MANZONI, Alessandro

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 69 (2007)

MANZONI, Alessandro

Piero Floriani

Nacque a Milano il 7 marzo 1785 in una casa sui Navigli, in contrada S. Damiano 20 (oggi via Visconti di Modrone 16); la madre era Giulia Beccaria e il padre legale Pietro. L'8 marzo fu battezzato, coi nomi di Alessandro Francesco Tommaso Antonio, nella cura di S. Babila. Pochi giorni dopo fu messo a balia presso Malgrate, vicino a Lecco. Fu ricondotto in famiglia a circa due anni.

Il padre legale, 49 anni alla nascita del M., veniva da una famiglia originaria della Valsassina poi stabilitasi a Lecco, arricchitasi dal Seicento con attività minerarie, affari immobiliari e finanziari, e nobilitata con del tribunale araldico nel 1771, previo l'acquisto a fine Seicento del feudo di Moncucco nel Monferrato. Il rango periferico e recente della sua nobiltà aveva indotto Pietro, vedovo senza figli, a chiedere in sposa Giulia Beccaria, primogenita di Cesare (mediatore Pietro Verri), accettando una dote ridotta.

Giulia, sposatasi con Pietro a vent'anni, il 20 sett. 1782, aveva continuato a frequentare gli ambienti dei Verri, dove si era legata di amicizia sentimentale con Giovanni, il più giovane dei fratelli, già nel 1781. Che padre del M. fosse costui si ritiene accertato, in assenza di prove in contrario, poiché è testimoniato in modo indipendente da più fonti, la più attendibile delle quali è una lettera scritta da G. Gorani, il 16 genn. 1808, all'amico Giovanni Verri per annunciare le nozze del M. con Enrichetta Blondel (cfr. P. Campolunghi, Ritrovata la lettera del Gorani a Giovanni Verri del 16 genn. 1808, in Annali manzoniani, n.s., III [1999], pp. 305-314).

Tra i coniugi la nascita del M. non portò beneficio. Quando si separarono, il 23 febbr. 1792, egli era a Merate in un collegio retto dai somaschi. Ve lo aveva accompagnato la madre il 13 ott. 1791, dopo averlo condotto a fare visita a Cesare Beccaria (unica memoria che il M. conservò del nonno). La donna andò poi a vivere con Giovanni Carlo Imbonati: lasciò Milano, tornandovi dapprima ogni tanto e stabilendosi infine a Parigi. Pietro si trasferì in contrada S. Prassede; lì e al Caleotto presso Lecco, palazzo da cui traevano nome i Manzoni "del Caleotto", il M. ebbe residenza fino alla morte del padre.

Nel 1796 il M. passò al collegio S. Antonio a Lugano, diretto anch'esso dai somaschi, dove rimase fino al marzo 1798 (vi ebbe maestro per breve tempo F. Soave), quando fu fatto rientrare per disposizione del governo della Cisalpina. Pochi mesi dopo entrò nel collegio Longone dei barnabiti, allora a Castellazzo de' Barzi; nel 1799 il collegio tornò a Milano e il M. vi concluse gli studi nell'anno scolastico 1800-01.

Dell'educazione ricevuta avrebbe ricordato con avversione, anche in testi poetici, gli aspetti atti a generare paura e doppiezza. Ebbe una precoce vocazione poetica, sostenuta da una viva memoria; precoce fu anche la scelta "giacobina" di stampo nazionale. Prima prova di tale vocazione del M. fu un sonetto apparso tra il 1801 e il 1802 nelle Vite degli eccellenti italiani di F. Lomonaco.

Non risulta che il M. si sia iscritto all'Università di Pavia, ma è probabile che abbia seguito (1802-03) le lezioni di V. Monti, e quelle di P. Tamburini e G. Zola, i maggiori giansenisti lombardi. Suoi amici furono G.B. Pagani, L. Arese e I. Calderari, e immigrati come A. Mustoxidi, allievi di Monti e studenti a Pavia.

Negli ultimi anni di scuola il M. ebbe contatti anche con esuli d'origine non lombarda: Monti e U. Foscolo, V. Cuoco e Lomonaco. Prima ancora aveva letto G. Parini (nel 1799 la notizia della sua morte, giunta in collegio, gli aveva procurato forte emozione) e V. Alfieri, che ammirò come poeta geloso della libertà e trageda, per prenderne poi le distanze. Con Monti e Foscolo i rapporti furono intensi. Nel primo riconobbe un maestro, e fu ricambiato come promessa della poesia; il secondo lo ricordò nelle note ai Sepolcri (1807) e se ne disse guida dai primi anni. Degli esuli napoletani, Cuoco lo introdusse a G.B. Vico e gli donò una copia del primo tomo del Platone in Italia (ora a Brusuglio, "dono dell'autore"), dove lo aveva rappresentato nel personaggio di Nearco.

Il M. divenne noto nel mondo letterario nel 1803 col poemetto Il trionfo della libertà, iniziato nel 1801 dopo la pace di Lunéville, pubblicato postumo a Milano nel 1878 ma circolato ampiamente manoscritto. Monti ne assunse la paternità poetica e il M. stette al gioco, fino a farsi tramite con Cuoco perché dal Platone in Italia fosse tolto un attacco contro Monti.

Nell'ottobre 1803 il M. si trasferì a Venezia. Il soggiorno gli permise di allargare le sue esperienze e di concludere la prova dei quattro Sermoni (composti nel 1803-04), tentando il registro satirico in sciolti: seguì Giovenale in Amore a Delia e in Panegirico di Trimalcione e Orazio nel sermone A Giovan Battista Pagani e in quello sulla poesia Se alcun da furia d'irritato nervo: queste poesie, diffuse in manoscritti, furono stampate solo postume da Stoppani (in I primi anni di A. M., Milano 1874, pp. 201 ss.) e da R. Bonghi (in Opere inedite o rare di Alessandro Manzoni, Milano 1883, I, pp. 78 ss.). Tornato a Milano nell'agosto 1804, riprese i rapporti con Monti.

Il 15 marzo 1805 morì a Parigi Imbonati dal quale Giulia ereditò un grande patrimonio: il M. raggiunse la madre a metà luglio. L'incontro fu decisivo per ambedue. Si creò una condizione nuova: la ricchezza della madre liberò infatti il M. dalla soggezione al padre. L'intesa dei due coinvolse gli amici, in particolare Monti, Sophie de Grouchy vedova di N. de Condorcet, C. Fauriel e P. Cabanis, A. Destutt de Tracy con le rispettive mogli. Anche Foscolo (accolto però con freddezza) incontrò i due a Parigi. Negli ultimi mesi del 1805 il M. scrisse l'epistola In morte di Carlo Imbonati. Versi di Alessandro Manzoni a Giulia Beccaria sua madre, in endecasillabi sciolti, datata gennaio 1806.

Poesia provocatoria contro la società per i commenti pettegoli sulla propria nascita e sulla relazione della madre, fu stampata a Parigi da Didot all'inizio del 1806 ed ebbe in aprile replica a Milano per cura di Pagani, che aggiunse una dedica a Monti che il M. non gradì. Altre due stampe uscirono a Brescia e Roma. La forma fu quella del sermone, dialogica e satirica: prosopopea di Imbonati e, di nuovo (dopo i già citati sermoni A Pagani e Se alcun da furia d'irritato nervo), l'appello alla responsabilità di poeta e al culto del "santo vero".

Tra il 19 maggio e il settembre 1806 madre e figlio tornarono in Italia: si incontrarono a Torino (allora sotto il dominio francese) con il procuratore di lei e con la sorella di Imbonati per decidere il destino di Brusuglio, il maggiore fra i beni ereditati. Un altro viaggio (febbraio-maggio 1807) ebbe come mete Genova e Torino. A Genova il M. rivide (era lo scopo del viaggio) Luigia (Luisina) Visconti, di cui era stato innamorato da adolescente, sorella di Ermes Visconti; la Beccaria, che sperava in un sollecito matrimonio del figlio, restò tuttavia delusa nell'apprendere che la donna era già sposata. Proprio a Genova furono informati il 20 marzo che Pietro Manzoni, malato, voleva rivedere il figlio, ma giunti a Brusuglio seppero che aveva fatto testamento ed era morto. Senza entrare in città ripartirono per Torino.

La scomparsa del padre permise al M. di aggiungere l'eredità paterna ai beni Imbonati. Il patrimonio, divenuto notevole, costituiva una responsabilità e una sfida. La critica ai costumi italiani espressa fino ad allora esigeva che il giovane possidente provasse a far meglio dei nobili suoi conterranei, amministrando e costruendo una nuova famiglia. Brusuglio e il Caleotto erano i posti giusti per quell'esperimento. Caduta l'idea di matrimonio con la figlia di Destutt de Tracy, Augustine, proposta da Fauriel, nel settembre 1807 madre e figlio tornarono a Milano nutrendo progetti su Brusuglio e per investire nei poderi. C'era anche una candidatura nuziale: Enrichetta Blondel, sedicenne ginevrina, calvinista, estranea all'aristocrazia milanese ostile ai Manzoni. Il matrimonio civile fu celebrato a Milano in municipio il 6 febbr. 1808; poi, nel palazzo che i Blondel avevano acquistato da Giulia, il pastore G.G. Orelli benedisse gli sposi con rito calvinista, visto il rifiuto delle autorità ecclesiastiche milanesi di consentire la celebrazione di un matrimonio "misto".

Per porsi al riparo dalle maldicenze, dopo il matrimonio fu esteso alla sposa il regime già vigente a Brusuglio: "Viviamo nella più grande solitudine, tremando di paura ogni volta che sentiamo una carrozza entrare in cortile, perché potrebbe essere un importuno che viene a toglierci la nostra giornata per disfarsi della sua" (Carteggio Manzoni - Fauriel, p. 62).

Giulia non si adattò però all'esperimento: preda di malesseri, incapace di affrontare le chiacchiere, ottenne dal figlio di poter tornare a Parigi. Il viaggio di Giulia e degli sposi si concluse in una casa del boulevard des Bains chinois. Il 23 dic. 1808 nacque la prima figlia, Giulia Claudia (Giulietta). Cominciò il biennio decisivo per l'acquisizione del cognome Beccaria (il M. lo aggiunse al proprio), per l'amicizia con Fauriel e il legame con Enrichetta.

Dal 1806 all'ottobre 1825 Fauriel rappresentò un riferimento imprescindibile per il M.: più vecchio di 13 anni, critico di Napoleone, custode di ortodossia politica, storico e letterato amico di Anne-Louise-Germaine Necker (madame de Staël) e di Cabanis, Destutt de Tracy e H. Grégoire, A. Thierry e V. Cousin, Fauriel fu garante, traduttore, correttore del Manzoni. Le sue lettere sono tra le poche fonti confidenziali del M., per il quale fu come un fratello maggiore.

