ALESSANDRO I Pavlovič, zar di Russia

Enciclopedia Italiana (1929)

ALESSANDRO I Pavlovic, zar di Russia

Francesco Lemmi

ALESSANDRO I Pavlovič, zar di Russia - Nato il 23 dicembre 1777 dal granduca Paolo Petrovič (poi Paolo I) e dalla granduchessa Maria Feodorovna (già Dorotea di Württemberg), salì al trono di Russia il 24 marzo 1801, e fu incoronato imperatore a Mosca il 27 settembre del medesimo anno. Sin dal 1793, s'era unito in matrimonio con Elisabetta (prima Maria Luisa) di Baden. L'accusa, contro di lui ripetuta allora e in seguito, di complicità o almeno di consapevolezza nell'assassinio di Paolo I non è abbastanza provata. I suoi primi atti furono volti a riparare le ingiurie e le offese che avevano accumulato contro suo padre tanto fieri rancori. Semplice e modesto con tutti, aveva nel portamento e nelle parole una grazia incantevole, qualcosa di dolce e di buono che seduceva e trascinava. "Un ange", lo disse Elisabetta, dopo quasi trent'anni di vita coniugale: "âme d'élite méconnue", lo giudicava, dopo una lunga intimità, Giuseppe De Maistre. Ma, nel 1809, un altro suo amico, il principe Adamo Czartoryski, avvertiva in lui, pur riconoscendogli un'anima grande, "quelque chose de petit et de bas"; e nel 1809 Napoleone, che gli era ancora alleato, notava, "à côté de ses grandes qualités intellectuelles et de cet art de captiver ceux qui l'entourent", qualche cosa di stonato e d'indefinibile. "C'est un je ne sais quoi" - così riferisce il Metternich - "que je ne pourrais mieux expliquer qu'en vous disant qu'en tout il lui manque toujours quelque chose; et ce qu'il y a de plus singulier c'est qu'on ne peut iamais prévoir ce qui lui manquera dans un cas donné ou dans une circonstance particulière, car ce qui lui manque varie à l'infini". Uomo di sentimento, capace d'improvvisi distacchi e d'impensati ritorni, facile a subire i più diversi influssi, ora sincero ed aperto come un fanciullo, ora invece sospettoso e astuto come un diplomatico consumato, parve, nel 1817, al rappresentante della Svezia a Parigi "fin, en politique, comme la pointe d'une épingle, aigu comme la lame d'un rasoir et faux comme l'écume de mer"; e Napoleone, allorché gli divenne nemico, lo definì col noto irato motto, che il Gervinus dice profondamente vero: "un Grec du Bas Empire". Ma forse colsero meglio nel segno lo Chateaubriand, che, nel 1822, avendolo conosciuto a Verona, lo giudicò "une âme forte et un caractère faible" e il duca di Serracapriola, ambasciatore napoletano a Pietroburgo, il quale, nel 1815, a Vienna, aveva detto: "Il n'a pas de caractère, mais une imagination extrêmement ardente". Luci ed ombre, incongruenze e contraddizioni d'una grande figura! Una cosa fu ben ferma in lui: l'ambizione di rappresentare una parte gloriosa nel mondo, l'orgoglio patriottico di far della Russia, come fu infatti per un cinquantennio, l'elemento preponderante della vita politica dell'Europa.

Sua nonna, Caterina II, aveva tracciato essa stessa il piano della sua educazione, e il colonnello svizzero Federico Cesare La Harpe, suo precettore per oltre dieci anni, aveva dischiuso il suo cuore generoso alle correnti umanitarie del sec. XVIII, a quelle idee di libertà e di fratellanza che, pur confuse con gl'istinti dispotici della tradizione russa, rimasero poi sempre nel fondo della sua coscienza e dettero colore e calore alla sua politica all'interno e all'esterno. Non per nulla, nel 1817, il Metternich notava in lui "une tendance constamment révolutionnaire"; e nel 1825, l'anno della sua morte, si vantava egli stesso d'essere stato sempre e di voler morire repubblicano! Il suo regno potrebbe dividersi in tre periodi caratterizzati dai nomi di coloro che furono successivamente i suoi più ascoltati consiglieri: Czartoryski, Speranski, Arakčeev.

