Alessandro Manzoni

Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco (2014)

Giuseppina Brunetti
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Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook

Il costante e inflessibile corpo a corpo di Alessandro Manzoni con le difficoltà legate all’uso ancora impervio della lingua italiana avviene lungo l’intero e decisivo secolo che dai primi moti risorgimentali porterà all’unità politica dell’Italia. Così I promessi sposi, romanzo-capolavoro di tutta una vita, rappresenterà il disegno "provvidenziale" delle vicende storiche di un popolo in certo senso evocato e insieme un altissimo risultato etico e civile, oltre che artistico, atto a fornire a tale popolo – quale potente strumento di emancipazione – un linguaggio comune e condiviso, finalmente emancipato dal peso della tradizione letteraria.

La formazione e le prime prove poetiche

Nato a Milano il 7 marzo 1785 da Giulia Beccaria e ufficialmente dal conte Pietro Manzoni (in realtà, come documenti recentemente ritrovati provano con certezza, da Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e di Alessandro), Alessandro viene cresciuto nel collegio dei padri somaschi prima a Merate e quindi a Lugano, per passare poi al collegio Longone dei Barnabiti a Milano. Fin da subito si manifestano le sue eccezionali attitudini letterarie così come la sua insofferenza per i privilegi aristocratici e per l’angusta educazione cattolica cui viene sottoposto. A sedici anni, uscito dal collegio, avrà modo di frequentare la società culturale milanese e di conoscere gli intellettuali napoletani esuli a Milano dopo i moti del ‘99, Vincenzo Cuoco e Francesco Lomonaco, ai quali deve il nascere del suo interesse per la storia e per i problemi dell’identità e dell’unità nazionale italiane. Compone così, dopo alcuni esperimenti di poesie e di traduzioni da Virgilio e da Orazio, andati quasi tutti dispersi, il poemetto in quattro cantiche in terzine di stampo dantesco ma filtrato attraverso il modello del Monti, Del trionfo della libertà (1801-1802), primo intervento sul tema della Rivoluzione francese, che sarà per lui fonte di riflessione continua fino al tardo Saggio sulla rivoluzione francese. Qui l’atteggiamento del giovane poeta verso le fasi rivoluzionarie è ancora positivo (manca qualsiasi riferimento al Terrore), mentre già aspra è la condanna nei confronti del governo della Repubblica Cisalpina, implicita nel silenzio intorno alla figura di Napoleone. Le altre poesie di questi anni (fra cui le più note sono il sonetto autobiografico Capel bruno, alta fronte, occhio loquace, che emula i sonetti di Alfieri e di Foscolo, e i Sermoni in versi sciolti, di modello pariniano) mostrano l’estremo sperimentalismo della prima produzione manzoniana che, pur aperta al confronto con gli autori più celebri del periodo, cerca sempre più risolutamente un contenuto "utile" della poesia, subordinando a questo il raffinamento tecnico e formale.

Dal bello all’utile: il superamento dell’estetica neoclassica

Fondamentale per l’evoluzione ideologica e poetica di Manzoni è nel 1804 la decisione di raggiungere a Parigi la madre, Giulia Beccaria, che vi si era trasferita, dopo la separazione da Pietro Manzoni, col compagno Carlo Imbonati, esponente di quella aristocrazia illuminata a cui appartengono i Verri e i Beccaria, e a sua volta allievo da fanciullo di Giuseppe Parini. In ipotetico dialogo con l’Imbonati, morto poco prima del suo arrivo, Alessandro scrive il Carme in morte di Carlo Imbonati, che verrà pubblicato a Parigi da Didot nel 1805. La malinconica rievocazione dello scomparso permette qui a Manzoni di coniugare in una visione unica e positiva la tradizione poetica neoclassica con l’etica e la morale del presente, grazie anche all’utilizzo di endecasillabi sciolti, che consentono di accostare ai modelli poetici andamenti più pacati e riflessivi, i quali sottraggono il testo a effetti di immediata suggestione passionale e lo configurano come un vero e proprio decalogo di precettistica poetica e morale.

