendo gli obiettivi prioritari di recuperare alla famiglia i territori occupati da Ferrante Gonzaga e di far revocare le numerose confische operate, la più dolorosa delle quali era quella dei benefici dell'abbazia di Monreale. Nello stesso tempo il timore di uno schieramento intempestivo lo preoccupava per la sorte delle entrate di cui godeva nei possedimenti ecclesiastici francesi; pertanto il suo atteggiamento fu improntato ad una grande prudenza e ad una doppiezza nei rapporti politici.

Nell'autunno del 1555 con il fratello Ottavio mostrò apparentemente un grande zelo nelle riunioni segrete con lo "scervellato" Carlo Carafa e d'Avanson per una riapertura dell'offensiva antispagnola in Toscana e nel Meridione. Una tattica attendista in un quadro confuso in cui però andavano degradandosi il prestigio e il credito personale del F. presso il papa, tanto che dopo un violento alterco, dove lo si giudicò "perfido, cattivo ed eretico", meditò seriamente di ritirarsi per qualche tempo ad Avignone. Obbligato a risiedere a Roma, dopo la tregua di Vaucelles, l'attrazione verso l'orbita spagnola si fece sempre più forte: iniziò una corrispondenza amichevole con il viceré di Napoli continuando contemporaneamente a mostrarsi interessato alle velleità dei Carafa e nel giugno 1556 si recò prima a Ronciglione e poi a Parmaper concertare i dettagli del distacco dall'influenza francese. Quando la lettera imperiale di restituzione (25 ag. 1556) di Piacenza, Novara, di Monreale e della dote di Margherita rivelò il voltafaccia, protestò la sua innocenza cercando di addossare tutta la responsabilità sul fratello Ottavio e sforzandosi disperatamente di mantenere così intatto il patrimonio francese. Impresa vana poiché le rendite delle abbazie di Caen, Beaufort, Granselva e dell'arcivescovato di Viviers gli furono confiscate il 23 ott. 1557 in occasione dell'apertura del conflitto franco-spagnolo in Italia e verranno a lui restituite soltanto nel 1559. La spedizione francese di Francesco duca di Guisa in Italia per la conquista di Napoli provocò non poche apprensioni, prima fra tutte quella di un attacco allo Stato farnesiano di Parma. Anche qui, di conserva con il fratello, il F. ostentò un neutralismo di maniera governandosi "secondo il dover del giuoco", in realtà conservando una stretta e interessata intesa con gli ambienti ispanici.

Riuscì in parte a mitigare l'ostilità del papa con un atteggiamento accondiscendente e riuscì persino a coinvolgerlo in un intervento in suo favore per denunciare invano la violazione del diritto ecclesiastico quando Enrico II ordinò l'espulsione dalla corte di tutti gli agenti farnesiani. Però i rapporti tra Paolo IV e il F. soffrirono soprattutto di una reciproca e simmetrica antipatia che si manifestò nella scarsa consonanza nel vivere aspetti fondamentali del clima controriformato e che permasero sino alla scomparsa del pontefice. Patemalista, ricco, incapace di rinunciare ad attività mondane e finanziarie, principesco, protettore di libertini, di ebrei, di artisti, mal sopportava il furore inquisitoriale dei Carafa: difendeva le proprie entrate con accanimento, faceva scarcerare proprie creature, si preoccupava della sorte della biblioteca del palazzo Farnese, fu decisivo, forse, nel salvare la comunità ebraica di Roma da una punizione durissima in occasione dell'unica accusa di omicidio rituale che si ricordi a Roma.

In una situazione internazionale stabilizzatasi con i trattati di Cateau-Cambrésis, rilevantissimo fu il ruolo da lui rivestito in occasione del conclave, lungo ed estenuante, che portò all'elezione di Pio IV. Quotato "a sei" nelle scommesse di trivio del picchetto del quartiere Ponte, poteva contare su una ventina di voti. Il 23 sett. 1559, svegliato nottetempo, riuscì a sventare un colpo di mano per eleggergli "in faccia il cardinal di Mantova" (Ercole Gonzaga) e s'impegnò a curare l'ingresso delle somme per sostenere il cardinal Rodolfò Pio di Carpi e guadagnare consensi. In un'atmosfera cittadina sempre più disordinata e in preda ad una criminalità sempre più diffusa, come ad ogni prolungamento di sede vacante. trascinandosi tra "vini pretiosi", "giaccio mattina e sera fatto portare di Abruzzo", "vitella", "uccellami", "pollami", "ogni sorta di selvatichumi", insofferente sino al punto di far "smurare una porticella" per uscire dal conclave, era nel dicembre arbitro della elezione particolarmente gradito agli Spagnoli ed addirittura considerato come papabile. Fu decisivo al momento del voto finale in favore del cardinale Giovan Angelo de' Medici (26 dic. 1559).

Da questo momento in poi l'attività del F. si distaccò sempre di più dalla vita politica attiva presso le corti e si connotò principalmente in un oculato mantenimento del proprio potere personale a Roma, nella conservazione di un'immagine prestigiosa e influente ed in un accrescimento della propria fortuna patrimoniale che, risolta la questione delle confische francesi, si segnalava per un movimento di capitali, rendite e pensioni impressionante. Con una rete diffusa di agenti patrimoniali, legato a numerosi banchieri soprattutto fiorentini (Rucellai, Cavalcanti, Bardi, Montaguti, Ceuli, Soderini ecc.), a prestatori, ad appaltatori poteva disporre di una liquidità notevolissima e di un credito corrente che negli anni Sessanta era mediamente superiore ai 40.000 scudi d'oro annui; cfr. Archivio di Stato di Parma, Fondo Corte e Casa Farnesiane, s. 12, b. 59: Liber instrumentorum d. Alexandri card. Farnesii (21 ag. 1535-28 genn. 1567), cc- 72 ss. Le entrate più sicure e consistenti provenivano da Monreale, 17.000 scudi, da Avignone, 7.000 scudi, dalle mense episcopali portoghesi, 6.400 scudi, a cui si aggiungevano, oltre alle altre rendite ecclesiastiche, i benefici vacanti dovuti al vicecancellierato che oscillavano tra i 2.000 e i 4.000 scudi, il commercio di grani siciliani, gli affitti e gli appalti di varia natura (abbazia delle Tre Fontane, S. Martino di Viterbo, vescovato di Massa) e talvolta persino un'attività propria di finanziamento ad interesse. Anche nel pieno dei fervori e dei propositi conciliari di limitare il cumulo di benefici, il F. aggirò spessissimo la questione valendosi del diritto di nominare un nuovo titolare dei benefici a cui si doveva rinunciare per incompatibilità, indicando prestanome, familiari, oppure soggetti che si accordavano opportunamente con lui per il versamento di una rendita vitalizia.