Il principe Adamo Czartoryski era un giovane polacco, di vivido e nobile ingegno, caldo ammiratore degl'istituti politici inglesi. Con lui, col principe Vittorio Kočubej, col conte Paolo Strogonov e con Nicola Novosilcev, il nuovo sovrano costituì una specie di Consiglio segreto o "Comitato di salute pubblica", come egli stesso diceva, per allontanare il pericolo di un ritorno alla capricciosa tirannide di Paolo I. Trattavasi di dare all'Impero un sistema di leggi organiche che garantissero, insieme, il potere assoluto dello zar e la libertà dei cittadini; ma, sebbene nel comitato abbondassero le audaci affermazioni teoriche ispirate all'ideologia del Contrat social, poco o nulla praticamente si fece. In un paese semibarbaro in gran parte, com'era la Russia, mancava la spinta non solo alle avventurose esperienze democratiche, ma anche ad un qualsiasi tentativo di modeste riforme. Tutto dipendeva dal volere del Principe, e questi era in grado di frenare gli slanci del sentimento e della fantasia davanti alla cruda realtà delle cose. Comunque, il tribunale segreto venne abolito, fu addolcita la legislazione criminale e moderata la censura (1801); il Senato ebhe il diritto di rimostranza (1801); sorse, accanto al Comitato segreto, un Consiglio permanente; i Consigli, che dai tempi di Pietro I amministravano il vastissimo impero, lasciarono il posto, secondo l'uso occidentale, ad otto ministri, di cui uno - cosa abbastanza notevole - per la pubblica istruzione (1802). Contemporaneamente, si ripresero gli studî, già iniziati da Caterina II, per un unico codice; i contadini e i mercanti poterono acquistare la proprietà della terra; una certa libertà di movimento fu permessa ai commerci e alle industrie; le condizioni della servitù furono regolate e migliorate con provvidenze legislative precorritrici della grande riforma di Alessandro II; e qualche cosa fu fatto anche a favore degli ebrei (1803-1804). Particolari cure ebbe inoltre la pubblica istruzione. Esistevano nell'impero tre università: quella di Mosca, fondata dalla zarina Elisabetta, quella polacca di Vilna e quella tedesca di Dorpat (oggi Tartu). Due altre furono istituite a Kazan e Charkov, insieme con scuole pedagogiche, per la preparazione degl'insegnanti, a Mosca e a Pietroburgo. Università, accademie, biblioteche, musei avrebbero dovuto essere, nelle intenzioni di Caterina II, focolari di cultura capaci d'illuminare il paese all'intorno senza incendiarlo. A. desiderò anche ginnasî nei capoluoghi dei governi e scuole inferiori nei distretti e nelle parrocchie; ma gli studî che all'uopo furono fatti non poterono poi avere piena attuazione. Così successe del resto anche in altri campi. Molti buoni propositi non riuscirono mai a trasformarsi in leggi; onde il potere dello zar rimase assoluto e personale come per il passato, e non poche leggi, soprattutto quelle di carattere sociale, furono applicate soltanto saltuariamente, quando non restarono lettera morta di fronte alla resistenza degl'interessati a deluderle.