Fra i coniugi, nella scarsità di notizie documentarie sul ménage (nessuna lettera al marito, tranne lo struggente testamento), l'accordo pare pieno, non incrinato da divergenze acute. Negli atti importanti come l'abiura del protestantesimo di lei e il ritorno del M. alla fede, si coglie un convergere di sentimenti che suppone il "sospiro segreto del cuore", cui serve che l'"amore venga comandato, e si chiami santo" (capitolo VIII dei Promessi sposi). Nei 25 anni di matrimonio dieci parti e numerose malattie gravarono pesantemente sul fisico e sulla psiche di Enrichetta; ma l'importanza del suo ruolo fu partecipata e compresa da tutti, in specie dalla suocera che la riconobbe guida morale.

A Parigi (giugno 1808 - giugno 1810) gli interessi del M. si estesero alla riflessione sull'etica classica cui era volto Fauriel (la "storia dello stoicismo", che il M. incitava a scrivere), e alla letteratura tedesca. L'atmosfera libera da pregiudizi gli consentì una rinnovata disponibilità verso i rapporti con vecchi e nuovi amici: decisiva fu, tuttavia, la comune scelta della fede cattolica.

Anticipò la "conversione" l'ultimo frutto del classicismo del M.: Urania, un poemetto in sciolti pubblicato a Milano nel settembre del 1809. Sorretto da una concezione della letteratura in cui si palesa lo sforzo di attualizzare un'etica della civiltà (in polemica con le guerre coeve), il M. vi celebrò in veste mitica l'idea di poesia civilizzatrice (le Muse), che svolge la sua funzione con la mediazione delle Grazie le quali accompagnano le Virtù (Pietà, Perdono, Onore, Fede, "ospital Genio") presso gli umani. Fu, peraltro, l'ultima volta che, in chiave metaletteraria, il M. ricorse all'artificio di far poesia sulla poesia.

Al lento lavoro per Urania e A Parteneide (nata in tempi vicini, di interesse per il genere idillio) si accompagnò (ma senza tracce chiare) il ritorno alla fede cattolica. Otto mesi dopo la nascita, Giulia fu battezzata nella chiesa di St-Nicolas di Meulan, padrini nonna Giulia e Fauriel. Accolta la supplica del M. al papa Pio VII per poter sposare Enrichetta con rito cattolico, la celebrazione del matrimonio ebbe luogo il 15 febbr. 1810. In aprile E. Degola, prete giansenista attivo nel proselitismo, incontrò più volte Enrichetta alla presenza del M. per istruirla al cattolicesimo e il 22 maggio accolse la sua abiura, delegato dal capitolo di Notre-Dame. Assistettero laici e religiosi inclinati per lo più a opinioni filogianseniste e gallicane. Si chiuse così la prima fase della regolarizzazione della famiglia, in vista del ritorno in Italia. Era un netto cambiamento: certo per Enrichetta e Giulia, probabile per il M., il cui processo fu più lento.

La leggenda accredita la conversione del M. a un incidente avvenuto durante le feste per le nozze di Napoleone e Maria Luisa, il 2 apr. 1810: perduta la moglie in un movimento di folla, in preda a crisi nervosa il M. sarebbe entrato nella chiesa di St-Roch invocando l'aiuto del Dio di cui non aveva certezza. Nel ritrovamento di lei avrebbe riconosciuto una prova per la propria fede. Sebbene il M. non volle raccontare ai suoi questa vicenda, la connessione tra l'ansia per la moglie e la percezione dell'aiuto divino non appare priva di fondamento: confermano l'esperienza emotiva d'un aiuto di Dio le voci riportate dai parenti (la figlia Vittoria, Stefano Stampa) che parlano di gratitudine per la grazia della fede e del ricordo di Saulo sulla via di Damasco. D'altra parte la religione del M. denunciò sempre un aspetto raziocinante e G.B. Giorgini sostenne che il M. giunse a credere "per via della logica": la fede fu, pertanto, logicamente, quel che spiegava la contraddizione tra "ciò che è e ciò che dovrebbe essere" (la frase, presente nella prima lettera a Fauriel, è tal quale si rinviene poi nella Morale cattolica): di fronte alle cose inconoscibili, occorreva che la ragione non negasse né sospendesse la domanda di senso, e accettasse la risposta della Scrittura, dove dà conto di un bene, l'amore di Dio, che soddisfa misteriosamente il senso umano di giustizia (per ultimo F. Mattesini, Dalla "Morale cattolica" ai "Promessi sposi", in M. e Gadda, Milano 1996, p. 13). Se tra bene e male non ci fosse compensazione, varrebbe il paradosso della Colonna infame: negare la Provvidenza o accusarla. Ciò porterebbe alla disperazione.

Vi erano ormai le premesse per il ritorno in Italia del 1810: orfano di padre, capo famiglia ormai regolare, il M. fu anche libero dall'obbligo di leva. E l'amore per Parigi sembra esaurito: in "ce Paris que je n'aime point du tout" (Carteggio Manzoni - Fauriel, p. 133) unico riferimento rimase Fauriel.

A Milano, la famiglia mutò case e luoghi (lavori a Brusuglio; abbandono del tempio funerario in cui era stato inumato Imbonati nel 1806; acquisto della casa di via Morone, unica proprietà in città dal 1813; vendita del Caleotto nel 1818), principiando abitudini nuove (pratiche di pietà con rituali dettati dai direttori spirituali Degola e L. Tosi).

Benché sul ritorno gravasse l'ira dei Blondel per l'abiura della figlia, essi erano sereni: il cattolicesimo dell'abbandono alla grazia divina dava norma e induceva al raccoglimento. In agosto il M. si confessò; in settembre i tre presero la prima comunione. Milano assentiva, l'esperimento ebbe successo.

La vita fu regolata negli aspetti pratici da Giulia, nel modello etico da Enrichetta: la famiglia fu strettamente nucleare per la centralità del rapporto marito-moglie, volto alla fecondità e all'educazione dei figli. I rapporti esterni erano ridotti (nessuna frequentazione; c'era solo la presenza, per consiglio e aiuto, di Giulio Beccaria, fratellastro di Giulia). I figli, allevati finché fu possibile in casa, seguirono gli spostamenti dei genitori che decidevano secondo competenza, avendo pari autorevolezza morale.

L'adattamento a questa nuova fase non fu, tuttavia, un processo senza contraddizioni. Il M. conservò affezione per i luoghi d'infanzia, per il Caleotto in particolare - come confessò nel capitolo I del Fermo e Lucia - ma allora aveva già venduto la casa e gli altri beni di Lecco. Nella cappella rimase la tomba del padre, ripudiato dal M. in favore della madre. Sulla liquidazione dei beni ereditati, sul rifiuto di curare il sepolcro paterno e sul silenzio che sempre gravò sull'infanzia, certo pesò la scelta della figura materna. Ma è possibile che a favorire quest'oblio abbia concorso un giudizio severo sui tentativi della famiglia Manzoni di accreditarsi come nobile. Al ritorno dell'Austria, infatti, i Manzoni richiesero le vecchie patenti, mentre il M. non ne fece domanda. I Beccaria, patrizi, avevano riscattato il privilegio con l'impegno nel governo e nella cultura; i Manzoni no.

Il M. dette nuovo impulso anche all'attività di agricoltore, nell'esercizio delle proprietà sue e della madre e nell'organizzazione delle tenute. Da allora e per molti anni studiò e mise in atto nuove tecniche di coltivazione di specie arboree, cereali, vigne (con vinificazione diretta), cotone, allevamento di bachi da seta (ancora attività dominante), frutticoltura, giardinaggio. Coltivò specie ancora poco usate (per esempio la robinia) e studiò le forme di rapporto con fittavoli e operai applicate al suo tempo. Quando il 26 ag. 1833 scrisse l'unica lettera a J.Ch.L. Simonde de Sismondi (Lettere, II, pp. 18 s.), nominò solo il suo Tableau de l'agriculture toscane, primo libro ad avergli ispirato gusto per la vita rurale, mai raffreddatosi. L'agricoltura fu praticata con passione e spirito imprenditoriale, da seguace della tradizione lombarda più aperta. Ci furono momenti di crisi, per carestie o tentativi di innovazione non riusciti (per esempio la coltura del caffè); ma l'interesse del M. per l'agricoltura non venne mai meno e costituì, più ancora dell'attività poetica, una risorsa vitale.

La vita religiosa della famiglia fu curata da Tosi, canonico di S. Ambrogio fino al 1823, poi vescovo di Pavia, anch'egli di formazione giansenista, incline a una pietas nutrita di penitenze e carità. Degola e Tosi provarono a usare a fini apologetici l'attività di scrittore del M., ma il poeta in un primo tempo non fu disponibile come il credente. A Degola che chiedeva notizie e apologie, rispose nel febbraio del 1812 che lavorava a un'operetta "pensata a Parigi", non "sostanzialmente religiosa". Era la Vaccina, poema idillico in ottave, portato non oltre 66 versi. Doveva rappresentare la Lombardia delle valli, dove i pastori avevano usato l'immunizzazione naturale contro il vaiolo ("vaccino, Lombardia, montagne, tradizione" fu la tematica riferita a Fauriel il 5 ott. 1809). Poco si può dire tuttavia del progetto, abbandonato nel 1814.

Quanto a sé, il M. operò, introspettivamente, una revisione della propria vita: la conversione comportò un riesame dei testi, anzitutto (ma non solo) quelli pubblicati. Gli sciolti a Imbonati richiamavano lo scandalo della madre; Urania usava un linguaggio idolatrico (la mitologia); neanche il sonetto su Dante per Lomonaco sfuggiva all'autocritica, ché ricordava il suicidio del destinatario. Il M. non distrusse tutti gli inediti che erano circolati tra amici. Di altri si trovò poi copia: scoperti di recente i versi contro un maestro di Longone, G. Volpini mentre, da ultimo, il ritrovamento della dedica a Fauriel (36 sciolti) in un volume di opere di Alfieri (Manzoni inedito, a cura di F. Gavazzeni, Milano 2002). Tra le cose perdute una "novellaccia in ottave […] pessima", richiesta a un amico.

Il primo impegno "religioso" risale all'aprile 1812. La data è nel manoscritto di Brera degli Inni sacri, nella prima pagina con il primo abbozzo della Risurrezione, recante in fine la data 23 giugno. Seguono i fogli con gli altri inni e le date di inizio e fine: Il nome di Maria, 6 nov. 1812 - 19 apr. 1813; Il Natale, 15 luglio - 29 sett. 1813; La Passione, 3 marzo 1814 - ottobre 1815.

Gli argomenti e l'ordine degli inni fanno pensare a un'ispirazione che trasceglie le ricorrenze per coincidenze di tempi: aprile è mese pasquale per calendario; Il Natale fu cominciato subito prima della nascita del figlio Pietro; La Passione fu scritta quando Napoleone "cadde, risorse e giacque"; Il nome di Maria non rivela coincidenze tra scrittura e calendario. I quattro Inni, stampati entro il 20 nov. 1815 a Milano (la seconda edizione uscì a metà 1822), ebbero scarso successo e poca attenzione (lodati dallo Spettatore, furono recensiti con ritardo da G.B. De Cristoforis nel Conciliatore del 4 luglio 1819). L'ultimo, La Pentecoste, cominciato il 21 giugno 1817, interrotto più volte, radicalmente modificato e compiuto tra settembre e ottobre del 1822, fu stampato sempre a Milano alla fine di quell'anno; nel 1823 gli Inni sacri furono riuniti in ordine liturgico, cominciando da La Pentecoste.