La crescente fiducia di Manzoni nel valore educativo della poesia è favorita dalla frequentazione a Parigi di Claude Fauriel, storico della letteratura medievale francese e italiana. Per suo tramite Alessandro avvicina la cerchia degli idéologues (il filosofo Destutt de Tracy, il medico e psicologo George Cabanis), eredi della tradizione illuministica, e il gruppo di liberali riuniti intorno a Madame de Staël, così da venire a conoscenza delle nuove teorie del romanticismo prima della loro diffusione in Italia. A questi stimoli vanno addebitati diversi progetti: un poemetto, Urania (1809), ancora però profondamente legato alla tradizione neoclassica, e due poemetti incompiuti, La Parteneide e La Vaccina, dove è invece già evidente il tentativo di liberarsi da tale tradizione nella ricerca di una maggiore qualità comunicativa.

La conversione religiosa e gli Inni sacri

Il 6 febbraio 1808 Manzoni sposa a Milano con rito protestante Enrichetta Blondel, di famiglia ginevrina e calvinista. Accanto a lei e alla madre Giulia, Alessandro vive la propria conversione poetica e religiosa, quest’ultima addebitata per tradizione a un episodio avvenuto a Parigi il 2 aprile 1810 quando, perduta la moglie nella folla che festeggiava il matrimonio di Napoleone con Maria Luisa d’Austria, il poeta si rifugia sconvolto nella chiesa di San Rocco e uscendone, come per grazia divina, ritrova Enrichetta. In realtà la conversione era stata già anticipata da numerosi segnali, fra cui il battesimo della figlia Giulietta e la nuova celebrazione del matrimonio con rito cattolico. È quindi un lungo processo speculativo che porta Manzoni a una interpretazione del proprio compito di letterato come missione civile e morale, nella quale confluiscono un’educazione di stampo illuministico e una profonda religiosità vissuta come carità e spiritualità. Risale a questo momento il progetto degli Inni sacri, concepiti in una serie di 12 componimenti legati al calendario dell’anno, ma di cui soltanto cinque verranno realizzati: i primi quattro (La Risurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione) tra il 1812 e il 1815, il quinto ( La Pentecoste) concluso dopo una lunghissima gestazione solo nel marzo del ’22. Gli Inni ben rappresentano il carattere innovativo che Manzoni richiede alla sua poesia, anche attraverso l’inedito connubio tra una metrica popolare (strofe brevi, rime ribattute, versi sdruccioli e tronchi), debitrice della tradizione melica settecentesca e dei libretti per melodrammi, e un lessico che unisce prelievi dalla poesia della tradizione e dei contemporanei a termini fino allora propri soltanto alla prosa. Lo scopo è quello di creare una moderna innografia, che, accostando all’immediatezza della forma metrica cantabile sia una lingua difficile, sia uno stile reso spesso arduo dall’impiego di estese similitudini, voglia riportare l’attenzione sul contenuto dottrinario del messaggio cristiano, impedendone un’assunzione passiva: implicita critica alla contemporanea pratica religiosa esteriorizzata e mondana della Chiesa ambrosiana, bersaglio in quegli stessi anni della feroce satira di Carlo Porta.

Storia e popolo: le tragedie

Alessandro Manzoni

La Pentecoste

Noi T’imploriam! Ne’ languidi

Pensier dell’infelice

Scendi piacevol alito,

Aura consolatrice:

Scendi bufera ai tumidi

Pensier del violento;

Vi spira uno sgomento

Che insegni la pietà.

Per Te sollevi il povero

Al ciel, ch’è suo, le ciglia;

Volga i lamenti in giubilo,

Pensando a Cui somiglia;

Cui fu donato in copia,

Doni con volto amico,

Con quel tacer pudico,

Che accetto il don ti fa.

Spira de’ nostri bamboli

Nell’ineffabil riso;

Spargi la casta porpora

Alle donzelle in viso;

Manda alle ascose vergini

Le pure gioie ascose;

Consacra delle spose

Il verecondo amor.

Tempra de’ baldi giovani

Il confidente ingegno;

Reggi il viril proposito

Ad infallibil segno;

Adorna le canizie

Di liete voglie sante;

Brilla nel guardo errante

Di chi sperando muor.

in A. Polvara, Tutte le poesie di Alessandro Manzoni, Milano, BUR, 1951

Alessandro Manzoni

Adelchi, Atto III

Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti,

Dai boschi, dall’arse fucine stridenti,

Dai solchi bagnati di servo sudor,

Un volgo disperso repente si desta;

Intende l’orecchio, solleva la testa

Percosso da novo crescente romor.