Paolo I aveva tentato di difendere contro gl'Inglesi, imitando Caterina II, la libertà dei mari. Il suo successore denunziò subito la lega dei neutri e fece pace con l'Inghilterra (1801). Poco dopo, si accordò anche con la Francia, tradendo le speranze che Carlo Emanuele IV aveva sino allora nutrite di far ritorno a Torino con l'appoggio diplomatico della Russia. Nel 1802, a Memel, s'incontrò con Federico Guglielmo III e contrasse con lui un'amicizia personale, più forte dei calcoli e delle astuzie della politica, che non si disciolse mai più. Dopo l'assassinio del duca di Enghien, ruppe, indignato, tutti i rapporti col Primo Console e si gettò anima e corpo nella terza coalizione. Appartengono a questo tempo i disegni di riorganizzazione europea elaborati per incarico dello Czartoryski dal fiorentino abate Scipione Piattoli, antico segretario dell'ultimo re di Polonia. Ad assicurare al mondo la pace nella giustizia, il Piattoli, che aveva probabilmente qualche dimestichezza con le società massoniche, proponeva tra le altre cose la formazione di un grande stato sabaudo con la Savoia, Nizza, Piemonte, Lombardia e Liguria; ma nel trattato di alleanza che, nell'aprile del 1805, la Russia conchiuse con l'Inghilterra, fu stabilito soltanto, a questo riguardo, che il re di Sardegna dovesse riavere tutti i suoi stati "con un aumento di territorio tanto grande quanto lo permettessero le circostanze". Del resto, la battaglia di Austerlitz disperse per allora le fantasie umanitarie dell'abate fiorentino, e deluse insieme le legittime aspirazioni di Vittorio Emanuele I. Perduta l'Austria, lo zar trascinò nella guerra la Prussia, ma, dopo Eylau e Friedland, dovette venire egli stesso a patti con Napoleone. A Tilsitt, A. subì il fascino misterioso del Còrso dagli occhi d'aquila: un'alleanza fu quindi stretta tra i due sovrani, e Francia e Russia si divisero il mondo (1807). Lo zar dovette però ahbandonare il Mediterraneo: Corfù e Cattaro, possessi russi rispettivamente dal 1799 e dal 1806, vennero in potere di Napoleone.

Dopo Tilsitt, la Russia si riaprì all'influsso delle idee francesi. È il periodo di Michele Michailovič Speranski. Questo celebre ministro ebbe, egli pure, l'ambizione di conciliare nella Russia l'assolutismo con la libertà. Nei suoi disegni si scorge facilmente l'uomo educato dalla pratica del misticismo al gusto delle speculazioni astratte. Ma egli non poté svolgere un piano organico di riforme; e ciò che compì, ispirandosi agli ordinamenti politici del Consolato e col precipuo scopo di stabilire il principio della responsabilità ministeriale, risultò, per forza di cose, frammentario e caduco. Nel 1815, il Serracapriola affermava ancora che i cosiddetti ministri dello zar non erano che semplici segretarî! Lo Speranski, combattuto dai vecchi russi, che in lui odiavano insieme il liberalismo e l'alleanza napoleonica, cadde in disgrazia alla vigilia della grande guerra: il 29 marzo 1812 venne arrestato e condotto prima a Nižnij Novgorod, poi a Perm. L'esilio del "Turgot russo" durò sino al 1816.