La novità fu clamorosa non per l'argomento né per l'aspetto metrico, ma per la nuova configurazione del soggetto: all'io (eroico, lirico o satirico che fosse) della poesia tradizionale subentrava un io collettivo senza tratti sociali determinati: un io/noi non definito per funzione poetica, latore di una promessa di redenzione. Cose, oggetti e vicende sacre sono caratterizzati con nuova sicurezza storica e realistica. "J'ai tâché de ramener à la religion ces sentiments nobles grands et humains qui découlent naturellement d'elle", scrisse a Fauriel inviandogli il testo degli Inni il 25 marzo 1816 (Carteggio Manzoni - Fauriel, p. 199). I sentimenti sono nobili, grandi e umani in sé: riportarli alla religione è leggerli come valori cristiani per origine e storia.

Alla caduta di Napoleone il M. si schierò per l'autonomia del Regno d'Italia, firmando il 19 apr. 1814 la petizione dei milanesi per la convocazione dei Collegi elettorali. Il 20 il presidio di folla al Senato finì col linciaggio del ministro G. Prina nei pressi della casa di via Morone in cui i Manzoni erano appena entrati. I firmatari, aristocratici come F. Confalonieri o proprietari avversi ai Francesi come il M., non trovarono ascolto. A posteriori il M. motivò la propria partecipazione al moto con la canzone Fin che il ver fu delitto (poi Aprile 1814), iniziata il 22 aprile ma inedita fino al 1883 (in Opere inedite o rare, a cura di R. Bonghi, I, Milano 1883, pp. 145-150), chiamando in causa il risentimento per il regime caduto e l'autonomia promessa dai vincitori. Un anno dopo, rimaste deluse le attese, il tentativo di Gioacchino Murat d'invocare il sostegno italiano in nome della nazione sedusse per breve tempo il M., che scrisse il frammento di canzone Il proclama di Rimini, reso noto nel 1848.

Il M. soffrì particolarmente la sconfitta di Napoleone a Waterloo. Ciò aggravò i sintomi di nevrosi già affiorati a Parigi: vertigini e agorafobia, per testimonianze sue e d'altri. Legato al Paese, rifiutò di collaborare alla Biblioteca italiana, dicendosi, nella lettera a G. Acerbi del 26 ag. 1815, "sempre risoluto di non entrare in qualsivoglia associazione letteraria" (Lettere, I, pp. 145s.). La scelta gli servì per tenersi poi libero di fronte a ogni richiesta sgradita o a onorificenze.

Assorbito il trauma, a cavallo tra il 1815 e il 1816 il M. aprì il fronte del teatro tragico. Misurarsi con la tragedia era una sfida forte, considerando anche la discussione recente in Germania e Francia, che aveva avuto come protagonisti la Staël del saggio Sull'utilità delle traduzioni e Sismondi con De la littérature dans le Midi de l'Europe. Sulla scia delle teorie romantiche il M. criticò la tragedia di tradizione (Corneille e Racine in Francia, S. Maffei e Alfieri in Italia) e aprì al dramma di W. Shakespeare e Fr. Schiller. Contro le regole del teatro classico, attaccò le unità di tempo e di luogo che strutturavano i testi in nome della verosimiglianza e sostenne, d'accordo con A.W. Schlegel, modi di costruzione del testo che accordavano libertà all'autore. Il M. affermava, così, la funzione etica e sociale del testo teatrale, mentre la libertà dell'autore diceva l'intimo vero degli uomini nel momento del loro confronto con la storia.

A chiusura del biennio, riprendendo i contatti con Fauriel nelle tre lettere del 1816, il M. sembrava un altro uomo. Se in quella del 30 gennaio - che portava tre copie degli Inni, di cui una per l'abate Grégoire da parte di Giulia - diede notizie della famiglia e scrisse dei propri mali ("mais il me paraît être en chemin d'en guérir"), in quella del 25 marzo rievocò i tempi di Meulan, confessando i disturbi nervosi ma anche l'entusiasmo per il lavoro (una tragedia dedicata a lui, "son meilleur ami").

Il M. sentiva che l'"imagination relativement aux idées morales", come Fauriel aveva detto, "se fortifie avec l'âge à la place de se refroidir". Ciò era avvenuto "après avoir bien lu Shakespeare" e ciò che di teatro si era scritto di recente, e "après y avoir songé". I drammi di Shakespeare (letti nella traduzione francese di Pierre Le Tourneur) erano dunque i modelli. Esperienza letteraria e cultura morale aprivano il tempo delle opere nuove, con un metodo che si sarebbe rivelato valido fino al romanzo: il M. partiva da un genere di cui discuteva le regole d’uso e identificava un tema innovativo nel campo teorico per ridefinire la forma dell’opera. Altra costante la storia, dimensione di verità e condizione di poesia. Il 15 genn. 1816 è la data sulla prima pagina dell’abbozzo del Conte di Carmagnola.

La vicenda era in Sismondi: il condottiero Francesco Bussone detto il Carmagnola, assoldato dai Veneziani, batte per loro il duca di Milano ma, sospettato di tradire i loro interessi, è imprigionato a tradimento e messo a morte. Per la tragedia il M. teorizzò e usò il coro – luogo di espressione dell’autore – a esecrare le vecchie guerre tra Italiani. Il tema poteva considerarsi d’attualità dopo le guerre recenti, ma l’idea tragica rimane legata all’interpretazione della storia come affermazione della dignità dell’uomo (singolo e nazione) e della libertà.

Il lavoro sul Carmagnola durò fino al settembre 1819. Mentre lo scriveva il M. compose la Pentecoste, iniziata nel giugno 1817 e sospesa alla definizione di 10 strofe, poi rifiutate. Nel 1818 il Carmagnola fu a sua volta sospeso, uscendo poi, per cura di E. Visconti, all’inizio del 1820, mentre il M. si trovava a Parigi.

La famiglia era rapidamente cresciuta dopo la nascita della primogenita Giulia: nel 1811 Luigia Maria Vittorina, vissuta poche ore; Pietro Luigi, primo maschio, nel luglio 1813; Cristina nel luglio 1815; Sofia nel novembre 1817; Enrico nel giugno 1819; nell’agosto 1821 nacque Clara, vissuta due anni; 13 mesi dopo, Vittoria; Filippo nel marzo 1826 e Matilde nel maggio 1830, quando Enrichetta aveva 39 anni. Ai figli non mancarono affetto e premura, inusuali anche in famiglie ricche come quella dei Manzoni. Ma l’attenzione principale in casa era riservata al M., coi suoi malesseri e i travagli, tra censura e autocensura.

Il desiderio del M. di tornare a Parigi, rimasto tale a causa del rifiuto del passaporto, era cresciuto fin dal principio del 1817, durante la stampa degli Inni. È a quest’altezza che si colloca l’oscura crisi che investì il M., su cui ci si è interrogati a partire dalla lettera di Tosi a Degola del 14 giugno 1817: il mittente diceva superato un «errore gravissimo, che [il M.] andava a commettere» (Carteggio di Alessandro Manzoni, I, p. 402), ma esprimeva il timore che Parigi ne avrebbe messo a rischio l’equilibrio. Vinta la delusione, il M. abbozzò La Pentecoste e compose l’Avviso che a dicembre 1817 precedette (in forma anonima) la traduzione dell’Essai sur l’indifférence en matière de religion di F.-R. de Lamennais. La lettura delle altre parti dell’Essai nel 1823 rese infine chiara l’ispirazione integralista dell’autore, che allontanò quanti non gradivano misture di trono e altare. Il M. non tradusse l’opera (che si fermò al primo tomo, diversamente da altre italiane); ma il suo nome entrò nel carteggio tra Tosi e Lamennais.

Nel 1818-19 il M. scrisse Sulla morale cattolica. Osservazioni (Milano 1819), opera apologetica dell’etica cattolica rivolta, in particolare, contro le critiche mosse da Sismondi nell’ultimo capitolo del XVI volume dell’Histoire des Républiques italiennes du Moyen-Âge, uscito all’inizio del 1818. Malgrado l’importanza del tema, è dubbio che il M. abbia scelto da sé la difesa del cattolicesimo e, infatti, è documentato un suggerimento di Tosi. Si tratta della prima prosa del M. su un grande tema ideologico culturale.

Riprendendo la critica fiorita dal Cinquecento sull’Italia postcomunale, mescolata alle polemiche riformate e a critiche illuministiche, Sismondi affermava non esservi popolo in Europa tanto occupato in pratiche religiose e meno osservante delle virtù prescritte. Il M. rispose in difesa del cattolicesimo come sistema di valori rivelati, e di una perfezione che risponde ai bisogni morali dell’uomo: considerando la «legge divina», accade che «l’intelletto passi di verità in verità […] tutto si spiega col Vangelo […] e le cose visibili s’intendono per la notizia delle cose invisibili» (Al lettore). Vero che ci sono abusi ed errori più o meno gravi; ma «bisogna chieder conto ad una dottrina delle conseguenze legittime che si cavano da essa, e non di quelle che le passioni ne possono dedurre» (p. VII). Deviazioni e colpe non condannano il cattolicismo, confermano la corruzione della natura umana; rimedi sono le virtù e l’adozione dei modi di penitenza che risanano. L’opera è singolare, anzi unica per il tono rispettoso e un argomentare che, celebrando i principî, ammette le inadempienze. Anni dopo Sismondi confessò a T. Mamiani: «il vostro Manzoni argomenta bene, ma i vostri preti lavorano male; e poniamo pure che il règolo non sia distorto, la Curia lo storce ella al bisogno e avvezza gli occhi del volgo a falsar le misure» (cfr. M. e Leopardi, p. 344). Calda accoglienza per solidarietà d’opinione ottenne il M. dalla Chronique religieuse di Grégoire, che nel gennaio 1820 recensì le Osservazioni sottolineandone l’aspetto edificante.

Tra il 1816 e il 1819 il M. stabilì relazioni con ambienti d’opposizione al governo austriaco. Legato a Confalonieri, buon conoscente di L. Porro Lambertenghi, L. Arborio Gattinara di Breme, G. Berchet, P. Borsieri, G.B. De Cristoforis e di S. Pellico, forte estimatore della «cameretta» di C. Porta (con cui fu in rapporto, e di cui ebbe notizie dal 1817 tramite T. Grossi, Gaetano Cattaneo, G. Torti, L. Rossari e Visconti), vi è tuttavia penuria di documenti circa la collaborazione. Nota è la renitenza del M. a gruppi e sette, ma si può anche richiamare l’avversione di Tosi, che voleva evitare alla coppia turbamenti esterni. Tra i segni di rinsavimento del M. dopo la crisi del 1817 Tosi cita espressamente il non parlare più «di cose politiche», e «attendere ai […] doveri cristiani» con vantaggio dei suoi. Il M. non negò appoggio nemmeno al Conciliatore, cui era abbonato: ma si trattò, in realtà, di un consenso esterno e silenzioso (forse con gradimento della rivista stessa). Peraltro l’atteggiamento di estremo riserbo non fu destinato ai familiari né agli amici più cari; alla fine del 1818 inviò a Fauriel le Idee elementari sulla poesia romantica di Visconti, da poco comparse nel Conciliatore.