Dai guardi dubbiosi, dai pavidi volti,

Qual raggio di sole da nuvoli folti,

Traluce de’ padri la fiera virtù:

Ne’ guardi, ne’ volti, confuso ed incerto

Si mesce e discorda lo spregio sofferto

Col misero orgoglio d’un tempo che fu.

S’aduna voglioso, si sperde tremante,

Per torti sentieri, con passo vagante,

Fra tema e desire, s’avanza e ristà;

E adocchia e rimira scorata e confusa

De’ crudi signori la turba diffusa,

Che fugge dai brandi, che sosta non ha.

Ansanti li vede, quai trepide fere,

Irsuti per tema le fulve criniere,

Le note latebre del covo cercar;

E quivi, deposta l’usata minaccia,

Le donne superbe, con pallida faccia,

I figli pensosi pensose guatar.

E sopra i fuggenti, con avido brando,

Quai cani disciolti, correndo, frugando,

Da ritta, da manca, guerrieri venir:

Li vede, e rapito d’ignoto contento,

Con l’agile speme precorre l’evento,

E sogna la fine del duro servir.

Udite! Quei forti che tengono il campo,

Che ai vostri tiranni precludon lo scampo,

Son giunti da lunge, per aspri sentier:

Sospeser le gioie dei prandi festosi,

Assursero in fretta dai blandi riposi,

Chiamati repente da squillo guerrier.

Lasciar nelle sale del tetto natio

Le donne accorate, tornanti all’addio,

A preghi e consigli che il pianto troncò:

Han carca la fronte de’ pesti cimieri,

Han poste le selle sui bruni corsieri,

Volaron sul ponte che cupo sonò.

A torme, di terra passarono in terra,

Cantando giulive canzoni di guerra,

Ma i dolci castelli pensando nel cor:

Per valli petrose, per balzi dirotti,

Vegliaron nell’arme le gelide notti,

Membrando i fidati colloqui d’amor.

Gli oscuri perigli di stanze incresciose,

Per greppi senz’orma le corse affannose,

Il rigido impero, le fami durâr;

Si vider le lance calate sui petti,

A canto agli scudi, rasente agli elmetti,

Udiron le frecce fischiando volar.

E il premio sperato, promesso a quei forti,

Sarebbe, o delusi, rivolger le sorti,

D’un volgo straniero por fine al dolor?

Tornate alle vostre superbe ruine,

All’opere imbelli dell’arse officine,

Ai solchi bagnati di servo sudor.

Il forte si mesce col vinto nemico,

Col novo signore rimane l’antico;

L’un popolo e l’altro sul collo vi sta.

Dividono i servi, dividon gli armenti;

Si posano insieme sui campi cruenti

D’un volgo disperso che nome non ha.

Alessandro Manzoni, Adelchi, a cura di L. Russo, Firenze, Sansoni, 1986

Tornato a Milano nel 1810, Manzoni affianca ai suoi impegni di possidente nella tenuta ereditata da Carlo Imbonati a Brusuglio un’intensa attività creativa e civile, che può considerarsi il suo personalissimo contributo, tra il ’20 e il ’30, ai dibattiti sul Romanticismo e sul Risorgimento, così intensi e cruciali in quegli anni. Pur rifiutandosi di collaborare direttamente al periodico milanese romantico "Il Conciliatore", Manzoni ne frequenta assiduamente i redattori, che si riuniscono spesso proprio nella "sala rossa" della sua casa in via Morone a Milano. Ugualmente appartata è, in quei momenti così cupi della repressione austriaca, la sua adesione ai moti risorgimentali: dopo le canzoni patriottiche degli anni ’14 e ’15, Aprile 1814 e Il Proclama di Rimini, entrambe rimaste incompiute per il pronto spegnersi delle illusioni ma forse anche per l’insoddisfazione del poeta rispetto al risultato raggiunto, il contributo manzoniano si estrinsecherà solo attraverso creazioni poetiche nelle quali le riflessioni politiche, morali e religiose attraversano, innovano e superano tutte le forme letterarie in una visione unitaria e rigidamente conseguente. Nel 1820 viene pubblicata a Milano, frutto dei dibattiti milanesi e di una conoscenza approfondita del romanticismo europeo, la prima tragedia manzoniana, Il Carmagnola, dove all’adesione al sistema storico drammatico propugnato dal filosofo tedesco August Wilhelm Schlegel si unisce l’interesse per le potenzialità comunicative del genere teatrale. Il soggetto della tragedia, la vicenda quattrocentesca del condottiero Francesco di Bussone, passato dal servizio di Milano a quello della Repubblica di Venezia e quindi ingiustamente sospettato e condannato per tradimento, è tratta dall’opera dello storico Sismonde de Sismondi e corrisponde perfettamente all’interesse romantico per trame storiche entro cui, come nei drammi shakespeariani, possa svilupparsi l’analisi psicologica dei personaggi, in opposizione all’astrattezza atemporale tanto della tragedia sei-settecentesca francese, quanto di quella alfieriana.