Durante il pontificato di Pio IV, con altri tredici porporati, tra i quali Carlo Borromeo, fu inserito in una commissione per la "riforma dei costumi" (10 febbr. 1560), in attesa che il concilio esaminasse la riforma dei tribunali pontifici e del conclave. In occasione della scabrosa e nota vicenda dell'arresto dei Carafa si adoperò nel processo per salvare almeno Carlo, vedendo nella loro disgrazia un possibile tentativo di diminuire le prerogative del S. Collegio: fu uno dei pochi che nel marzo 1561 osò levarsi in concistoro implorando inutilmente cleMenza. A disagio nella nuova atmosfera, nel novembre 1563 durante le ultime sessioni conciliari tentò, anche con iniziative epistolari, di opporsi alle decisioni di riforma della Curia e del Collegio cardinalizio. Sino alla pubblicazione della bolla di approvazione dei deliberati (30 giugno 1564) si animò nel dibattito del concilio soltanto episodicamente quando avvertiva il rischio di essere diminuito nel suo rango e nel suo tenore di vita. Favorì Gabriele Paleotti nell'ottenimento della porpora cardinalizia nel marzo 1565.

Dopo la morte del papa, entrato in conclave il 20 dic. 1565 sostenuto dai cardinali più poveri, il carattere più impermeabile alle influenze delle potenze internazionali che contrassegnò i lavori dei porporati gli consentì di avere un ruolo di primo piano e di attuare una serrata politica personale per ottenere la tiara. In un primo momento si trovò a respingere il tentativo di Carlo Borromeo per far eleggere immediatamente il cardinal Morone e in seguito Amulio Mula. Profittando di una situazione confusa e incerta cercò contatti con i Gonzaga con la promessa, in caso di elezione, d'istituire un solido legame parentale tra le loro famiglie, organizzò un sostegno popolare all'esterno del conclave che sfociò in acclamazioni notturne per le strade di Roma: il 3 e il 4 gennaio ottenne sedici voti e subito dopo fece naufragare la candidatura di G. Sirleto e quella fiorentina di G. Ricci.

Osteggiato da Filippo II, in una atmosfera sempre più tesa dovette abbandonare ogni velleità dopo un decisivo colloquio con Carlo Borromeo, alla cui intimazione "che non s'aggirasse più il cervello in voler essere papa" egli rispose proponendo una rosa di quattro nomi tra cui quello di Michele Ghislieri che risultò di lì a poco effettivamente eletto. Pio V lo tenne immediatamente in gran considerazione e riconoscenza nominandolo in una congregazione per la riforma del clero, in un'altra per gli affari di Germania e in una commissione che curasse la formazione di una lega antiturca (autunno 1566). Lo consultò negli affari di Stato, ma la voce che l'assiduità del F. nel frequentarlo era da attribuirsi alla volontà di prepararsi la via al pontificato guastò repentinamente le relazioni tra i due. Poi mantenne solo una funzione di consigliere sempre più tiepida e inascoltata nelle decisioni politico-militari e all'interno degli affari di Stato affidati all'emergente figura di Michele Bonelli. Divenuto arciprete di S. Pietro, fu impegnato in visite più che altro mecenatesche, a presenziare alcuni sinodi e a curare la sua diocesi di Monreale (1568) per tornare però ben presto a Roma dove, anche ad opinione del papa, la sua presenza si rivelava indispensabile.

Ancora una volta ogni sua pur fondata aspirazione a divenire papa dopo la vacanza seguita al decesso di Pio V venne rapidissimamente frustrata dall'intervento perentorio da un lato di Filippo II, che certo non vedeva in lui il modello postridentino di pontefice fermo e rigoroso, e dall'altro di Cosimo I de' Medici. "Attonito e confuso" dai veti spagnolo e mediceo, nel breve giro di ventiquattro ore, dal 12 al 13 maggio 1572, riuscì almeno a proporre una rosa di quattro candidati al capo dei cardinali di Pio V, Michele Bonelli, all'interno della quale si trovava appunto il futuro Gregorio XIII, Ugo Boncompagni, che in anni lontani era stato suo professore di diritto a Bologna. In seguito riuscì a conservare intatto il suo prestigio grazie alla fiducia che riponeva in lui il segretario di Stato del papa, Tolomeo Galli: di fatto egli si pose a capo di un consistente gruppo di cardinali all'interno del S. Collegio non senza scontrarsi con l'indipendenza e l'autonomia del pontefice. Fece parte della congregazione per gli affari di Germania dal 1573 e seguì l'andamento delle missioni in Polonia, Svezia e Russia. Ascoltato e nello stesso tempo mal sopportato, ebbe con il papa rapporti contradittori che non si manifestarono mai in aperte rotture ma piuttosto in piccoli incidenti, m rifiuti a suppliche o richieste di favori clientelari. Nel 1581 tentò invano, sollecitato dal duca di Mantova, di mitigare i rigori antigiudaici del papa e di consentire il libero esercizio della professione ai medici ebrei. Il 13 dic. 1583 si fece promotore di una protesta garbata ma ferma sulla dichiarazione di lista di porporati proposta da Gregorio XIII senza nessuna previa consultazione del concistoro che risultava privato così di una funzione fondamentale.