Il foglio fu pubblicato fino all’ottobre 1819, esposto a una pressione che si avvertì bene al di fuori della cerchia dei redattori. Non è noto sapere quanta ne avvertisse personalmente il M. che si dispose, quell’estate, a quel viaggio in Francia cui aveva rinunciato nel 1817. In luglio furono stampate le Osservazioni; il 23 dello stesso mese gli fu rilasciato il passaporto; al 26 data l’ultima lettera a Fauriel prima del viaggio, in cui si parla del libro e del Carmagnola giunto ormai quasi al termine. All’urgenza di finire i lavori in corso prima della partenza, si aggiungevano propositi d’ordine pratico – vendere Brusuglio e la casa in città –, espressi nella corrispondenza con Giulio Beccaria.

I Manzoni (compreso Enrico di soli tre mesi) lasciarono casa il 14 sett. 1819 e giunsero a Parigi il 1° ottobre. Il 7 si recarono a Meulan dalla Condorcet, dove si trattennero fino al 20 novembre. A Parigi risiedettero vicino al Luxembourg, donde partirono per Milano il 25 luglio 1820, rincasando l’8 agosto.

Il primo periodo parigino trascorse serenamente; da febbraio, invece (anche per l’assassinio di Carlo Ferdinando d’Artois, duca di Berry) e ancor più dal 10 maggio, data di un évanouissement grave, la salute del M. cominciò a peggiorare, tanto da dover affrettare il ritorno, anche per i richiami di Tosi, cui Enrichetta rispose con forza. Molti furono gli incontri di rilievo durante il soggiorno parigino: alcuni con Grégoire, malgrado gli impegni di questo come deputato e le polemiche suscitate dai reazionari.

Il giudizio del M. sul clero integralista – l’accusa suona di «pelagianismo trionfante» – si legge in una lettera a Tosi datata 7 aprile. Più felice fu, senza dubbio, il rapporto con gli storici del milieu liberalmoderato, che ponevano il tema dell’origine delle nazioni nell’alto Medioevo: F. Guizot e A. Thierry, allievi di Fauriel e impegnati nel rivendicare il ruolo dei popoli gallo-romani antenati della roture (il terzo stato), oppressi dai Germani, generatori di valori democratici e liberali. Un utile contatto fu quello con V. Cousin, per un decennio riferimento del M. circa la conoscenza sul dibattito filosofico, e quindi amico per la vita.

Intanto Il conte di Carmagnola e la sua prefazione suscitavano polemiche: in Italia si registrarono attacchi di F. Pezzi nella Gazzetta di Milano (cui risposero Porta e Grossi), in Francia intervenne F.S. Salfi nella Revue encyclopédique. Frutto di tali discussioni fu l’abbozzo di un testo sul nuovo teatro, che faceva tesoro di riflessioni a partire dai Materiali estetici degli anni precedenti. Il testo, stampato nel 1823 nell’edizione parigina Bossange delle tragedie tradotte dal Fauriel, dopo la lunga maturazione che coinvolse il M. e Fauriel, e che, pare, ebbe prima della stampa un lettore come Stendhal (Christesco, pp. 49-51), fu la Lettre à M.r Ch*** sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie: il «manifesto più intenso del romanticismo italiano» (Nencioni, La lingua del M., p. 139).

Si tratta della risposta a Victor Chauvet, sostenitore di posizioni liberali su vari temi, recensore del Carmagnola nel Lycée français del 1820. La Lettre non fu testo «d’occasione»: vi ebbe luogo, con i temi delle «unità», quello cruciale della corruzione derivante dalla rappresentazione delle passioni, nonché il tema nuovo della storia come condizione della poesia.

Tornato a Milano, il M. lavorò senza sosta fino al giugno 1827, data della prima edizione (la cosiddetta «ventisettana») dei Promessi sposi.

All’altezza del 1820, il M. era pronto a continuare la scrittura teatrale, interessato alla storia medievale e ai testi narrativi che vi si ambientavano. Una lode di W. Goethe per il Carmagnola, non attesa e perciò più gradita, fu di incoraggiamento e salvaguardia contro possibili censure. La fama europea mise il M. in vista e non ne compromise l’immagine, di puro poeta. Malgrado che, con la fine del Conciliatore e la morte di Porta (nei primi giorni del 1821), la casa del M. restasse unico luogo di innovazione, la sua riservatezza non mutò; i maturi G. Cattaneo e Torti, il coetaneo Visconti, Grossi e Rossari, legati alla «cameretta» più che al periodico, mantennero l’accesso, ma senza funzione politica. Unico «conciliatore» nominato in lettere coeve fu G. Berchet che, anche perché noto a Fauriel, fino alla fuga del dicembre 1821 tenne assidui contatti col Manzoni.

Il 17 ott. 1820 il M., per tramite di Cousin, fece giungere una lettera a Fauriel. L’invio privato consentì di allegare alla lettera testi rischiosi: un elenco di articoli del Conciliatore, alcuni testi romantici e antiromantici, nonché il saggio di Goethe sul Carmagnola. Documenti del passato recente, servivano per un lavoro di Fauriel sui romantici lombardi. Il M. allegò pure l’Ildegonda di Grossi, lodando l’autore e la novità dell’opera. Dando notizia dello studio per un’altra tragedia, non su «Adolphe» (Ataulfo), ma su «Adelgise», ultimo re dei Longobardi, aggiunse di non avere materiale per spiegare i rapporti tra «conquérans barbares» e «peuples indigènes subjugués et possedés». Il primo manoscritto di Adelchi sarà datato al 7 novembre.

La scrittura di Adelchi si intrecciò con quella del Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia. I tempi, desumibili dai manoscritti, furono: novembre 1820 - febbraio 1821, 2 giugno - 17 luglio, e, dal 2 agosto al 21 settembre l’atto V, con revisione del progetto, che si rifletté sull’intero dramma dai «primi di agosto 1821»; il 6 marzo 1822 la tragedia fu consegnata al copista, dopo la stesura dei cori (13 dic. 1821 - 19 genn. 1822). Più di un mese servì per risistemare tutto.

Adelchi mette in scena l’ultimo scontro tra i regnanti Longobardi, che avevano schiacciato l’Italia, e Carlo re dei Franchi, che li sconfisse e li sostituì nel dominio. La vicenda è inscenata quale storia dei figli di Desiderio, Adelchi ed Ermengarda, protagonisti-vittime: uno che vede con lucidità la logica di forza impersonata dai re, e muore, patendo un torto che non vuol più fare ad altri; l’altra che, dopo il ripudio subito da Carlo (che ama ancora), muore offrendosi vittima che sconta le colpe della sua stirpe di oppressori. La tragedia mostra, nell’intreccio e nel disegno dei personaggi, una sensibilità nuova e quasi un sapore di romanzo («dramma romanzizzato» lo definisce Lonardi), e una traccia cristologica, nella figura del sacrificio espiatorio da cui solo si attinge una possibile salvezza.

Impegni coevi all’Adelchi, d’occasioni e generi vari, sono accomunati dal rapporto tra storia e poesia. La prima occasione fu data dai moti del 1821, presto soffocati, che produssero molte vittime giudiziarie. A commento il M. compose l’ode Marzo 1821, distrutta dopo lo scacco, mandata a memoria e pubblicata nel 1848 a Milano con Il proclama di Rimini nell’opuscolo Pochi versi inediti.

Lo sfondo è dato dallo scontro tra dominati e dominanti e dalle logiche di forza, che hanno fondamento nell’età longobarda. Il tono parenetico evoca la profezia che trova in Dio il garante della liberazione, ma si motiva pure con altri temi profondamente storici.

Altro testo d’occasione fu Il cinque maggio, scritto in pochi giorni, quando la Gazzetta di Milano diede il 16 e 17 luglio notizia dell’avvenuta morte di Napoleone e della benedizione voluta dal morente.

L’«ultima ora dell’uom fatale», suggello di una vita privata che aveva acquistato valore universale, conteneva il senso misterioso dell’amore di Dio. Davanti alla storia universale, di cui Napoleone era interprete non valutabile («fu vera gloria?»), sta l’identità di cui la poesia parla, la persona sommamente degna di rispetto perché riscattata attraverso il crocefisso, «disonor del Golgota», che le fa scudo. D’ispirazione urgente, che porta a un’esecuzione senza pentimenti, ripensamento della storia europea, è il coro della tragedia vissuta dal poeta e dai contemporanei. Componimento «misto di storia e di invenzione» in cui si esercita la facoltà poetica, non di un individuo, del suo genio: la forza intima che ha taciuto finché prevalsero motivi d’opportunità, e «sorge commossa» a tracciare la vicenda, universale pure nei presupposti individuali. Il cattolicesimo antipelagiano del M., che celebrava la potenza della grazia divina, riscosse grande consenso emotivo, legato all’attualità e alla forza del racconto, storia di un’esperienza di vitalità non riducibile alla regalità d’ancien régime. Adeguata alla sensibilità contemporanea è anche la proiezione della vicenda nello spazio del mistero, che pone la grandezza sul bordo del nulla.

La stesura finale del Cinque maggio fu portata alla censura in due copie. Il M. fece conto che, rifiutato il permesso, una copia fosse restituita, l’altra diffusa senza responsabilità sua. E l’ode presto circolò in Europa. La prima stampa fu a Lugano, luogo franco per testi a rischio. Di lì cominciarono storia e gloria, per un testo (lodato e tradotto da Goethe) che il M. poté vedere stampato in Italia nel 1823 a Torino.

Altri testi non furono occasionali, ma progetti di respiro: La Pentecoste, già citata, fu il più ideologico degli Inni, perché invocava la dignità dell’essere umano e l’universalità della comunione di cui la Chiesa è «figura». L’evento pentecostale riscatta la schiavitù (la tratta, di cui si parla in Europa e America) e la povertà di tanti, ed è messaggio che non esclude stato o età. Chi contempla l’intervento assume la voce degli uomini per cui la preghiera si leva.

Il 24 apr. 1821 il M. cominciò a scrivere un romanzo. Aveva letto quelli di Walter Scott (in francese), aveva riflettuto sul rapporto tra la storia, accertamento di fatti umani senza privilegio dei grandi, e la poesia, ritratto veridico dei sentimenti dell’uomo. La riflessione, applicata alla tragedia nella Lettre à M.r Ch***, valeva pure per la narrazione romanzesca su base storica: «verosimiglianza e interesse, nei caratteri drammatici come in ogni espressione poetica [comme dans toutes les parties de la poésie], derivano dalla verità», storica e psicologica. A Fauriel scrisse che, terminato Adelchi, si sarebbe dedicato al romanzo, o alla tragedia su Spartaco (per cui aveva raccolto materiale e predisposto la sceneggiatura), a seconda dell’animo.