Da questa scelta di un teatro storico, civile e insieme didascalico discendono gli obiettivi polemici e costruttivi alla base del Carmagnola: il fine didattico e morale della tragedia, come in generale di ogni lavoro letterario, comporta infatti, anzitutto, il rifiuto del vincolo dell’unità di tempo e luogo, canonizzato insieme a quello di azione nella tragedia italiana cinquecentesca e in quella classica francese. Tale vincolo comporta infatti, secondo Manzoni, l’impossibilità di rappresentare realisticamente un evento storico e dunque riduce l’atto teatrale a un’esplosione di passioni primarie, che spingono lo spettatore all’identificazione e all’empatia anziché stimolarne il giudizio e sollecitarne un’equilibrata valutazione morale. A questo scopo è anche volto l’inserimento del coro come luogo di meditazione riflessiva, di "cantuccio" in cui, come suggerito dallo Schlegel, l’autore può proporre le proprie considerazioni morali senza invadere lo spazio dell’azione drammatica. Invenzione del tutto manzoniana è invece l’uso del coro (il famoso coro della battaglia di Maclodio, conclusivo del secondo atto del dramma) per la celebrazione dell’azione collettiva e la rappresentazione della massa, in genere ignorata e sovrastata dalle gesta dei potenti. Vi è qui una stretta analogia con quanto perseguito negli Inni sacri e in particolare nella Pentecoste, con l’allargamento della vicenda divina e dei suoi riflessi sull’intera umanità.

La composizione del Carmagnola, durata dal ’16 al ’19, è interrotta da altri progetti, oltre che dalla lunga stesura della Pentecoste. Di questo periodo è infatti la prima opera in prosa, La morale cattolica, nella quale Manzoni, attraverso un impianto strettamente logico e deduttivo, mira a confutare la tesi centrale del Sismondi che nell’Histoire des républiques italiennes addebitava l’arretratezza degli Stati italiani all’ingerenza della Chiesa cattolica. Oltre alla sua importanza come primo esperimento prosastico, la Morale cattolica rappresenta quindi per Manzoni un momento centrale nella chiarificazione ideologica della propria fede religiosa e del proprio cristianesimo progressista, condizione necessaria per la maturazione dei futuri progetti letterari.

Oppressori e oppressi: Adelchi

Completata la Morale cattolica, Manzoni torna a Parigi con la famiglia, per un soggiorno breve ma denso di incontri che avranno un peso notevole nell’evoluzione della sua opera. In particolare conosce lo storico Augustin Thierry, la cui ricostruzione del Medioevo francese gli fornisce la definitiva legittimazione teorica per una lettura della storia non limitata ai protagonisti, ma allargata alle condizioni e al ruolo del terzo stato, finora inesplorati, e a un’interpretazione delle vicende storiche come risultato dello scontro fra etnie diverse. In questa fondamentale prospettiva Manzoni progetterà la seconda tragedia, Adelchi, alla cui composizione giunge dopo un accuratissimo lavoro storiografico di cui renderà conto nel Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia, anteposto al testo della tragedia. La tesi qui sostenuta, a confutazione di quanto ritenuto acquisito dalla storiografia precedente, è che non vi fosse stata fusione fra il popolo longobardo invasore e quello latino autoctono; ed è proprio questa netta separazione tra le due etnie che costituirà il motore profondo della tragedia. Lo scontro tra franchi e longobardi è invece lotta tra dominatori, dai quali i latini, cui viene data voce nel coro dell’atto terzo Dagli atri muscosi, sono ugualmente oppressi. Vittima non è però soltanto il "volgo disperso" (non popolo ancora, perché privo di una sua identità politica), ma lo stesso protagonista Adelchi, che per la sua natura profonda, meditativa e morale è necessariamente perdente di fronte al pragmatico realismo di Carlo Magno. Lacerato tra la necessità di combattere e un profondo senso di giustizia e di compassione per gli oppressi, Adelchi assume la dilemmatica dimensione di un eroe shakespeariano, resa dal procedere eternamente dolente delle sue parole e dalla stessa costruzione sintattica dei suoi monologhi, interrotti da riprese, antitesi ed esclamazioni che ne evidenziano la lotta interiore. E vittima è anche Ermengarda, la sposa ripudiata di Carlo, nella cui vicenda il conflitto che in Adelchi agisce tra ideale e reale si traduce in un contrasto tra passione e razionalità, reso nel doppio registro del deliquio amoroso della donna morente e dell’intervento del coro che proietta l’esperienza privata di Ermengarda entro il più vasto disegno vita-morte e avvicina la sua sofferenza a quella di tutte le creature. Tale lettura simbolica e cristiana è proposta in modo analogo, anche nella scelta del metro e della struttura compositiva, nell’ode coeva Cinque maggio, scritta in morte di Napoleone Bonaparte.