Il convegno di Erfurt (1808) aveva permesso alla Russia di occupare la Finlandia (1809) e d'invadere la Turchia; ma la pace di Schönbrunn (1809) compromise gravemente i buoni rapporti con la Francia. Il granducato di Varsavia minacciava l'impero nelle sue provincie polacche; la scelta del maresciallo Bernadotte, come futuro successore di Carlo XIII sul trono di Svezia, dava a Napoleone, già signore delle città anseatiche, la supremazia sul Baltico. Soprattutto poi offendevano la Russia i non dissimulati disegni napoleonici sull'Oriente balcanico che lo zar voleva riservato alle sue ambizioni. Il dissidio si fece acuto quando A. incominciò a riaprire la frontiera dei suoi stati alle merci britanniche e, per mettere un freno all'emigrazione dell'oro, decretò un'altissima tariffa doganale sui vini e sui generi di lusso, che venivano importati esclusivamente o quasi dalla Francia (1810). Napoleone, dal canto suo, aggravò la contesa spogliando del granducato di Oldemburgo un cognato dello stesso zar e occupando la Pomerania svedese col pretesto che Carlo XIII non osservava il blocco continentale (gennaio 1812). Allora la guerra fu decisa (aprile 1812). "Piuttosto", egli disse, "che accettare per la mia patria la sorte della Prussia e dell'Austria, sono pronto a combattere per dieci anni e a ritirarmi, se occorre, in Siberia". L'orgoglio offeso della grande Russia gli permise quindi di spiegare nella lotta un coraggio, una tenacia, un'energia e, insieme, un'altezza d'animo che fecero la meraviglia dell'Europa. Il 31 marzo 1814, la "guerra patriottica", ch'era incominciata con l'incendio di Mosca, ebbe termine nella metropoli dell'avversario vinto. "Da quanto tempo vi aspettavamo!" gli gridò quel giorno una voce tra la folla acclamante. "Non mi hanno permesso d'arrivar prima", rispose pronto, "i vostri bravi soldati". Cavalleresco e generoso, difese Parigi dal furore dei Prussiani, volle da Luigi XVIII la dichiarazione di Saint-Ouen, e, l'anno seguente, dopo Waterloo, si oppose allo smembramento della Francia, ch'era meditato dalla Prussia e dall'Austria. Quando, compiuta una breve visita a Londra, dove fu salutato liberatore dell'Europa, fece ritorno a Pietroburgo, rifiutò gli apprestatigli onori, affermando che Dio solo aveva operato le grandi cose di quei due ultimi anni: "Umiliamoci tutti davanti alla sua Provvidenza". Già preso ormai nel giro delle correnti mistiche che furono uno dei segni caratteristici dell'anima russa al principio del sec. XIX, vedeva, commosso, nella portentosa vittoria l'azione diretta di Colui che atterra e suscita, valendosi delle deboli forze degli uomini pei suoi imperscrutabili fini. Ma gli onori negati a sé stesso permise che fossero resi, qualche giorno più tardi, alla sua guardia che giungeva da Cherbourg; ed anzi volle recarsi egli pure alle porte della città a fare omaggio ai trionfatori. Così il popolo, ch'era insorto in massa nel momento tragico dell'invasione straniera, acquistava la coscienza della propria forza: esso solo, dopo Dio, era il liberatore della Russia, e il riconoscimento solenne che di ciò faceva lo zar era un germe non invano gettato nello spirito della nazione.

Il congresso di Vienna fu la consacrazione della gloria di A.; ma non tutto poté ciò che volle. Per sé ebbe Varsavia e, fedele alla sua antica amicizia per Adamo Czartoryski, promise di fare, come fece, delle terre polacche della Russia un regno costituzionale autonomo di Polonia. A Federico Guglielmo e a Vittorio Emanuele non poté dare quanto avrebbe voluto, ma riuscì tuttavia a ingrandirne i dominî. Desiderò anche che fosse premiata la lealtà di Eugenio Beauharnais, di cui aveva onorato la madre durante il suo soggiorno a Parigi; ma i suoi sforzi per costituire all'antico viceré d'Italia uno stato qualsiasi non ebbero fortuna. Dopo Waterloo, ricomparve in Francia e. persuaso più che mai d'essere investito della divina missione di affratellare gli uomini nella pace e nella giustizia, indusse Francesco I e Federico Guglielmo III a sottoscrivere con lui, il 26 settembre 1815, la celebre dichiarazione che va sotto il nome di Santa Alleanza (v.). Nel dicembre, tornò in Russia abbandonando l'Europa alla custodia del Metternich. Tutto chiuso nel suo misticismo, non rinnegava in sé gli slanci di libertà che lo avevano commosso nella giovinezza, ma li temeva negli altri, nei suoi compagni di gloria che erano tornati dall'Occidente col cuore pieno di confusi desiderî, nei popoli che dall'una all'altra parte dell'Europa avevano accompagnato con grida di gioia la marcia degli eserciti liberatori e si ritenevano ora più o meno traditi nelle loro speranze. Per qualche tempo, i suoi rappresentanti all'estero, specialmente in Italia, parvero appoggiare i malcontenti della restaurazione, e anzi egli stesso, ad Aquisgrana (1818), dove ottenne che i suoi alleati sgombrassero il territorio francese, incoraggiò Luigi XVIII ad una politica liberale. Ma a Carlsbad, a Troppau, a Lubiana e a Verona, colpito profondamente dall'assassinio del Kotzebue (1819) e del duca di Berry (1820), approvò le misure repressive, proposte dal Metternich, contro i moti rivoluzionarî della Germania, dell'Italia e della Spagna. Neppure i Greci, nonostante la comunanza di religione e le simpatie del popolo russo, trovarono grazia; onde Alessandro Ipsilanti gli ricordò invano le confidenze d'altri tempi e dovette espiare nel carcere la colpa d'essersi ribellato al dominio dei Turchi.