Alla morte di Gregorio XIII il 10 apr. 1585 il F. era ancora uno dei più credibili aspiranti all'elezione insieme col suo rivale Ferdinando de' Medici. Entrambi tentarono di conquistare i voti del cardinale Luigi d'Este e dei nipoti degli ultin-ù papi. ottenuta in un primo tempo la promessa dei voti dei cardinali gregoriani da parte di Filippo Boncompagni, divenne quindi più chiaro che una sua candidatura incontrava l'ostilità di molti per pura e semplice invidia, per vecchie ruggini oppure per motivi squisitamente politici che erano indirizzati contro ogni iniziativa di accrescimento del potere della famiglia Farnese. All'apertura del conclave il 21 apr. 1585, nonostante circolassero molte voci in città su una sua elezione, si erano già esaurite tutte le sue speranze: si tirò volontariamente fuori dalla lizza e ostacolò senza successo l'ingresso tardivo del cardinale Andrea d'Austria che sapeva a lui contrario. Tenuto all'oscuro dell'unaniminità che andava costruendosi intomo a Felice Peretti, accettò dignitosamente di perdere l'ultima occasione che gli venne offerta di accedere al soglio pontificio e votò anch'egli per il nuovo papa il 24 dello stesso mese, ricevendone in cambio un voto di cortesia.

Poco calorosi se non freddi furono i suoi rapporti con la fermezza di Sisto V e il F. si trovò ad essere il catalizzatore di molte lamentele contro "il frate tirannico". Si scontrò apertamente con lui per il rifiuto delle sue proposte di creazioni cardinalizie (Carlo Conti nel 1587). Fece parte di una congregazione speciale nel gennaio 1587 per trattare gli affari religiosi e politici di Polonia dopo la morte di Stefano Báthory, divenendo protettore della nazione sino alla morte. Nel gennaio 1588 venne nominato membro della nuova congregazione concistoriale che aveva come compito l'indagine preliminare sull'erezione di nuovi vescovati e sulle assegnazioni di finanziamenti e sui trasferimenti di quelli già esistenti. Egli poteva a giusto titolo essere considerato un esperto per il suo curriculum singolare e vorticoso: infatti, indicando soltanto le cariche e gli onori più importanti, ebbe il titolo diaconale di S. Angelo (1534), quello presbiteriale di S. Lorenzo in Damaso (1536), fu vicecancelliere per tutta la vita, governatore di Spoleto (1534), di Tivoli (1535), di Castelgrotto (1535), di Civita Castellana (1540), di Vetralla (1540), amministratore delle diocesi di Jaen (1535-1537), di Avignone (1535-1551, 1560-1566), di Monreale (1536-1573), di Bitonto (1537-1544), di Ancona (1538, 1585), di Massa Marittima (1538-1547), di Gerusalemme (1539-1550), di Viseu (1547-1552), di Tours 0553-1554), di Caliors (1554-1557), di Spoleto (1555-1562), di Benevento (1556-1558), vicelegato di Avignone (1540-1565) e al Patrimonio di S. Pietro (1565), cardinale-vescovo dal 12 Maggio 1564 con il titolo di Sabina, lo permutò in quello di Frascati (1565), quindi in quello di Porto e Santa Rufina (1578) e infine in quello di Ostia e Velletri (1580).

Anche se alcuni vogliono che il suo legame con la Compagnia di Gesù fosse senza passione e probabilmente funzionale al rafforzamento del proprio potere romano, il F. intrattenne tuttavia con essa una costante frequentazione e mantenne una continua strategia di protezione e di sostegno. Il rapporto con i gesuiti fu da lui iniziato infatti sin dal 1548 quando incaricò Giacomo Lainez di visitare la diocesi di Monreale in sua vece per comporre i continui litigi tra i canonici del duomo e i benedettini e porre rimedio alla tracotanza di religiosi e religiose legati alla nobiltà locale. Quindi assicurò versamenti per il mantenimento del collegio germanico, patrocinò i progetti dei collegi di Avignone (1555) e di Parma (1559) anche contro la volontà del fratello Ottavio, finanziò il seminario romano inaugurato nel gennaio 1565, difese i gesuiti dai ricorrenti attacchi e sospetti. Mentre molto tesi furono i rapporti con l'oratorio di S. Filippo Neri per la ferma volontà del F., titolare di S. Lorenzo in Damaso, di non alienare la Vallicella; e solo un motu proprio di Gregorio XIII e l'intervento di Anna Borromeo lo convinsero nel 1578 a cedere la giurisdizione e in seguito a proteggere tiepidamente la stessa congregazione. Negli ultimi anni della sua vita visse, letteralmente attorniato dai gesuiti, tra Roma e Caprarola "ridotto a un dolce porto di quiete", in un crescente distacco per le occupazioni mondane che si limitarono quasi esclusivamente ad opere di carità e beneficenza.

A tale proposito intensissime e dall'impronta tipicamente principesca furono l'attività caritatevole e l'attenzione per una politica d'immagine tipiche di una mentalità tardorinascimentale. Un elenco infinito e non sempre accertabile di beneficati: 10.000 scudi in periodo di carestia agli orfani, 2.000 al monastero delle convertite, sovvenzioni alla compagnia del Gonfalone per il riscatto degli schiavi cristiani, alla compagnia della Nunziata per dotare le zitelle, fondi per il funzionamento dell'ospedale S. Giacomo degli Incurabili, nella vecchiaia 45.000 scudi annui impegnati in elemosina, l'equivalente circa della capacità contributiva di una città pontificia come Bologna.

Già sofferente da tempo di podagra e di disturbi agli occhi, il 28 febbr. 1589 venne colpito probabilmente da un ictus cerebrale: i medici "vedendo il gran pericolo, vennero a rimedii violenti toccandolo due volte in testa con botton di fuoco". Dopo un effimero recupero morì a Roma il 4 marzo 1589.