I promessi sposi: dall’abbozzo all’edizione definitiva

Alessandro Manzoni

I promessi sposi, Capp. III e XXXVIII

Capitolo III

– Sentite, figliuoli; date retta a me, – disse, dopo qualche momento, Agnese. – Io son venuta al mondo prima di voi; e il mondo lo conosco un poco. Non bisogna poi spaventarsi tanto: il diavolo non è brutto quanto si dipinge. A noi poverelli le matasse paion più imbrogliate, perché non sappiam trovarne il bandolo; ma alle volte un parere, una parolina d’un uomo che abbia studiato... so ben io quel che voglio dire. Fate a mio modo, Renzo; andate a Lecco; cercate del dottor Azzecca–garbugli, raccontategli... Ma non lo chiamate così, per amor del cielo: è un soprannome. Bisogna dire il signor dottor... Come si chiama, ora? Oh to’! non lo so il nome vero: lo chiaman tutti a quel modo. Basta, cercate di quel dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di lampone sulla guancia.

– Lo conosco di vista, – disse Renzo.

– Bene, – continuò Agnese: – quello è una cima d’uomo! Ho visto io più d’uno ch’era più impicciato che un pulcin nella stoppa, e non sapeva dove batter la testa, e, dopo essere stato un’ora a quattr’occhi col dottor Azzecca–garbugli (badate bene di non chiamarlo così!), l’ho visto, dico, ridersene. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que’ signori. Raccontategli tutto l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno. Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l’approvò; e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n’andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca–garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.

Capitolo XXXVIII

Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. – Ho imparato, – diceva, – a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che possa nascere –. E cent’altre cose.

Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, – e io, – disse un giorno al suo moralista, – cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, – aggiunse, soavemente sorridendo, – che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.

Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.

La quale, se non v’è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l’ha scritta, e anche un pochino a chi l’ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s’è fatto apposta.

Alessandro Manzoni, I promessi sposi, a cura di A. Marchese, Milano, Mondadori, 1985

La stesura di Adelchi rappresenta dunque il primo frutto della lezione del Thierry, ma non può esserne che una realizzazione provvisoria: troppo angusto lo spazio che nella struttura della tragedia è riservato al popolo, il cui intervento è di necessità limitato al coro. Un nuovo punto di vista deve avvalersi, per esprimersi, di un nuovo genere, che consenta maggior distensione al narrato e più ampia libertà alla struttura e alla lingua. La scelta del romanzo storico viene a essere perciò naturale ed è ancora una volta indicata al Manzoni da Thierry, che ha recensito con entusiasmo l’Ivanhoe del celebre narratore scozzese Walter Scott, la cui opera costituirà di fatto un riferimento fondamentale nella prima stesura dei Promessi sposi. Ma l’impulso concreto alla intrapresa dell’opera è certo anche da attribuirsi ai drammatici avvenimenti politici del ’21, che portano all’arresto e alla fuga di molti dei cospiratori vicini allo stesso Manzoni. Dopo l’abbandono delle speranze in Carlo Alberto, celebrate nella forte retorica patriottica dell’ode Marzo 1821, il poeta si induce infatti a riflettere sulla possibilità di incidere, in modo meno velleitario e più legato al proprio ruolo di scrittore, sulle vicende sociali e politiche del suo tempo, al fine di collaborare a quel progetto di unità e di indipendenza dell’Italia che sembrava per il momento destinato a una lunga attesa.