Fece la scelta più forte: non avrebbe più messo in scena eroi «tragici» per funzione e profilo sociale, ma persone di popolo: non Ninetta né Marchionn, cittadini, ma Lucia e Fermo, operai della seta dalle valli vicine; non nel presente, di cui non si parlava con libertà, ma nel passato prima degli Austriaci, non troppo lontano. La storia è quella di un matrimonio d’amore, che un signorotto proibisce minacciando un curato pusillanime, e che si potrà celebrare solo quando sulla scena d’inizio (un paese vicino a Lecco) e sull’intero territorio lombardo saranno trascorsi gli anni (1628-31) e i drammi della carestia, della rivolta, della guerra, della peste. Ricerche sul Seicento il M. aveva fatto tra la fine del 1820 e l’inizio del 1821, lo testimoniano richieste di libri all’amico G. Cattaneo, che glieli prestava dalla «grande Biblioteca» di Brera.

Degli schemi e appunti preparatori per la struttura dell’opera, pochissimi sono giunti sino a noi; ci sono ipotesi di scadenze per la conclusione di parti del romanzo, spesso mancate. Restano i manoscritti cui fu affidato il lavoro di composizione, correzione, riscrittura, che copre più di sei anni, dal 24 apr. 1821 al 12 giugno 1827, quando l’opera fu messa in commercio in tre volumi, i primi due datati 1825, il terzo 1826, da Vincenzo Ferrario, già editore delle tragedie e della Pentecoste. La composizione del romanzo (che non ebbe subito titolo: fu Visconti a chiamarlo, in una lettera a G. Cattaneo, Fermo e Lucia) cominciò con due capitoli e un’introduzione, 24 aprile - fine maggio 1821. Seguì la pausa di Adelchi, e solo il 29 maggio 1822 il M. si disse a Fauriel «enfoncé dans mon roman»; a novembre era finito il secondo dei tomi previsti. La fine giunse il 17 sett. 1823 (data nel manoscritto): il M. aveva steso 37 capitoli in 4 tomi, ognuno dei quali numerava in serie separate i capitoli, assumendo così precise delimitazioni.

Finita la scrittura del romanzo, il M. isolò un’appendice, che iniziava da ciò che si diceva, alla fine del capitolo 4 del tomo IV, «sulla colonna infame», prima storia degli untori, supposti colpevoli di diffusione della peste. E vergò un’altra introduzione. Il 22 settembre, cinque giorni dopo la conclusione del romanzo, scrisse al marchese Cesare Taparelli d’Azeglio, autorevole esponente cattolico piemontese tradizionalista, una lettera «sul romanticismo» inteso come indirizzo letterario che si integra col pensiero religioso moderno (Lettere, I, pp. 315-345, n. 191). Il testo, che doveva rimanere privato, entrò piuttosto tardi in circolazione come decisiva espressione della poetica manzoniana.

Fu così che il M. dedicò i mesi successivi al tema della lingua: la questione, già precedentemente emersa nell’incontro con Fauriel (la prima lettera a lui, 9 febbr. 1806, dice l’italiano «quasi lingua morta»), si ripropose nel dar voce a personaggi di grande varietà sociale e culturale, quasi tutti lombardi che parlano tra loro.

Riaffiorato in testi di puristi (A. Cesari) e di innovatori moderati (Monti e G. Perticari), il tema era tornato di cogente attualità nel primo Ottocento. Ciò «pone da subito e per sempre il problema […] della lingua, in una prospettiva diversa e a lungo lontana dai contemporanei, perché coinvolge i destinatari del messaggio letterario, il pubblico, una intera società, per ragioni storiche nazionali» (Stella - Vitale, Introduzione a Scritti linguistici inediti, p. XXXIII). Del discorso linguistico abbozzato tra 1823 e 1824 il M. bruciò quasi tutto, e ciò che resta non basta a definire precisamente la posizione, eclettica quanto a modello, assunta al momento.

Seguì per il M. un lavoro di correzione e riscrittura, cui furono associati per un periodo Fauriel (ospite dei Manzoni dal novembre del 1823 all’aprile del 1824, e dall’estate all’ottobre del 1825) e Visconti.

La più recente proposta riguardo alla storia del romanzo (Isella, 2006) fissa la «Prima minuta» e la edita col titolo Fermo e Lucia; definisce una fase seguente di «Seconda minuta» (datata: «1824») con titolo Gli sposi promessi, pensato per la stampa e modificato appena prima dell’entrata in tipografia; si impegna alla prossima nuova edizione critica de I promessi sposi sulla base della stampa Ferrario del 1827.

Il grande tour de force, dalla prima minuta a I promessi sposi, affrontando la censura e il lavoro in tipografia, è stato illustrato dai maggiori studiosi. A distanza di tempo il M. raccontò al genero G.B. Giorgini il piacere della prima scrittura. La fatica della scrittura finale si avverte da molti documenti coevi.

È opinione diffusa che Fermo e Lucia e I promessi sposi possano considerarsi romanzi diversi; i due testi narrano le stesse vicende ma differiscono per altri aspetti: la successione dei segmenti narrativi in Fermo e Lucia non rivela speciale cura per la proporzione e armonia tra i tomi; l’autore si esprime senza filtri ironici né scrupoli di spazio (Fermo e Lucia è saggistico quanto narrativo); l’espressione di concetti religiosi o etici è frequente; i comportamenti condannabili si narrano liberamente. Ciò ha indotto a considerare Fermo e Lucia «un’esperienza narrativa interrotta» (Varese). E non è mancato chi abbia preferito il piglio di Fermo e Lucia all’andamento armonioso, «virgiliano», dei Promessi sposi.

L’attesa del romanzo era cresciuta nel tempo e nello spazio: da Thierry e altri, in Francia erano venuti nel 1824 segni d’attenzione per le soluzioni che – per il genere del romanzo storico – il M. avrebbe adottato (Christesco), quasi fosse in gestazione un nuovo modello. Inviato agli amici o venduto da metà giugno del 1827, I promessi sposi ottenne enorme successo; le prime edizioni, quella del Ferrario curata dall’autore (2000 copie) e quelle stampate in fretta da altri, risultarono presto esaurite.

A metà luglio il M. partì con la famiglia (tranne l’ultimo nato) per la Toscana, meta la cui scelta, di interesse per la questione della lingua, teneva anche conto di legami recenti come quello col granduca Leopoldo II (un esemplare del romanzo gli era stato inviato il 4 luglio). Il viaggio, con soste a Genova e Livorno, sarebbe stato utile anche a Enrichetta, stremata dalle gravidanze. Ai motivi pubblici e privati si aggiungeva quello di stabilire legami con G.P. Vieusseux e G. Capponi, rafforzando così una cultura nazionale articolata, realistica, capace di superare le frontiere.

Firenze – dove rimase dal 29 agosto al 7 ottobre – fu per il M. luogo di contatti lusinghieri. Il gabinetto Vieusseux fu sede di vari incontri: G.B. Niccolini, M. Pieri, P. Giordani, G. Micali, G. Montani, G. Cioni (cui si associa il nome di G. Borghi); N. Tommaseo, G. Leopardi, T. Mamiani e altri collaboratori di riviste di Vieusseux come A. Benci, stranieri come A. de Lamartine e F.K. von Savigny. Il M. scelse anche chi poteva aiutarlo nella correzione dei Promessi sposi secondo l’uso di lingua dei fiorentini colti. Altre consulenze (G. Libri) furono trovate più tardi.

Seguì la nomina alla Crusca come socio corrispondente, decisa nel dicembre e sanzionata dal granduca: cosa notevole per chi passava da «capo setta» dei romantici milanesi, e non indolore, date le differenze di tesi linguistiche. La consacrazione, di cui si discuteva, non fu solo riconoscimento di una posizione eminente allo scrittore che dava un romanzo europeo all’umile Italia da tanti secoli senza riscatto. La Toscana dell’Antologia si accreditava a sua volta stringendo nuove relazioni con la Lombardia.

Di ritorno a Milano il M. riprese la correzione linguistica, giovandosi di strumenti più raffinati rispetto a quella cominciata dopo la «prima minuta».

In Italia non mancarono, con le approvazioni, le critiche dei tradizionalisti. Tutti avvertirono la novità dei Promessi sposi, e interventi positivi vennero da P. Zaiotti, che però avanzò riserve sui protagonisti, da A. Cesari e da P. Giordani, che, senza recensire in proprio, puntarono su alcuni aspetti del romanzo (quello religioso il primo, quello politico l’altro). Salfi contestò la presenza, a fronte di «grands personnages», di altri «si vulgaires et si bas»: Renzo, Lucia e Agnese. G. Salvagnoli Marchetti deprecò in Gertrude «tanta pittura di scostumatezza e sceleraggine». Notevoli gli interventi di Tommaseo, pieno di riserve, e di G. Scalvini. Leopardi, che apprezzò il M. nei colloqui fiorentini («un bellissimo animo e un caro uomo», confidò al padre il 17 giugno 1828), avvicinatosi ai Promessi sposi con diffidenza, giudicò infine il romanzo «veramente una bell’opera» (ad A. Papadopoli 25 febbr. 1828): lettore troppo attento per negarne la qualità, ma di troppo diversa opinione per sentirla vicina. Riserve politiche gli attribuì Mamiani, a carico dell’ambientazione spagnola che riteneva filoaustriaca, e del «sugo» utile per «una riforma morale», non tale «che basti a levar su dal fango una nazione invilita e spirarle ardimento» (M. e Leopardi, pp. 347 s.). Goethe, entusiasta dei primi due tomi, apparve deluso dagli inserti storici del terzo, che a suo giudizio soffocavano la poesia.

Negli anni successivi il M. si erse a teorico equanime sul tema nel discorso Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione (poi, in Opere varie, Milano 1850), forse il lavoro che meglio esprime il suo spirito di riesame.

Nel romanzo storico – cui si possono accostare epica e tragedia, anch’essi generi misti – «c’è un’unità verbale e apparente», non una «unità razionale». Per la rappresentazione del vero il mezzo è la storia: su di essa il M. si sofferma con accenti ancora condivisibili in una grande apologia. La riserva espressa sul romanzo parve sorprendere persino lui se, pubblicando il saggio, ne additò la differenza con la Lettre precedente: «se ho mutato opinione, non fu per tornare indietro». Così il M. sottolineava la ricerca di verità, motivo comune ai due testi; ma c’era anche un distanziamento dai Promessi sposi, in nome del rifiuto del genere, già invecchiato rispetto al nuovo impegno per la realtà presente nel quadro europeo.

«Manzoni bleso, magro, alto, cortese molto […] è poco sano, e scrive poco», è l’appunto di Libri (13 marzo 1830) che lo visitò passando per Milano e fu eletto tra gli esperti per la lingua. Sebbene non produttivo quanto negli anni 1815-29, d’ora in poi il M. fu sempre più onorato da viaggiatori d’ogni provenienza, europei e americani di diverse nazionalità. I francesi in specie, malgrado l’esaurimento dell’amicizia con Fauriel, continuarono ad alimentare l’attenzione per lui.

Ebbe ancora in sorte di assistere a grandi eventi: dalla rivoluzione di luglio nel 1830 al 1848 italiano ed europeo, dalla nascita dello Stato unitario alla fine del potere temporale. In tale quadro non ebbe motivo di cambiare i suoi parametri di giudizio. La lunga maturità portò nuove conoscenze e frequentazioni sociali impegnative: un moderatismo più evidente, un coraggio morale meno aperto, ma, nei campi frequentati, l’intrepidezza nella capacità di motivare le sue scelte.