Le sue esequie simboleggiarono, le forme di un potere che vedeva nell'assistenzialismo e nelle aderenze curiali le sue maggiori espressioni: portato in corteo funebre con gran pompa per via del Pellegrino tra "botteghe chiuse" e "mura apparate a nero", accompagnato dalla nobiltà a lutto, da un gran numero di ecclesiastici, dai membri delle compagnie e delle confraternite, da orfanelli e zitelle, ricevette un così pressante omaggio alla chiesa del Gesù da "metter la guardia de' Tedeschi alle porte". Lì venne sepolto dopo un'orazione solenne di Pietro Magno sotto l'altare maggiore da lui finanziato in vita. Da una donna rimasta sconosciuta intorno al 1556 ebbe una figlia, Clelia, di leggendaria bellezza e teneramente amata, che fece maritare nel 1570 a Giovan Giorgio Cesarini e in seconde nozze nel 1585 a Marco Pio di Savoia signore di Sassuolo.

Fonti e Bibl.: Nonostante la distruzione e la dispersione di significative porzioni dei documenti famesiani, l'ingentissimo materiale archivistico sul F. e la sua corrispondenza privata e diplomatica si trovano attualmente conservati e relativamente ordinati secondo diversi criteri soprattutto nell'Archivio di Stato di Napoli, Carte Farnesiane (inventario ordinato per luogo geografico d'interesse con indicazioni analitiche e cronologiche): Francia, b. 186 (I); Varie, bb. 252 (I), 252 (II), 254-255, 259, 262, 283, 283 (II); Castro e Ronciglione, bb. 566 (I), 568 (I), 568 (II), 570 (I), 578 (I), 579; Roma, bb. 690 (bis), 692 (bis), 754, 756; Napoli, 1193 (I); Generalità, bb. 1334, 1336 (I), 1336 (II), 1337, 1348 (II); Ord. Costantiniano, bb. 1358 (I), 1358 (II); Cose varie, bb. 1848, 1849; Registri e inventari, bb. 1857, 1867; Bolle e minute, 1875-1878; Effetti Farnesiani Medicei, fasc. 1879, 1882, 1887, 1890, 1899, 1905, 1907-1909, 1916; Miscellanea, b. 2073; nell'Archivio di Stato di Parma, Fondo Corte e Casa Farnesiane (1470-1732), s. 1, b. 1, fasc. 3; s. 2, b. 8, fasc. 3-4; b. 9, fasc. 1-2; s. 5, b. 49, fasc. 3-5; b. 50, fasc. 1-4; s. 12, b. 59: Liber instrumentorum d. Alexandri card. Farnesii (21 ag. 1535 - 28 genn. 1567); Epistolario scelto (inventario analitico in ordine alfabetico sia come mittente sia come destinatario); Carteggio Farnesiano interno (1447-1799) (inventario ordinato cronologicamente); Carteggio Farnesiano e Borbonico estero (inventario ordinato cronologicamente e per luogo di spedizione); nella Biblioteca apostol. Vaticana, ms. Barb. lat- 4856, ff. 265-370: Vita di A. cardinal Farnese... .

Per altre indicazioni generali di carattere bibliografico e archivistico sul F. sono sempre utili: S. Lottici-G. Sitti, Bibliografia generale per la storia parmense, Parma 1904, pp. 19-22, 45; A. Boselli, Il carteggio del card. A. F. conservato nella "Palatina" di Parma, in Arch. stor. della Deput. di storia patria per le antiche prov. parm., XXI (1921), pp. 99-172; G. Drei, L'Archivio di Stato di Parma, Roma 1941, pp. 5, 7, 9 ss., 43, 45, 48; Bibliografia generale delle antiche province parmensi, a cura di Felice da Mareto, II, Parma 1974, pp. 402 s.; M. Parente, I fondi farnesiani dell'Archivio di Stato di Parma, in I Farnese nella storia d'Italia (Archivi per la storia, I, 1-2), Firenze 1988, pp. 53-70; M. A. Martullo Arpago, Le carte farnesiane dell'Archivio di Stato di Napoli, ibid., pp. 71-90.