La scelta di un genere nuovo e poco praticato nella letteratura italiana costituisce una sfida difficile almeno a tre livelli: poetico, ideologico e linguistico. Da un lato, si tratta infatti di conciliare l’aspetto creativo e inventivo del racconto con il rispetto della verità storica, in una ricerca di equilibrio che superi il modello fornito da Scott, tendente a manipolare la realtà dei fatti ai fini romanzeschi; dall’altro di conciliare l’obiettivo civile riformistico (sotteso alla condanna della società e del governo nella Lombardia spagnola del Seicento, manchevoli da tutti i punti di vista: di ordine, di equità, di giustizia) con la propria prospettiva religiosa, che in ultima analisi rimette il destino umano nelle mani della Provvidenza. Infine, si tratta ancora di trovare una lingua che, uscendo dall’orto conchiuso del registro letterario, si rivolga a un pubblico più vasto, per farsi strumento di comunicazione (quale sono allora solo i dialetti) e insieme di educazione nazionale.

La difficile ricerca di un equilibrio tra questi tre piani costringe l’autore a revisioni massicce nel passaggio dalla prima stesura del testo, il Fermo e Lucia, alla editio princeps, data alle stampe a Milano dall’editore Ferrario nel giugno del ’27. Enormi i cambiamenti, che portano da una costruzione più rigida (prima tutte le vicende di Lucia, poi tutte quelle di Renzo), soggetta a frequentissime dilatazioni spesso di gusto gotico e "noir" (l’ampio spazio dedicato ad esempio alla Monaca di Monza, drasticamente ridotto nelle stesura successiva) e con molteplici divagazioni introdotte in prima persona dal narratore, a una maggior omogeneità del racconto, che consente anche una caratterizzazione più equilibrata dei personaggi e una presenza meno esplicita del commento morale, dissimulato nella narrazione e affidato alla carica semantica del lessico. Nella sua forma definitiva il racconto si costruisce intorno alle vicende di due giovani paesani, Renzo e Lucia, la cui elezione a protagonisti rappresenta uno degli aspetti più rivoluzionari dell’opera. Vi si possono individuare quattro grandi segmenti, di cui il primo e l’ultimo (capp. I-VIII; XXXIII-XXXVIII) sono caratterizzati dalla presenza contemporanea dei due personaggi, mentre quelli centrali narrano le loro separate avventure nell’incontro-scontro con i tre eventi che segnano l’acme drammatico della vicenda: Gertrude, l’Innominato, la peste. La complementarità delle vicende dei due promessi sposi è emblematicamente delineata nella loro figura fin dalla prima apparizione nel testo. Lucia rappresenta una religiosità profonda e spontanea, cui viene delegata la funzione di testimone della spiritualità nelle diverse situazioni e nell’incontro coi diversi personaggi: con la pavida professione di don Abbondio, con la fede battagliera di fra’ Cristoforo, con la violenta passionalità della monaca Gertrude, con la crisi dell’Innominato, con la forza morale di Federigo Borromeo, con la superficiale pratica religiosa di Donna Prassede. Personaggio passivo dal punto di vista degli eventi, la giovane paesana costituisce il fulcro della morale cristiana del testo nella sua capacità di opporre la propria fede al corso drammatico della storia e di adeguare le proprie azioni al disegno occulto della Provvidenza. Dinamica è invece la figura di Renzo, che rappresenta la componente più combattiva, civile e illuministica di Manzoni. Intorno a lui si costruisce quindi il quadro storico e politico dell’epoca; e le sue avventure, caratterizzate dal movimento fra luoghi diversi, dal confronto e scontro con le diverse istituzioni e con i grandi eventi collettivi, mentre segnano il suo progressivo apprendistato esistenziale, sottolineano e rimettono continuamente in gioco il precario equilibrio tra morale individuale e comportamento sociale.

La struttura narrativa del testo è fissata definitivamente a partire dalla prima edizione uscita a Milano da Ferrario nel ’27 (la cosiddetta "ventisettana"): pochissimi gli interventi sostanziali introdotti nella successiva edizione, edita a dispense a Milano da Guglielmini e Redaelli dal 1840 al 1842 (la "quarantana"), rivista però completamente sul piano linguistico e impreziosita da illustrazioni di Francesco Gonin curate direttamente dall’autore.