Il medesimo spirito animò la politica interna in quest'ultimo periodo che è caratterizzato dalla personalità di Alessio Arakčeev. Nel passato, la Russia aveva rivolto la sua ammirazione ora alla Germania, ora all'Inghilterra, ora alla Francia: la guerra dischiuse gli animi, specialmente delle classi elevate, a un nazionalismo geloso che fece venire di moda tutto quanto avesse puro carattere russo. I Gesuiti, dopo il ristabilimento ufficiale della Compagnia (1814), vennero espulsi prima da Pietroburgo (1816), dove avevano un collegio frequentato per l'innanzi anche dalla gioventù ortodossa, poi da tutto l'impero (1820). Nel 1817, Giuseppe de Maistrei che non senza fortuna andava facendo opera di proselitismo cattolico nei salotti aristocratici della metropoli (fecero molto rumore le conversioni della signora Svecin e della giovane principessa Elisabetta Golicin), venne richiamato in patria per espresso desiderio dello zar, il quale per molti anni lo aveva avuto carissimo, ed anzi nel 1812 lo aveva fatto suo segretario, ma ora lo accusava anche di "parzialità e di accanimento contro le idee liberali del secolo". Liberale, purché, com'è stato detto, tutti liberamente facessero il suo volere, difendeva così la chiesa ortodossa, coscienza della nazione e strumento di regno all'interno e all'esterno. Nel 1822, tutte le società segrete "di qualsiasi nome" vennero disciolte. Mentre l'Arakčeev restaurava le finanze e, a diminuire le spese per l'esercito, costituiva le colonie militari (1818), il ministro della pubblica istruzione, Alessandro Golicin (Galitsine), sottoponeva scuole e maestri alla più rigorosa sorveglianza ed esercitava sui giornali e sui libri la più spietata censura. Non tardarono a giungere, specialmente dalla Polonia, vaghe voci di meditate rivolte. Il Golicin fu licenziato (1824). A., sempre in preda alle sue chimere, ripeteva che tutti erano ingrati verso di lui, principi e popoli. Il ricordo della oscura tragedia del 1801, quand'era stato ucciso suo padre, veniva a turbarlo continuamente. Nel 1819 aveva perduto la sua cara sorella, Caterina di Württemberg; tre figli, avuti da un'unione illegittima, gli morirono l'un dopo l'altro. Nel novembre del 1824 uno straripamento della Neva, che costò la vita a centinaia e centinaia di persone, venne ad accrescere la sua melanconia. Fu detto ch'egli pensasse allora di cercare nel culto cattolico quella pace dello spirito che aveva invano domandata al misticismo e che non era in grado di dargli la chiesa ortodossa. Un suo aiutante di campo, il generale savoiardo Michaud, avrebbe iniziato nel 1825 in proposito, per suo incarico, qualche trattativa con Leone XII. Ma è difficile credere ch'egli abbia mai voluto ridurre i suoi popoli sotto il dominio spirituale di Roma. Nel 1816 aveva detto al De Maistre, facendo con la mano un largo gesto, quasi avesse voluto tracciare le linee del tempio della chiesa universale: "Havvi nel cristianesimo qualche cosa ben più grande delle nostre differenti comunioni, ed è la sua dottrina sostanziale. Noi dobbiamo incominciare a combattere l'incredulità, la quale è il vero male di cui è mestieri prendersi cura. Se otteniamo che il Vangelo sia praticato da tutti, avremo fatto un gran passo. Io credo, anzi son certo, che un giorno tutte le differenti comunioni si uniranno: dobbiamo preparare, effettuare questo momento che non è ancora giunto". Un anno più tardi, al luterano svedese Witberg, frammassone e mistico, che gli manifestava il desiderio di farsi ortodosso, rispose che la cosa gli era indifferente, poiché "tutte le Chiese sono buone in quanto racchiudono la religione cristiana". Era dunque la medesima idea della Santa Alleanza. Certo, non si può escludere che, nel giro di otto anni, egli avesse potuto cambiare; ma, comunque, il segreto di quest'ultima evoluzione del suo spirito scese con lui nella tomba. Morì il 1° dicembre del 1825 a Taganrog, dopo un rapido viaggio attraverso la Crimea, dove aveva accompagnato l'imperatrice inferma; ed alcuni dissero ch'era stato ucciso, altri che si era ridotto a vivere ignoto a tutti in Siberia... Quell'ombra di mistero di cui aveva amato circondarsi in vita lo accompagnava anche nell'al di là! Personalità eminente in complesso e, per le sue intime contraddizioni, interessantissima, diede alla Russia un prestigio politico che fece sentire a lungo, in vario modo, i suoi effetti in Europa: non vi è poi alcun dubbio che al suo tempo vanno ricondotte le origini prime della rivoluzione del 1917, profonda crisi di sviluppo di un popolo, mezzo asiatico e mezzo europeo, nel quale, oltre un secolo fa, Giuseppe de Maistre avvertiva "elementi di forza e di grandezza" che attendevano soltanto ordine e disciplina per affermarsi vittoriosamente nel mondo. Qui giova ricordare ancora che, per volger di eventi, Alessandro I non smentì mai la sua simpatia per la casa di Savoia, e che molti Italiani avversi alla dominazione napoleonica ebbero da lui generosa ospitalità: tra gli altri, il conte Galateri di Genola e il marchese Paolucci che, insieme con Saverio e Rodolfo de Maistre, servirono nell'esercito russo e vi ottennero gradi ed onori.