Oratione del signore Pietro Magno fatta nelle essequie dell'ill.mo et rev.mo card. F. ..., Roma 1589; Raccolta d'orationi... nella morte dell'ill.mo et rev.mo card. A. F. fatta da Francesco Coattini..., Roma 1589; Oratione di Gio. Battista Leoni per l'essequie dell'ill.mo et rev.mo s. card. A. F., Roma 1589; Apparatus exequiarum in funere ill.mi card. A. F. ..., Bononiae 1589; In obitum ill.mi ac rev.mi A. F. ... Herculiani Monicii pres. Parmen. oratio, Parmae 1589; F. Ferretti, Relatione della morte e funerale del card. F., Ancona 1589; A. Caro, Delle lettere scritte a nome del card. A. F., I-III, Padova 1765; Calendar of State papers, Foreign series (1547-1561), I-IV, a cura di W. B. Turnbull - J. Stevenson, London 1863-1865, ad Indices; Calendar... and manuscripts, Venice (1534-1580), a cura di D. Brown - C. Cavendish Bentirick, V-VII, London 1873 -1890, ad Indices; Calendar of letters, despatches... England and Spain (1535-1553), a cura di P. de Gayanos - M. A. S. Hume, IV-XII, London 1886-1916, ad Indices; ... (1554-1558), XIII, ibid. 1954, ad Indicem; Letters and papers. Foreign and domestic (1535-1547), a cura di V. S. Brewer, IX-X, XII-XXI, London 1886-1910, ad Indices; Calendar..., Rome (1558-1578), a cura di J. M. Rigg, I-II, London 1916-1926, ad Indices; Nuntiaturberichte aus Deutschland... Nuntiaturen des Vergerio (1533-36), a cura di W. Friedensburg, Gotha 1892, pp. 57 ss., 324 s., 356, 359, 379 ss.; Nuntiaturen des Morone (1536-38), a cura di W. Friedensburg, Gotha 1892, ad Indicem; Legation Aleanders (1538-1539), Nuntiatur Giovanni Morone's (1539 Iuli-Oktober), a cura di W. Friedensburg, I-II, Gotha 1893, passim; Nuntiatur des Verallo (1545-46), a cura di W. Friedensburg, Gotha 1898, passim; Nuntiatur des Verallo (1546-47), a cura di W. Friedensburg, Gotha 1899, passim; Nuntiaturen des Pietro Bertano und Pietro Camaiani (1550-52), a cura di G. Kupke, Berlin 1901, pp. 8, 22, 30 ss., 44 s., 49 ss., 95, 120 s., 150 ss., 297, 366 ss.; Nuntius Delfino (1562-63), a cura di S. Steinherz, Wien 1903, p. 500; Legation des Kardinals Sfondrato (1547-1548), a cura di W. Friedensburg, Berlin 1907, ad Indicem; Nuntiaturen Morones und Poggios, Legationen Farnese und Cervini (1539-1540), a cura di L. Cardauns, Berlin 1909, passim; Nuntiatur des Bischofs Pietro Bertano von Fano (1548-49), a cura di W. Friedensburg, Berlin 1910, passim; Nuntiaturen Verallos und Poggios. Sendungen Farneses und Sfondratos (1541-44), a cura di L. Cardauns, Berlin 1912, passim; Nuntius Delfino (1564-65), a cura di S. Steinherz, Wien 1214, pp. 59 s., 88, 281, 333, 343, 432; Nuntius Biglia (1565-66 Juni) Commendone als Legat..., a cura di I. P. Dengel, Wien-Leipzig 1926, pp. LXXXIX, 3, 40, 148 ss., 164, 176, 188, 200, 219 s., 256; Nuntius Biglia (1566 Juni-1569 Dezember) …, a cura di I. P. 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Il F. fu, probabilmente, il più importante mecenate delle arti attivo a Roma nei decenni intorno alla metà del sec. XVI. La nomina a vicecancelliere della Chiesa e gli innumerevoli e pingui benefici di cui fu colmato da Paolo III gli arrecarono, di fatto, una ricchezza senza limiti. Ciò gli permise di commissionare ai migliori artisti per un periodo di cinquant'anni un grandissimo numero di opere che andavano dagli edifici ricoperti di affreschi, come villa Farnese a Caprarola e la chiesa del Gesù a Roma, alle miniature e alle gemme preziose.

Fra i mecenati del tempo a Roma nessuno avrebbe potuto competere con lui, con la sola eccezione, forse, del cardinale Ippolito d'Este. Il F. è importante, soprattutto, perché la sua lunga attività copre un periodo contrassegnato da cambiamenti sostanziali nelle forme del mecenatismo e nel gusto legato alla cultura della Controriforma.

Le prime esperienze del F. nel campo dell'arte ebbero luogo grazie alla intensa attività di mecenate di suo nonno Paolo III: infatti quando il papa era troppo impegnato, egli fungeva, spesso, da intermediario tra lui e gli artisti. Il F., fra l'altro, si occupò di trasmettere le istruzioni di Paolo III e ricevere le relazioni di Antonio Sangallo il Giovane e Jacopo Meleghino sulle fortificazioni di Roma e dello Stato della Chiesa. Apprese anche molto nel campo dell'architettura frequentando i membri dell'Accademia della Virtù.1 fondata da Claudio Tolomei, che fra i suoi progetti coltivava l'idea di una nuova edizione di Vitruvio. Fin da giovane egli fu affascinato dalle arti decorative; con passione ed entusiasmo collezionò monete antiche, gioielli, commissionando, inoltre, nuove opere ad artisti come Giorgio Giulio Clovio e Giovanni Bernardi da Castelbolognese, che divennero suoi amici intimi. Verso il 1538 il Clovio si stabilì presso la corte del F. e si dedicò a realizzare miniature per il suo mecenate: fra queste, il famoso Libro d'ore Farnese (New York, Pierpont Morgan Library), eseguito tra il 1538 e il 1546, e il Lezionario Townely, forse del 1550-1560. Il F. commissionò anche numerosi lavori ad orefici e incisori di gemme, spesso in collaborazione con pittdri, quali Perin del Vaga e Francesco De Rossi, detto il Salviati, che avrebbero dovuto occuparsi del disegno. Fra le opere commissionate, la Cassetta Farnese (Napoli, Capodimonte), eseguita tra il 1543 e il 1561, che con la sua cornice, opera di Manno Sbarri e i cristalli di rocca cesellati dal Bernardi, rappresenta uno dei più importanti esempi di oreficeria cinquecentesca. In seguito, il F. si servì dei cristalli incisi dal Bernardi per adornare lo splendido servizio da altare dei valore di circa 18.000 scudi, iniziato dal Manno e terminato da Antonio Gentile, che nel 1582 donò alla basilica di S. Pietro. Il fatto che egli non abbia commissionato opere d'arte monumentali fino alla metà degli anni Quaranta può, con ogni probabilità, trovare una spiegazione nell'ingente costo di simili lavori, unito alle considerevoli somme destinate alla costruzione di palazzo Farnese a Roma. È da notare che in seguito il suo mecenatismo ebbe un indirizzo esclusivamente laico, e i soggetti vennero spesso derivati dalla mitologia o dalla storia classica; in pratica, durante quel decennio i temi religiosi furono oggetto di scarse attenzioni. La prima grande opera da lui commissionata, un ciclo di affreschi, fu affidata a Giorgio Vasari, che dipinse la sala dei Cento giorni nel palazzo della Cancelleria, dove risiedeva, nel 1546.

Gli affreschi, eseguiti in breve tempo (da qui il suo nome) a scapito della qualità, rappresentano un complesso schema allegorico che celebra Paolo III. Il Vasari, che era stato presentato al F. già tre anni prima da Paolo Giovio, aveva dipinto per lui nel 1543 una allegoria della Giustizia (Napoli, Capodimonte). Fu il F., insieme con gli amici Giovio, Annibal Caro, Francesco Maria Molza e Romolo Quirino Amaseo, a suggerire al Vasari l'idea di scrivere le Vite.