Il problema della lingua

La scelta di comporre un romanzo presenta, come si è detto, non soltanto difficoltà di tipo strutturale, ma, anzitutto, linguistiche. La scrittura in prosa, sperimentata solo nella Morale cattolica – che apparteneva tuttavia a un genere ben più codificato e naturalmente letterario – richiede una lingua altamente comunicativa, sia per l’obiettivo di raggiungere un pubblico più vasto di quello ridottissimo della poesia, sia perché i protagonisti della vicenda, di cui vanno riportati i discorsi e i pensieri, sono degli umili. Nella prima stesura la soluzione adottata da Manzoni è di compromesso, con l’innesto, sul fondo toscano di tradizione, di prelievi analogici (soprattutto locuzioni e modi di dire) tratti dalle lingue a lui più vicine come il francese e il dialetto milanese e in parte anche il latino. Benché geniale, e a tratti di altissimo risultato espressivo, questa ricetta linguistica appare però a Manzoni ancora legata a una scelta troppo personale nel dosaggio e perciò mancante di quella componente di oggettività necessaria a una lingua di comunicazione moderna e nazionale. A partire dalla chiusura del Fermo e Lucia, nel settembre del ’23, ha perciò subito inizio un lavoro di revisione capillare del testo che porta a una correzione della lingua in senso decisamente toscano, con la lettura e la postillatura di testi di lingua (soprattutto comici toscani) e di vocabolari, in particolare di quello della Crusca nella quarta redazione del 1806. Anche questa soluzione viene però messa immediatamente in crisi addirittura a pochi giorni dalla stampa della princeps nel luglio del ’27, quando, a seguito di un viaggio in Toscana con la famiglia, Manzoni viene a contatto diretto con la parlata viva fiorentina e percepisce i limiti di molte espressioni arcaiche o letterarie da lui ricavate dagli spogli libreschi. Da qui ha origine la revisione linguistica (la famosa "risciacquatura in Arno") che approderà all’edizione definitiva del ’40: al carattere ancora composito della ventisettana si sostituisce così definitivamente il rigoroso monolinguismo del fiorentino moderno, rispetto al quale Manzoni verifica e corregge con puntualità, ma sempre con alta coscienza artistica, il romanzo al fine di definire un modello di lingua esemplare che dia la norma all’italiano.

La proposta linguistica manzoniana, di lì a poco estesa a tutta la sua produzione, nell’edizione delle Opere varie assume un valore incalcolabile anche per il suo messaggio politico. Il modello di una lingua unitaria anticipa infatti di qualche anno la stessa unità politica nazionale e si propone come stimolo ed esempio per il rafforzamento della coscienza civile del paese: ambizione che Manzoni ribadirà dal punto di vista teorico nella Lettera a Giacinto Carena del 1847 e nella relazione scritta per invito del ministro Broglio nel ’68 dal titolo: Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla, seguita da un’Appendice l’anno successivo.

La storia come unica verità

Alessandro Manzoni

Storia della colonna infame, Cap. III

A una tale interrogazione, la coscienza si confonde, rifugge, vorrebbe dichiararsi incompetente; par quasi un’arroganza spietata, un’ostentazion farisaica, il giudicar chi operava in tali angosce, e tra tali insidie. Ma costretta a rispondere, la coscienza deve dire: fu anche colpevole; i patimenti e i terrori dell’innocente sono una gran cosa, hanno di gran virtù; ma non quella di mutar la legge eterna, di far che la calunnia cessi d’esser colpa. E la compassione stessa, che vorrebbe pure scusare il tormentato, si rivolta subito anch’essa contro il calunniatore: ha sentito nominare un altro innocente; prevede altri patimenti, altri terrori, forse altre simili colpe.