Mentre finiva I promessi sposi, strinse amicizia con A. Rosmini Serbati, che dopo un primo contatto nel marzo del 1826 fu introdotto presso i Manzoni da Tommaseo, loro ospite da tempo. Il M. gli fece leggere i due tomi del romanzo già stampati e ne ricavò un giudizio entusiastico (tranne che per la lingua, su cui Rosmini nutriva riserve di matrice puristica).

Da allora i due non si persero di vista, anche se non sempre si scrissero con frequenza; per il M., Rosmini fu punto di riferimento, filosofo e teologo di un cattolicesimo forte, con un tono di conservatorismo nobiliare, ma, dopo una fase reazionaria, critico del temporalismo e in dialogo col pensiero liberale. Il M. ritenne che con Rosmini nascesse una filosofia italiana, prima inesistente. Il convincimento lo aiutò a staccarsi dall’eclettismo di Cousin, poi a diffidare del nuovo idealismo di V. Gioberti. Tuttavia mantenne con Rosmini autonomia di giudizio (o resistenza a lasciarsi persuadere): dai dubbi iniziali sulla definizione dell’idea di essere, fondamento del Nuovo saggio sull’origine delle idee, a quelli sulle tesi federaliste che Rosmini sostenne nella crisi del 1848-49, alle riserve sul duro giudizio contro i nemici del potere temporale. Non è certo, ma è sostenibile che il M. abbia potuto leggere Delle cinque piaghe della S. Chiesa (uscito anonimo a Lugano e messo all’Indice il 30 maggio 1849) e ne abbia condiviso rilievi e proposte. Tuttavia i piani su cui i due affrontavano la crisi rimasero distinti.

L’opera del M. maggiormente segnata dalle idee rosminiane fu Dell’invenzione, (dialogo forse impostato nel 1848 e confluito anch’esso nelle Opere varie).

Tema ne è la cosiddetta «creazione» artistica, in realtà ritrovamento dell’«idea», «invenzione», «ab eterno in mente di Dio». La dottrina produsse un dialogo «più concertante che confutante» (Nencioni, Premessa a Scritti linguistici inediti, p. XXV), in cui si proclama un nuovo accordo tra ragione e fede: traguardo mai abbandonato e ora cercato in una gnoseologia teocentrica che integra la morale cattolica. Se la dottrina è pacificante, nell’ultima parte riappaiono J.-J. Rousseau, disinteressato, onesto, spinto da una metafisica erronea, e M. Robespierre, credente nella bontà dell’uomo, nato «senza inclinazione viziosa», e persuaso «che la sola cagione del male che fa e del male che soffre, sono le viziose istituzioni sociali». Altro oggetto di polemica è la massima di H.G. Riqueti de Mirabeau: «La petite morale tue la grande», detto che fa della trasgressione un atto sapiente, «della violazione del diritto un’opera bona». Il M. polemista produce risultati quando esce dalle formule e tocca i temi della contraddizione.

La morte di Enrichetta avvenne il 25 dic. 1833: per il M. la rassegnazione fu conquista durissima, non senza intime ribellioni. Ne fu prova il tentativo di un inno (1835), Il Natale del 1833, incompiuto, che avverte il «mistero della sorda e terribile onnipotenza divina» (Nencioni, Premessa a Scritti linguistici inediti, p. XXV), non formulato nelle Osservazioni sulla morale cattolica che insisteva sulla misericordia di Dio. L’anno dopo morì Giulietta, primogenita e moglie male amata di Massimo Taparelli d’Azeglio.

Se il M. era acutamente sensibile, non era però fragile. Nelle crisi trovava la capacità di adattarsi, con istinto fermissimo. Sapeva di essere uomo uxorius e sposò, il 2 genn. 1837, Teresa Borri, di 38 anni, vedova dal 1822 del conte Stefano Decio Stampa. Il matrimonio, che pur suscitò critiche nei suoi confronti, gli ridiede equilibrio psicologico ma cambiò nel profondo l’orizzonte familiare. Teresa (che portava con sé il figlio Stefano) prese la guida del ménage scalzando Giulia Beccaria, pur riluttante ma stanca, e si affermò nel ruolo di custode del Manzoni. Con difficoltà si definirono nuovi equilibri; sempre pronto a difendere Teresa, il M. preservò la riservatezza della famiglia e molte amicizie (non tutte), allargando le frequentazioni al côté Borri e Stampa, aristocratico e moderato. Il matrimonio durò fino alla morte di Teresa nel 1861, non senza un percettibile ispessimento delle distanze psicologiche fra i due.

Il gruppo familiare si disperse: i figli formarono nuove famiglie lontano da Milano e Brusuglio. Nel 1841 morirono Cristina, sposata con C. Baroggi, e Giulia Beccaria, custode di affetti e memorie; nel 1845 morì Sofia, sposa di Lodovico Trotti, nel 1856 a Siena Matilde, ultima figlia, lontana dal padre e desiderosa di rivederlo. Vittoria, che aveva sposato Giorgini nel 1846 e si era presa cura di Matilde, fu l’unica figlia che sopravvisse al Manzoni. Nel 1868 morì Filippo, ormai ribelle al padre.

Dall’aristocratica Teresa, con interessi d’arte e di novità, venne forse l’idea, o la spinta, a una nuova edizione dei Promessi sposi (Milano 1840-42), curata e intrapresa a sue spese dal M. con la collaborazione degli stampatori Guglielmini e Redaelli, illustrata secondo la moda per i libri più noti sui mercati d’Europa.

Per la prima volta un’iniziativa letteraria del M. si motivava dal lato economico. L’idea di illustrare (che s’aggiungeva alla nuova veste linguistica) prendeva atto che i romanzi arricchivano gli autori capaci di promuoverli; in più, il M. non aveva abbandonato il progetto dell’operetta in appendice ai Promessi sposi, il processo agli untori, vera novità.

Tutto ciò rimise in moto la revisione linguistica in senso fiorentino (tra i consulenti, due donne di ceto modesto, Emilia Luti e sua madre Giovanna Feroci, utili in particolare per il lessico e la fraseologia d’uso quotidiano), sollecitò lo spirito d’impresa, mise il M. davanti a una forma mista di narrazione. Le vignette, disegnate dal pittore F. Gonin e incise da vari artisti con una tecnica ancora rara in Italia, avevano lo scopo di dar pregio all’opera facilitando la lettura popolare e di rendere impossibili le contraffazioni.

Sul piano economico l’impresa fallì. Più di metà della tiratura (10.000 copie) rimase invenduta. Molti leggevano ancora l’edizione del 1827 (nella «quarantana» il fiorentino del M. suscitava resistenze anche più forti). La fortuna infine toccata alla «quarantana» (non nella forma illustrata, fino a oggi) non fu dovuta però solo all’accesso dei Promessi sposi tra i classici per la scuola. Al netto della polemica contro il fiorentinismo, le analisi comparative delle redazioni documentano la plasticità e la vitalità espressiva del romanzo: che un fiorentino del 1840 potesse cogliere in fallo il M. conta oramai poco.

L’edizione 1840-42 comprendeva la Storia della colonna infame, racconto dell’indagine, condanna ed esecuzione di alcuni pretesi untori, tra la fine di maggio e l’agosto del 1630. La Colonna infame comparve nel volume a stampa dopo il romanzo, di cui pareva far parte perché annunciata come un «opuscolo in fine del volume», e perché la parola «Fine», a chiusura del volume, stava dopo l’«opuscolo». Ma il frontespizio non allude alla natura di Appendice della Colonna infame, non c’è coerenza tra i toni narrativi dei due testi e nemmeno tra i registri: la Colonna infame carica di sentimenti d’orrore etico e religioso e il romanzo pervaso di complessa ironia.

In ciascuna delle tre stesure la Colonna infame appare un vertice nell’opera storica del Manzoni. Il genere non è il romanzo, ma la cronaca storico-saggistica. Vivono qui personaggi più che verosimili (in presa diretta dagli atti giudiziari, fonte del racconto) e oggetto della pietas del narratore. La tesi che pone la colpa nei giudici più che nella legislazione (che ammette la tortura, pure uso barbaro) prende peso nell’affermare la responsabilità dell’uomo, e, accanto, il mistero inattingibile della volontà divina. L’opera non ebbe successo, a prova del distacco del M. dal gusto corrente.

Dopo l’edizione Guglielmini-Redaelli, «celebre e sfortunata», il M. concordò con Redaelli la pubblicazione delle Opere varie, prevista in pochi fascicoli (8 o 9, uno al mese), a un prezzo modico. L’iniziativa riuscì, ma non in tempi brevi: l’ultimo fascicolo (le Osservazioni sulla morale cattolica, con molte varianti per influenza di Rosmini, e una grande giunta sulla morale utilitaristica) comparve nel 1855. Consapevole che le Opere varie non avevano l’attrattiva del romanzo, il M. tuttavia affidava loro la sua figura di intellettuale. Fu perciò assai attento nel rivedere i testi, dal punto di vista della lingua e da quello dei contenuti: le Osservazioni sulla morale cattolica, come il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica ebbero sostanza e forma diverse.

Nel 1845 il M. aprì un confronto legale con Felice Le Monnier, poiché l’editore aveva inserito nella collana «Biblioteca nazionale» I promessi sposi nella stesura del 1827. Il M., che s’avvaleva della convenzione del 1840 tra gli Stati italiani sui diritti d’autore, denunciò l’operazione. Pubblicò nel 1860 a Milano la Lettera all’economista G. Boccardo intorno a una questione di così detta proprietà letteraria, che ebbe posto tra gli allegati alla causa. E alla fine riuscì vincitore; patrono in un grado di giudizio era stato G. Montanelli. Il risarcimento ottenuto fu rilevante.

Quanto all’evoluzione sul tema della lingua, il percorso si snoda dalla soluzione del problema della prassi linguistica per I promessi sposi 1840-42 alle tesi esposte in Sulla lingua italiana. Lettera a Giacinto Carena (26 febbr. 1847, apparsa nel fascicolo VI delle Opere varie) e Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla. Relazione al ministro della Pubblica Istruzione… (in Nuova Antologia, marzo 1868, pp. 425-441). Altri scritti confermano problemi e soluzioni. Il percorso rivela il travaglio del M. sul piano della linguistica teorica e il suo indirizzo innovativo rispetto alle tradizioni che interpretavano la lingua come tema estetico, non come fatto comunicativo di interesse civile.

Dopo il cosiddetto «libro d’avanzo», il M. fu costretto a usare, nella definizione della lingua dei Promessi sposi, una pratica contaminatoria: cercare le parole nel Vocabolario della Crusca, nel Vocabolario milanese-italiano di F. Cherubini, negli autori toscani di ogni secolo. Il primato storico della lingua toscana (e di quella fiorentina) gli fu presto presente, tra il 1824 e il 1825. Qualcosa più che una ipotesi è per tali anni l’esistenza di «una fonte orale» toscana, di conoscenza di Grossi e di Rossari (Stella - Danzi, p. 1002). Accordi tra toscano e lombardo attirarono l’attenzione del M. a lungo, fino agli anni Trenta. L’ideale di questa fase era una lingua comune, fatta di parole e modi esistenti in toscano e corrispondenti in altri dialetti.