Nel 1546, inoltre, egli fece venire Tiziano a Roma per dipingere i ritratti dei suoi familiari; fra questi era compreso il Ritratto di Paolo III con Alessandro eOttavio Farnese (Napoli, Capodimonte), lasciato poi incompiuto per ragioni politiche. Durante la sua permanenza a Roma, Tiziano dipinse una Danae (ibid.), grandemente apprezzata dal cardinale; ed anche dopo il ritorno a Venezia, nella speranza di ottenere un beneficio per il figlio Pomponio, continuò ad inviare dipinti al F., come, ad esempio, La Maddalena pentita (ibid.).

Nel 1548 il F. diede il via a nuove decorazioni nel palazzo della Cancelleria, affidando, su consiglio del Caro e del Clovio, a Francesco Salviati, che aveva già lavorato per suo padre Pierluigi, la decorazione della cappella del Pallio.

Questa era ornata da eleganti stucchi ed affreschi i cui soggetti per un'insolita scelta di temi - la fine dell'idolatria, la conversione, il ritorno all'età dell'oro - comprendevano narrazioni bibliche accanto a scene tratte dalla mitologia classica. Il Salviati fu inoltre incaricato di dipingere per S. Lorenzo in Damaso, la chiesa di cui il F. era titolare, una Madonna con due angeli. A quanto pare, il F. non commissionò altri lavori al Salviati: comunque si adoperò in suo favore, sostenendolo nel tentativo di ottenere il prestigioso incarico di decorare la vaticana Sala regia.

La morte di Paolo III e la successiva assenza da Roma - collegata con la guerra di Parma - del F. interruppero la sua attività di mecenate. Nel 1555, però, egli avviò il suo più ambizioso progetto di carattere profano: villa Farnese a Caprarola era destinata ad essere la residenza estiva preferita, in luogo dei castelli laziali dove aveva in precedenza soggiornato e che si erano rivelati poco adatti come luoghi di villeggiatura. Dal momento in cui la villa fu completata, il F. vi trascorse sempre almeno tre mesi l'anno. Il progetto diede inizio, altresì, ad una fruttuosa collaborazione con Iacopo Barozzi, detto il Vignola, che in seguito sarebbe stato coinvolto in numerose opere. La villa fu edificata sul luogo di una fortezza, iniziata da Antonio Sangallo il Giovane e dal Peruzzi, che contribuì a darle un'insolita forma pentagonale. Il progetto comprendeva un esteso restauro della città di Caprarola, compresa la costruzione di una lunga via d'accesso per offrire ai visitatori una vista adeguata della grandiosità di villa Farnese.

Nel corso dei successivi ventiquattro anni numerosi artisti si susseguirono per realizzare a fresco sofisticate "invenzioni" escogitate, fra gli altri, da Annibal Caro, Fulvio Orsini e Onofrio Panvino. Due stanze, l'arificamera del Concilio e la sala dei Fasti farnesiani, continuavano la glorificazione della famiglia che abbiamo già trovato nella sala dei Cento giorni, con accurate e dettagliate rappresentazioni di importanti avvenimenti della storia dei Farnese. L'opera fu iniziata da Taddeo Zuccari, che impostò lo schema decorativo di base per l'appartamento estivo e per quello invernale e che, prima della morte improvvisa (1566), realizzò gran parte dei dipinti dell'appartamento estivo. Ad ereditare il suo posto fu il fratello più giovane, Federico, il quale lavorò per poco tempo alla cappella e alla sala d'Ercole prima di essere licenziato, nel 1569, in seguito ad un contrasto con il Farnese. A sostituirlo fu chiamato Iacopo Zanguidi detto il Bertoia, cui il F. ordinò di interrompere il lavoro all'oratorio del Gonfalone. Il Bertoia lavorò dentro e fuori la villa fino al suo ritorno a Parma avvenuto nel 1572. I dipinti furono completati da Giovanni De Vecchi coadiuvato da Raffaellino da Reggio e da Antonio Tempesta.

Nel corso degli anni la villa si accrebbe anche di immensi giardini abbelliti da statue antiche restaurate e da elaborate fontane. Furono creati due giardini privati contigui alla villa, collegati con ponti levatoi; in seguito, il F. fece costruire sulla collina un altro giardino adibito ai banchetti e una palazzina che è stata attribuita allo scalpellino Giovanni Antonio Garzoni da Viggiù, il quale fu promosso supervisore del completamento dei lavori della villa alla morte del Vignola (1573). Giacomo Del Duca, che eseguì per il F., tra il 1567 e il 1570, un tabernacolo di bronzo (Napoli, Capodimonte), progettò, probabilmente, anche parte dei giardini superiori.

L'interesse del F. per i giardini risulta evidente anche nella grande impresa che trasformò parte del Palatino negli Orti Farnesiani, progetto che fu affidato al Vignola nel 1567 e continuato, alla sua morte, dal Del Duca. Dal 1555 entrò in possesso anche di villa Madama, lasciatagli da Caterina de' Medici. Nel 1579 con l'acquisto della Farnesina dagli eredi di Agostino Chigi, entrò in possesso di un altro importante giardino. Successivamente pensò di riprendere l'ambizioso progetto di Michelangelo di costruire per Paolo III un ponte sul Tevere, che collegasse la Farnesina con palazzo Farnese; tuttavia il disegno non fu mai realizzato.

Oltre ad aver ricostruito gran parte di Caprarola, il F. fu anche attivo mecenate di altri luoghi del Lazio. Contribuì in larga misura alla ricostruzione della strada principale di Viterbo, città di cui era il protettore, ed al restauro del palazzo della Rocca. Vi fece costruire inoltre un ospedale, una prigione, una grande fontana ed una porta (Porta Faulle), sotto la direzione del Vignola. A Ronciglione fece dono di un'elegante fontana decorata con l'unicorno dei Farnese, disegno di Antonio Gentile.