E gli uomini che crearon quell’angosce, che tesero quell’insidie, ci parrà d’averli scusati con dire: si credeva all’unzioni, e c’era la tortura? Crediam pure anche noi alla possibilità d’uccider gli uomini col veleno; e cosa si direbbe d’un giudice che adducesse questo per argomento d’aver giustamente condannato un uomo come avvelenatore? C’è pure ancora la pena di morte; e cosa si risponderebbe a uno che pretendesse con questo di giustificar tutte le sentenze di morte? No; non c’era la tortura per il caso di Guglielmo Piazza: furono i giudici che la vollero, che, per dir così, l’inventarono in quel caso. Se gli avesse ingannati, sarebbe stata loro colpa, perché era opera loro; ma abbiam visto che non gl’ingannò. Mettiam pure che siano stati ingannati dalle parole del Piazza nell’ultimo esame, che abbian potuto credere un fatto, esposto, spiegato, circostanziato in quella maniera. Da che eran mosse quelle parole? come l’avevano avute? Con un mezzo, sull’illegittimità del quale non dovevano ingannarsi, e non s’ingannarono infatti, poiché cercarono di nasconderlo e di travisarlo.

Se, per impossibile, tutto quello che venne dopo fosse stato un concorso accidentale di cose le più atte a confermar l’inganno, la colpa rimarrebbe ancora a coloro che gli avevano aperta la strada. Ma vedremo in vece che tutto fu condotto da quella medesima loro volontà, la quale, per mantener l’inganno fino alla fine, dovette ancora eluder le leggi, come resistere all’evidenza, farsi gioco della probità, come indurirsi alla compassione.

Alessandro Manzoni, Storia della colonna infame, Roma, Newton Compton, 1993

Dopo lo sforzo degli anni Trenta e Quaranta l’attività propriamente creativa di Manzoni si interrompe, con l’eccezione della splendida Storia della colonna infame, edita nel ’42 di seguito al romanzo, che costituisce tuttavia la rielaborazione di uno scritto nato addirittura come parte del Fermo e Lucia e quindi sviluppatosi autonomamente. Il processo agli untori trattato qui da Manzoni era già stato affrontato da Pietro Verri nelle sue Osservazioni sulla tortura; ma, mentre lo scopo del Verri era stato di dimostrare la perversità della tortura e delle leggi che la permettevano, Manzoni imposta la sua indagine come verifica della libertà morale dell’uomo. Ciò che lo scrittore si propone di dimostrare è infatti che anche con quelle leggi i giudici avrebbero potuto agire altrimenti, perché esiste sempre un margine ampio di responsabilità individuale dell’uomo che può collocarlo fra i giusti o fra gli iniqui: salvando così la fede nella Provvidenza, che risulterebbe altrimenti l’unica responsabile dei mali umani. Oltre a una prova di notevolissima originalità stilistica la Storia della colonna infame sancisce quella conversione verso la sola storia che Manzoni aveva intrapreso subito dopo la scrittura dei Promessi sposi e che lo porterà a negare con il saggio Del romanzo storico (edito nel ’50) la possibilità stessa di praticare generi misti di storia e invenzione.

L’abbandono dell’attività creativa

Gli anni Trenta e Quaranta sono anche anni di affanni dal punto di vista privato e pubblico: morta la moglie Enrichetta nel ’33 e dopo pochi mesi la figlia Giulia, Manzoni vive circondato dagli amici più fedeli, assidui frequentatori di via Morone. Nel ’37 sposa in seconde nozze la vedova Teresa Borri Stampa e, specie dopo i moti del ’48, l’arresto del figlio Filippo, la firma di sostegno data al governo provvisorio e infine la pubblicazione delle due odi, Aprile 1814 e Marzo 1821, trascorre sempre più tempo a Lesa, sul Lago Maggiore, dove frequenta assiduamente il filosofo Antonio Rosmini, dalla cui amicizia nascerà il dialogo Dell’invenzione. I suoi interessi sono sempre più diretti alla speculazione teorica, mentre in campo creativo la sua attività si concentra sulla revisione linguistica dei propri testi per l’edizione delle Opere varie.

A processo unitario concluso, Manzoni, riconosciuto come una sorta di padre della patria, viene insignito di pubbliche onorificenze e di incarichi pubblici: nel ’60 è nominato senatore del regno e nel ’68 presidente della Commissione per l’unificazione linguistica della nazione. Rimasto ancora vedovo nel ’61, trascorre una vita principalmente milanese fino alla morte, avvenuta il 22 maggio 1873 dopo una caduta sui gradini della chiesa di San Fedele. Il primo anniversario della sua morte verrà celebrato a Milano nella chiesa di San Marco con la Messa da Requiem, scritta in suo onore da Giuseppe Verdi.

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