Bibl.: (v. anche sotto la voce alleanza, santa) Granduca N. Mikhaïlovitch, L'empereur Alexandre I, Pietroburgo 1912, voll. 2; A. N. Pypine, Saggi storici. Il movimento della società in Russia sotto Alessandro I, 3ª ed. (in russo), Pietroburgo 1900; P. Pierling, Problème d'histoire. L'empereur Alexandre I est-il mort catholique?, 2ª ed., Parigi 1913; K. Waliszewski, La Russie il y a cent ans. Le règne d'Alexandre I, Parigi 1923-1925, voll. 3; A. Boudou, Le Saint-Siège et la Russie. Leurs relations diplomatiques au XIX siècle, Parigi 1922, I; M.-J. Ruet de Journel, La compagnie de Jésus en Russie. Un collège de Jésuites à Saint-Petersbourg, Parigi 1922; I. Rinieri, La conversione al cattolicesimo dello zar Alessandro I secondo documenti inediti, in Civiltà cattolica, I (1913), pp. 31-40; A. D'Ancona, Chi è l'abate Mario in "Guerra e Pace" del Tolstoi?, in Scritti vari di erudizione e di critica in onore di R. Renier, Torino 1912, p. 1011; B. Croce, Il Duca di Serracapriola e Giuseppe De Maistre, in Uomini e cose della vecchia Italia, s. 2ª, Bari 1927, p. 193.

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