Dalla metà degli anni '60 il mecenatismo del F. si rivolse decisamente in altra direzione allorché egli intraprese la realizzazione di un ampio programma di costruzioni religiose. Tale cambiamento di indirizzo è con tutta probabilità riconducibile ad una serie di fattori, fra cui la pressione esercitata dalla Controriforma, lo svilupparsi di uno stretto legame con i gesuiti e l'ardente desiderio del F. di essere elevato al soglio pontificio. Evidentemente egli decise che il suo maggiore contributo alla affermazione di una rinnovata spiritualità avrebbe potuto realizzarsi tramite un generoso mecenatismo ecclesiastico. Il Vignola ristrutturò S. Lorenzo in Damaso, e a Taddeo Zuccari, poco tempo prima che morisse, fu commissionata una nuova pala d'altare, la quale sarebbe poi stata completata da Federico nel 1568. Più tardi, nel 1587, nella chiesa fu installato un soffitto in legno intagliato, ove erano rappresentate scene della vita di s. Lorenzo. Nello stesso anno il F. commissionò per la navata affreschi che riproducevano episodi della vita del santo; questi ultimi furono eseguiti da Giovanni De Vecchi, Niccolò Circignani detto il Pomarancio e dal Cavalier d'Arpino, ma andarono distrutti nel sec. XIX, quando la chiesa fu ristrutturata.

Nel corso degli anni Sessanta e Settanta il F. fece restaurare e decorare un gruppo di edifici di fondazioni religiose che si trovavano sotto la sua giurisdizione: fra queste anche la cattedrale di Monreale, dove i restauri iniziarono nel 1561; lo stesso fece per l'abbazia di Grottaferrata dove nel 1567 fece ingrandire il palazzo dell'abate e costruire una nuova loggia. Nel 1577 ordinò inoltre il restauro della chiesa dell'abbazia, realizzato forse da Giacomo Della Porta, e vi collocò un nuovo soffitto in legno. Nello stesso periodo affidò a Giacomo Della Porta lavori per l'abbazia di Farfa, ove commissionò una nuova fontana. Più tardi, nel 1586, fece anche affrescare dagli allievi dello Zuccari la navata dell'abbazia con figure di alcune personalità di rilievo dell'Ordine benedettino.

Oltre a restaurare edifici di fondazioni religiose già esistenti il F. fece costruire un certo numero di nuove chiese e di oratori. Il primo fra questi fu l'oratorio del Ss. Crocifisso di S. Marcello, di cui il F. ereditò il patronato dal fratello Ranuccio nel 1565. In particolare egli aiutò la confraternita ad acquistare il terreno antistante l'oratorio per farne una piazza, e fece completare la facciata, sulla quale un'iscrizione in bella evidenza ricorda la sua munificenza. Concesse anche aiuti in denaro per la costruzione di un soffitto, ma rifiutò le reiterate richieste della confraternita per il finanziamento delle restanti decorazioni interne. Anche l'oratorio del Gonfalone godette del contributo del F., soprattutto per il soffitto in legno scolpito.

Ma la più importante opera religiosa realizzata dal F. fu la costruzione di una nuova chiesa per i gesuiti: la chiesa del Gesù, che doveva diventare la chiesa modello della Controriforma. La costruzione ebbe inizio nel 1568, ma egli cominciò ad occuparsi del progetto a partire dal 1561. Tra il F., il suo architetto Vignola ed i gesuiti intercorsero minuziose trattative, che possono illuminarci sulle caratteristiche di mecenate del Farnese. Egli fece capire chiaramente che quella del Gesù avrebbe dovuto essere la sua chiesa e che il progetto doveva essere realizzato secondo i suoi desideri. L'opinione del cardinale prevalse perciò quanto all'orientamento della chiesa, la costruzione di una piazza antistante e la forma della volta, respingendo le argomentazioni dei gesuiti circa l'acustica della chiesa. Probabilmente seguì almeno in parte i consigli del Vignola ma si rivelò mecenate intelligente e bene informato nel campo dell'architettura. Un'ulteriore prova di ciò sta nel fatto che in un primo momento accettò di prendere in considerazione per il Gesù uno schema a pianta ovale (si trattava di una forma innovativa sperimentata a quel tempo dal Vignola). Ma non sempre il F. fu d'accordo con le idee del suo architetto: il Vignola, che pure lo aveva sempre soddisfatto nei numerosi incarichi precedenti, quando nel 1570 si trattò di disegnare la facciata, non riuscì a realizzare un progetto che soddisfacesse appieno il cardinale benché questi gli concedesse più prove. Non sono note le ragioni di questo rifiuto. L'incarico fu poi affidato a Giacomo Della Porta che, alla morte del Vignola, divenne l'architetto capo del Farnese.

Il F. commissionò anche i dipinti che decorano gli interni di maggior prestigio. Nel 1583 Giovanni De Vecchi incominciò a dipingere il lucernario della cupola e i pennacchi, raffigurando i quattro Padri della Chiesa, mentre Andrea Lilio decorava il tamburo con gli Evangelisti. Questi dipinti vennero distrutti nel sec. XVII per far posto agli affreschi del Baciccia. Il F. incaricò poi Girolamo Muziano, che inprecedenza egli aveva cercato di convincere a lavorare a Caprarola, di realizzare la pala per l'altare maggiore, con la Circoncisone, installata e consacrata nel 1589, poco dopo la morte del Farnese. Quando morì, egli stava progettando di far ricoprire l'abside di mosaici, un tipo di decorazione che sarebbe poi diventato di gran moda, e forse di far affrescare la volta della chiesa: ma i suoi eredi rifiutarono diportare a termine questi progetti.

Il suo ultimo progetto di carattere religioso fu la costruzione della nuova chiesa di S. Maria Scala Coeli, presso l'abbazia delle Tre Fontane, che fu progettata da Giacomo Della Porta tra il 1582 e il 1584. Anche questa volta il F. aveva intenzione di decorare l'interno con mosaici disegnati da Giovanni De Vecchi: ma uno solo poté essere completato, dopo la morte del F., il cui ritratto fu inserito fra quelli dei santi.