Non è facile stabilire il momento nel quale la lingua toscana (con le varietà locali e sociali caratterizzanti) fu adottata senza riserve come sola e vera lingua degli Italiani. Quel momento si fissò al tempo di ideazione e di reiterati tentativi di scrivere Della lingua italiana, «inconcluso» tra «un vasto materiale eterogeneo» anteriore al 1830 e cinque «redazioni» su cui, con interruzioni, l’autore si impegnò fino a dopo l’Unità. Si ritiene che la scelta radicale del fiorentino dell’uso colto debba essere collocata verso la metà degli anni Trenta.

Ma questo fu soltanto l’aspetto relativo alla decisione che la nazione (ancora divisa) doveva prendere sullo strumento della comunicazione tra le sue storiche componenti. Ciò che riuscì al M. fu in realtà di convincere (con difficoltà, mai del tutto e in molto tempo) che l’«uso», il fisiologico movimento del linguaggio, dovesse essere promosso da problema della letteratura a soluzione e regola linguistica: è «di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le mutano». Appunto: indicato il luogo dell’«uso» più ricco, contrattualizzato, aderente alla conversazione, «diastratico», basta insediarsi in esso, dov’è il discorso necessario e sufficiente. Non quello della poesia, che è un «idioletto» ma quello del dialogo sociale, «democratico».

Recentemente Nencioni (Introduzione al Congresso internazionale sui problemi della lingua e del dialetto nell’opera e negli studi del Manzoni… 1985, Milano 1987) ha ben indicato ispirazione e risultati della scommessa del M., leggendo la ricerca dei recenti studiosi in un’ottica convergente. Forse alla nostra distanza la faglia che separò l’immagine di Firenze dai bisogni «politecnici» e dalla linguistica storica di matrice tedesca, può essere non diciamo saldata, ma letta in modo diverso. Se la proposta del M. non fosse stata fatta, c’è da chiedersi, allora, quale soluzione si sarebbe prospettata in vista di un necessario indirizzo politico.

La nuova entità statuale, unitaria e indipendente, liberale e, a scapito di sue preferenze ideali, monarchica, fu per il M. un fermo obiettivo. Ciò motivò il suo rapporto con gli intellettuali toscani (oltre a Vieusseux e Capponi, i giovani Montanelli, Giorgini – che sposando Vittoria fu il più vicino a lui – e G. Giusti) e, nel 1848, l’adesione alle Cinque giornate di Milano, culminata nella firma del proclama-appello del 22 marzo, in cui la Municipalità chiese l’aiuto dei «popoli e prìncipi italiani, e specialmente del vicino e bellicoso Piemonte». Data l’emergenza, nel M. non si avvertì traccia dei contrasti tra federalisti repubblicani e unitari filo-piemontesi. Filippo, il solo figlio che abitasse con lui (Parenti, 1973, p. 190), combatté con l’assenso del padre e fu catturato dagli Austriaci (e liberato a luglio). La famiglia donò materiali sanitari e beni di soccorso ai combattenti. In giugno il M. fece pubblicare a beneficio dei patrioti veneti i Pochi versi inediti del 1815 e del 1821.

Tornati gli Austriaci, il M. riparò prudentemente a Lesa, sul lago Maggiore, nella villa Stampa che aveva frequentato dal 1839 (anche per incontrare Rosmini a Stresa), e vi restò due anni. Rientrato a Milano, la sua posizione ferma e costante fu quella filopiemontese che appare dai rapporti con l’ex genero d’Azeglio, con i Provana di Collegno e altri esponenti della nobiltà piemontese, unitari e cattolici, conservatori più di lui. Nel 1850 incontrò Camillo Benso conte di Cavour: «Quell’omino promette assai bene», scrisse poi al Berchet (Lettere, II, p. 667). Fu lui il politico ammirato come autore dell’Italia unita (ibid., III, pp. 179 s.) e compianto per l’immatura morte.

Il 9 ag. 1859, «a titolo di ricompensa nazionale», il re Vittorio Emanuele II assegnava al M. una pensione annua di 12.000 lire: il fatto, carico di senso politico, andava ben oltre il riconoscimento culturale. Il M. (che non voleva accettare impegni, per esempio di presidente perpetuo dell’Istituto lombardo di scienze e lettere, che infine gli fu conferito a titolo onorario), neanche gradiva croci o cordoni cavallereschi, schermendosi dietro rifiuti opposti ad altri sovrani.

Il 29 febbr. 1860 fu nominato senatore. La monarchia aveva interesse a manifestare gratitudine al M., rappresentante di un’opinione cattolica consenziente all’impresa nazionale. Qui s’incardina l’altro aspetto radicale della posizione del M., il pensiero antitemporalista sotteso al voto favorevole alla creazione del Regno d’Italia (marzo 1861) e a Firenze come capitale provvisoria del Regno (novembre 1864). Per votare nel 1864 il M. resistette ai suggerimenti di d’Azeglio, degli Arconati e d’altri, che lo sconsigliavano.

Nel 1864 erano stati pubblicati due documenti papali, l’enciclica Quanta cura e il Sillabo. Chi era stato turbato dal cattolicesimo politico nel 1820, e nel 1832-33 aveva assistito alla condanna delle tendenze liberali di Lamennais, ascoltando su sé e su Rosmini le insinuazioni di giansenismo, per difendersi avrebbe dovuto pentirsi della propria vita. S’intende che non c’era posto nella sua prospettiva per il neoguelfismo né per il laicismo di Cavour. Lo Stato non poteva, secondo il M., assumere valori morali di dignità al pari della religione; no dunque, per esempio, al matrimonio civile, sebbene identità e sovranità dei popoli non fossero in discussione (su ciò era fondata anche la simpatia per Garibaldi, che lo visitò nel marzo 1862). Avverso al potere temporale, il M. accolse tuttavia con qualche sollievo il dogma dell’infallibilità pontificia del Vaticano I, giacché, come cattolico, aveva temuto che le condizioni per l’esercizio della prerogativa potessero limitare l’infallibilità.

La figura politica del M. ebbe risalto dal punto di vista simbolico per la risonanza e l’ispirazione delle sue convinzioni: eppure, anche in questo campo, il M. rimase sostanzialmente un isolato. I liberali toscani avevano posizioni diverse; i riformatori religiosi tra loro apparivano più radicali. Il movimento cattolico che avrebbe potuto trovarlo vicino per certi aspetti, era lontano dal nascere. I cattolici liberali erano dispersi, il clero per lo più integralista e d’opposizione.

L’ultima impresa del M. scrittore fu raccontare La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859. Il progetto non fu condotto a termine, e l’ipotesi di lavoro, irrealistica (si tratterebbe di due rivoluzioni simili, la seconda giusta perché moderata e non violenta), fu accennata ma non svolta.

Ciononostante il racconto dei primi passi della Rivoluzione di Francia si legge con piacere, per la tenuta della narrazione e la capacità d’analisi morale e psicologica dei moventi personali e di gruppo.

All’inizio del 1873 una caduta sulla scalinata di S. Fedele procurò al M. un trauma fisico cui seguì un intermittente ma rapido declino, dal M. sintetizzato così il 27 aprile: «sono passato dalla mia verde vecchiaia a una rapida decrepitezza» (Fiorentino, Gli ultimi momenti…, p. 264). Alcuni testimoni parlarono di interruzioni del controllo della coscienza, e di paure ossessive del giudizio divino. Quattro settimane prima di lui era morto il figlio Pietro, unico maschio che non gli avesse dato gravi preoc;cupazioni.

Il M. morì a Milano nel pomeriggio del 22 maggio 1873, dopo un ultimo lucido intervallo, e fu un evento di rilievo nazionale. Per il solenne funerale, una settimana dopo, furono mobilitati il Paese e la città.

Il commento più adeguato a definire il rapporto tra il M. e il suo tempo fu di Carlo Tenca, in una lettera a Clara Maffei: «gran cosa è la morte! Come appar più grande l’immagine del Manzoni ora che l’uomo è scomparso!» (Carteggio Tenca - Maffei, Milano 1973, II, p. 115). Alla sua morte le reazioni apparvero discordanti anche tra gli stessi cattolici. Lo spettacolare lutto pubblico, celebrato nel primo anniversario con la Messa da requiem di G. Verdi, metteva in risalto il patriota, ma attizzava le doléances dei cattolici intransigenti.

Per altri versi la poesia della nuova Italia ne aveva preso le distanze. Il romanzo, col suo «stile semplice», restava senza confronti, guida alla pazienza per gli umili e senza riguardi per i potenti; ma il genere aveva ormai preso altre vie. Accolto dal 1870 tra i classici per la scuola, lì fu confinato, con i prevedibili esiti contraddittori. Al tempo della morte, il contrasto su tesi e prassi linguistiche fu molto vivace, acutizzato dal Proemio di G.I. Ascoli del I fascicolo all’Archivio glottologico italiano del 1873 ma scritto nel 1872 (ora in G.I. Ascoli, Scritti sulla questione della lingua, a cura di C. Grassi, Torino 1974, pp. 3-45). La tesi manzoniana, ispirata a esigenze di pedagogia «democratica» nazionale, che faceva i conti con una storia senza centro né unità se non letteraria, fu presto ridotta a componente minore della teoria linguistica ufficiale. Recenti rivalutazioni delle posizioni del M. (A. Castellani, Consuntivo della polemica Ascoli - Manzoni, in Studi linguistici italiani, XII [1986], pp. 105-129) non hanno raccolto unanime consenso; ciò non diminuisce il valore della loro ispirazione etico-politica e prassi linguistica (cfr. G. Nencioni, La lingua del M., Bologna 1993).

In altri campi le contese hanno prevalso sulle convergenze. Il M. antitemporalista, filopiemontese, cattolico ammiratore di Garibaldi, rappresentava, ancora vivente, cattivo esempio nell’opinione degli ambienti cattolici e di gran parte del clero. Via via, vincendo le resistenze, la figura del M. si è imposta all’opinione cattolica: per forza di poesia e per amor di patria (nel cattolicesimo lombardo e veneto), poi per l’evoluzione della questione romana, le vicende dei partiti cattolici in Italia e le dinamiche della Chiesa dall’Ottocento al concilio Vaticano II.

Il titolo assunto dalla controversia è stato, nel dibattito di fine Ottocento e Novecento, quello relativo al supposto «giansenismo» del M., che evoca temi teologici, politici e di pietà. La diatriba non può considerarsi chiusa neanche oggi, pur se l’immagine del giansenismo non sembra più anatemizzata (ben informata è la recente ricapitolazione di P. Millefiorini, M. e il giansenismo, in La Civiltà cattolica, CLII [2001], vol. 4, pp. 345-359, che non drammatizza, pur dubitando della presenza di idee gianseniste nel Manzoni).