Circa il 1574 il F. decise di completare la parte posteriore di palazzo Farnese. Questo progetto era stato abbandonato e il palazzo, scarsamente abitato dopo la morte di suo fratello Ranuccio, non era un questione prioritaria per il F., il quale poteva far uso del vicino palazzo della Cancelleria. Egli consultò dapprima Guglielmo Della Porta, il quale criticava molto il progetto pubblicato da Michelangelo con una stampa del 1560. Ma le proposte avanzate dallo stesso Guglielmo furono respinte, e gli furono preferiti i progetti di Giacomo Della Porta, che nel 1589 riuscì finalmente a portare a termine quell'ala sul giardino.

Durante la vita del F., il palazzo era poco più che un museo nel quale si raccoglievano, grazie alle cure di Fulvio Orsini, il bibliotecario dei Farnese, le collezioni di famiglia. Sebbene qualche volta l'Orsini gli consigliasse l'acquisto di dipinti, il cardinale sembrò provare minore interesse nel collezionare dipinti su tela che nel commissionare affreschi. Ci sono però alcune eccezioni: nel 1565, comprò, per una somma considerevole, la Madonna del Divino Amore di Gianfrancesco Penni, che a quell'epoca si riteneva di Raffaello. Acquistò due modeste tele di El Greco, raccomandategli dal Clovio: Cristo che guarisce il cieco (Parma, Galleria nazionale) e il Ragazzo che soffia sulla candela (Napoli, Capodimonte). Purtuttavia il F. non mostrò mai un grande entusiasmo per il giovane artista cretese, forse proprio per la scarsa predisposizione di questo a lavorare agli affreschi.

Il F. collezionò anche un certo numero di ritratti. Oltre a quello eseguito dal Tiziano, egli fece eseguire almeno altri tre suoi ritratti: uno, ancora esistente, che lo raffigurava in età giovanile, opera di Innocenzo da Imola (in passato a Monaco, collezione Boehler), un altro realizzato nel 1579 da Scipione Pulzone (Roma, Galleria Barberini) e un altro ancora opera di Muziano (tibicazione attuale sconosciuta). Acquistò, inoltre, alcuni ritratti della famiglia reale spagnola, che gli furono inviati da Alonso Sachez Coello.

Il F. non fu un mecenate di rilievo per quel che riguarda la scultura, benché si fosse molto impegnato, dalla morte del papa fino al 1574, nelle trattative per ottenere che la tomba di Paolo III, realizzata da Guglielmo Della Porta, fosse collocata in S. Pietro. Il motivo principale di questo scarso interesse è da ricercarsi nel suo desiderio di accrescere la già consistente collezione di antichità della famiglia che egli arricchì con pezzi come la Forma Urbis, L'Atlante Farnese, un Apollo e un Cupido (tutti a Napoli, Museo nazionale) dalla collezione Del Bufalo. Da Margherita d'Austria ebbe in eredità varie statue, tra cui un gruppo con Bacco e Cupido, una Venere accovacciata, e Armodio e Aristogitone (tutti al Museo nazionale di Napoli). Si avvalse, d'altro canto, con una certa continuità di numerosi scultori, ma soprattutto per restaurare opere antiche e solo di rado per realizzarne di nuove. Fra gli artisti che lavorarono per il F. si ricordano Giovanni Battista Bianchi e Giovanni Franzese, il quale fu probabilmente incaricato di realizzare la grande tavola di marmo progettata dal Vignola (New York, Metropolitan Museum). Commissionò poi a Tommaso Della Porta, nel 1562, dodici sculture "all'antica" di busti di imperatori romani. Alcune delle opere antiche furono regolarmente sistemate a palazzo Farnese, come, ad esempio, i busti degli Imperatori e le due statue di Venere, che vennero collocati in una stanza conosciuta come sala degli Imperatori. Parecchie opere furono invece lasciate in deposito, compreso il Toro Farnese, per quanto il F. avesse, in un primo momento, pensato di realizzare il progetto michelangiolesco di trasformarlo in una fontana per il giardino del palazzo.

Nel corso della sua attività di mecenate il F. si basò essenzialmente sui suggerimenti di alcuni consiglieri, fra cui Paolo Giovio, Annibal Caro e Fulvio Orsini. Anche Onofrio Panvinio offri qualche volta i propri consigli, ma si occupava soprattutto di studi di antiquariato finanziati dal cardinale. Il F. diede ai consiglieri un alto grado di autonomia nell'affidamento delle cominissioni: erano tutti esperti d'arte ed anche amici di molti artisti. Spesso, erano in grado di segnalare dei pittori e qualche volta anche sceglierli per nuove committenze. Sovraintendevano giornalmente allo svolgersi dei lavori, riferendo poi al F. i loro progressi ed erano quasi sempre responsabili Aell'ideazione delle complesse iconografle dei cicli d'affreschi. Sembra che il F. sia intervenuto solo di rado alla programmazione dei dipinti da lui commissionati e questo fa pensare da parte sua ad una certa indifferenza per la pittura. Questa parrebbe confermata da un'osservazione attribuita a Michelangelo riferita nei Dialoghi di Francisco de Holanda, secondo la quale il F. sapeva ben poco di pittura, ma è difficile attestare la veridicità della fonte. Ci sarebbe inoltre da aggiungere che la varietà di stili riscontrabile nei pittori che lavoravano per il F. indica che egli non intendeva patrocinare un particolare "stile farnesiano" di pittura.

Questo è in totale contrasto, invece, con l'attenzione mostrata per le opere di architettura, delle quali sembra fosse straordinariamente ben informato e costante nelle sue preferenze. Infatti, il Vignola nel 1562 dedicò al Farnese le sue Regole delli cinque ordini di architettura lodando il suo discernimento come mecenate. Il F., per l'attuazione dei progetti più importanti, si rivolse sempre ad un secondo architetto e dalle sue lettere emerge che era lui stesso ad esaminare con attenzione le loro proposte, suggerendo anche dei consigli.

Le commissioni artistiche del F. si distinguono soprattutto per la grandiosità e la magnificenza, ciò lo rende meritevole del titolo con il quale è generalmente conosciuto "il gran cardinale".

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