Sul fronte dei laici il M. non ha raccolto consensi senza riserve. Dopo quelle di C. Cattaneo e dell’avanguardia lombarda, in parallelo (sebbene non in linea) con le carducciane, la valutazione più lucida e generosa fu di F. De Sanctis (v. i 4 saggi del 1872-73 in F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX, I, A. M., a cura di L. Blasucci, Bari 1962, pp. 3-90). Ma il M. pagava, anche dopo decenni, il prezzo del suo isolamento, per la diffidenza verso il mestiere e le scuole letterarie. Quindi i giudizi di B. Croce (A. M., in La Critica, XIX [1921], pp. 257-269, poi in Id., A. M.: saggi e discussioni, Bari 1952), pieni di riconoscimenti ma limitativi del valore poetico dei Promessi sposi, inaugurarono il fitto dibattito dei trent’anni seguenti (segnando in profondità i confini delle varie aree politico-culturali coinvolte), fino alla palinodia del 1952 (Tornando sul M., ibid., pp. 125-128).

Oltre la posizione liberale, che giudicava con distacco il rifiuto del M. dell’idealismo (G. Gentile pensava altrimenti, non senza forzature: A. M. [1923], in G. Gentile, M. e Leopardi, Milano 1928, pp. 3-30, specialmente pp. 9, 15 s.), non si possono trascurare le letture di sinistra e quelle marxiste implicate nel riesame del Risorgimento, tra loro varie, alcune di denuncia delle posizioni ideologiche del M. (A. Gramsci, C. Cases, S. Timpanaro; ma si ricordi il giudizio di G. Lukàcs, Il romanzo storico, Torino 1965, pp. 81-83). Per una lucida mediazione tra i punti di vista cattolico e laico, si rimanda ad A.C. Jemolo, Il dramma di M., Firenze 1973 (con prefazione di G. Spadolini). In complesso il M. è rimasto segno di contraddizione e segnacolo in vessillo per molte generazioni, e non pare che decada da questa posizione.

Per un quadro del dibattito critico fino al 1985, si veda l’ottimo G. Lonardi, M. A., in Diz. critico della letteratura italiana (UTET), Torino 1986. Il secondo Novecento è stato l’età di un approfondimento della figura del M., e di un giudizio più condiviso del romanzo, potentemente realistico e in radice ideologico, in modi di rara singolarità, eppure di connessione con grandi esperienze europee (M. Cervantes, L. Sterne, D. Diderot).

Malgrado (o perché) riservato e «misterioso», il M. è divenuto negli ultimi decenni personaggio letterario (F. Ulivi, fra racconti – Lo spettro, in E le ceneri al vento, Milano 1977; La quiete degli scrittori, in L’angelo rosso, Casale Monferrato 1992 – e romanzi: La straniera, Milano 1991; Tempesta di marzo, Casale Monferrato 1993; e, ancora, M. Pomilio, Il Natale del 1833, Milano 1983) o saggi narrativi (N. Ginzburg, La famiglia Manzoni, Torino 1983).

La maggiore raccolta di materiali critici sul M., curata da G. Vigorelli, è M. pro e contro, I-III, Milano 1975-76: una serie ordinata per cronologia, un vero e proprio monumento per varietà di aspetti e valutazioni.

Opere. Dal 1999 si sta realizzando un’Edizione nazionale ed europea delle opere di Alessandro Manzoni, a cura del Centro nazionale di studi manzoniani. Dei previsti 36 volumi (con revisione critica dei testi, commento e indici, una premessa e introduzione del curatore) sono usciti nel 2000: XIV, Del romanzo storico, e in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione; XV, La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859, e Dell’indipendenza d’Italia; XVII, Scritti linguistici inediti, I (Premessa di G. Nencioni e Introduzione di A. Stella - M. Vitale); XVIII, Scritti linguistici inediti, II (in 2 tomi); XIX, Scritti linguistici editi; XXVII, Carteggio Manzoni - Fauriel; nel 2002: XII, Storia della colonna infame (in appendice: G. Rovani, La mente di M.); XX, Postille. Filosofia; nel 2003: XXVIII, Carteggio Manzoni - Rosmini; nel 2004: III, Il conte di Carmagnola (in appendice: la versione francese di Fauriel e la Vita del Carmagnola di Lomonaco); XVI, Dell’invenzione e altri scritti filosofici (in appendice: R. Bonghi, Le Stresiane); nel 2005: V, Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (in appendice: A. Thierry, Lettres sur l’histoire de France); XXI, Postille al Vocabolario della Crusca secondo l’edizione veronese; nel 2006: XXX, Carteggi familiari. È apparsa, infine, nel dicembre 2006, una nuova ed. di Fermo e Lucia, diretta da D. Isella, a cura di B. Colli - P. Italia - G. Raboni.

La collezione più completa delle opere è finora Tutte le opere di Alessandro Manzoni, a cura di A. Chiari - F. Ghisalberti, Milano, iniziata nel 1954 e continuata fino al 1990 (seguiva la proposta di M. Barbi, Piano per un’edizione nazionale delle opere di Alessandro Manzoni, in Annali manzoniani, I [1939], pp. 23-153, già in parte attuata dallo stesso Barbi e da Ghisalberti con l’edizione minor promossa dalla Casa del Manzoni, Opere, I-III, Milano 1942-50). L’edizione maggiore è divisa in: I, Poesie e tragedie con loro abbozzi e stesure varie, a cura di A. Chiari - F. Ghisalberti, 1957; II, I promessi sposi, a cura di A. Chiari - F. Ghisalberti, 1954 (in 3 tomi: 1, I promessi sposi. Testo critico della ed. definitiva del 1840 con suo apparato critico, e con Storia della colonna infame; 2, I promessi sposi. Testo critico della prima ed. stampata nel 1825-1827; 3, Fermo e Lucia. Prima composizione del 1821-1823. Appendice storica su la colonna infame. Primo abbozzo del 1823); III, Opere morali e filosofiche, a cura di F. Ghisalberti, 1963; IV, Saggi storici e politici, a cura di F. Ghisalberti, 1963; V, Scritti linguistici e letterari (3 tomi: 1, Della lingua italiana, a cura di L. Poma - A. Stella, 1974; 2, Scritti linguistici, a cura di A. Stella - L. Danzi, 1990; 3, Scritti letterari, a cura di C. Riccardi - B. Travi, 1991); VI, Postille di letture varie (non realizzato); VII, Lettere, a cura di C. Arieti, 1970.

Per un’esauriente notizia delle precedenti raccolte di opere del M., si ricorra alle bibliografie generali di seguito citate.

Principali edizioni recenti utili per testo o commento, non comprese nelle raccolte già citate. Per le poesie: Tutte le poesie 1812-1872, I-II, a cura di G. Lonardi, commento e note di P. Azzolini, Venezia 1987; Inni sacri e altri inni cristiani, a cura di C. Leri, Firenze 1991; Poesie prima della conversione, Torino 1992, e Inni sacri, Parma 2005, a cura di F. Gavazzeni (e di S. Albonico per La Pentecoste); Poesie e tragedie, a cura di V. Boggione, Torino 2002; tra i «tascabili», Tutte le poesie, a cura di P. Gibellini, Milano 2005.

Per le tragedie: Il conte di Carmagnola, ed. critica di G. Bardazzi, Milano 1985; Adelchi, ed. critica a cura di I. Becherucci, Firenze 1998. Tra le recenti edizioni, Adelchi, a cura di G. Lonardi, Venezia 1992; 2ª ed., ibid. 2005. Delle Osservazioni sulla morale cattolica, esiste una ed. critica a cura di R. Amerio, Milano-Napoli 1966, con studio di temi e fonti. Per le Postille, v. anche Postille inedite di Alessandro Manzoni a storici della Rivoluzione francese, a cura di G. Lesca, in Convivium, VI (1934), pp. 361-365; Postille all’«Histoire romaine» di Ch. Rollin, in P. Treves, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962, pp. 591-651.

Tra le edizioni dei Promessi sposi (per un elenco delle commentate alle pp. LXXXV-LXXXVIII dei Promessi sposi, a cura di A. Stella - C. Repossi, Torino 1995), si ricordano quella di L. Caretti (Torino 1971), che pubblica I, Fermo e Lucia e Appendice sopra la Colonna infame e II, in modo interlineare le edizioni dei Promessi sposi del 1827 e del 1840-42, nonché la Storia della Colonna infame; e quella a cura di S.S. Nigro, Milano 2002, che pubblica Fermo e Lucia, Promessi sposi (1827) e Promessi sposi (1840), con ricchi commenti (vi si trova anche la Colonna infame nelle due forme, per cura di E. Paccagnini).

Fonti e Bibl.: Documenti del M. e a lui relativi sono conservati a Milano, presso il Centro nazionale di studi manzoniani, nell’Archivio di Brusuglio (in riordinamento) e nella Bibliote;ca nazionale Braidense di Brera, Sala manzoniana (cfr. D. Bassi, I manoscritti manzoniani della Biblioteca Braidense di Milano, in Aevum, VIII [1934], pp. 3-72). Sui libri del M.: C. Pestoni, Preliminare informazione sulle raccolte manzoniane. Raccolta di via Morone. Raccolta di Brera. Raccolta di Brusuglio, in Annali manzoniani, VI (1981), pp. 59-231; G. Gaspari, Le biblioteche di M., in M. scrittore e lettore europeo, Roma 2000, pp. 35-42. Bibliografie generali: A. Vismara, Bibliografia manzoniana, I-III, Torino 1875; M. Parenti, Bibliografia manzoniana, Firenze 1936 (primo volume dei 3 annunciati); Gli studi manzoniani dal 1935 al 1938, in Annali manzoniani, I (1939), pp. 283-307; F. Ghisalberti, La critica manzoniana di un decennio (1938-1948), ibid., V (1949), pp. 51-397; Bibliogra;fia manzoniana (1949-1973), a cura di S. Brusamolino Isella - S. Usuelli Castellani, Milano 1974; Bibliografia manzoniana (1980-1995), a cura di M.G. De Robertis, Milano 1998. Le novità relative agli studi sul M. appaiono ora negli Annali del Centro nazionale di studi manzoniani (ultimo volume pubblicato, n.s., IV-V [2001-03]).

Per l’epistolario e i carteggi: A. Manzoni, Tutte le lettere, a cura di C. Arieti, con un’aggiunta… a cura di D. Isella (= Lettere), I-III, Milano 1986. Per corrispondenti e documenti: Carteggio di Alessandro Manzoni, a cura di G. Sforza - G. Gallavresi, I-II, Milano 1912-21 (fino al 1831); G. Beccaria, «Col core sulla penna». Lettere 1791-1841, a cura di G.M. Griffini Rosnati, Milano 2001; T. Grossi, Carteggio 1816-1853, a cura di A. Sargenti, Milano 2005, ad ind.; E. Manzoni Blondel, «Par pièces et morceaux». Lettere 1809-1833, a cura di F. Danelon, Milano 2006. V. anche G. Bezzola, A. M. nelle sue lettere, Milano 1985. Sulla paternità del M.: L. Auvray, Inventaire de la Collection Custodi…, in Bulletin italien, III (1903) - V (1905); nonché D. Rota, P. Custodi, I, Lecco 1987, pp. 1223-1227; la testimonianza di N. Tommaseo è in Id., Colloqui col M., a cura di G. Titta Rosa, Milano 1954, p. 40; P. Campolunghi, Romanzo e realtà nelle vere paternità di Giulia Beccaria e di suo figlio A. M. (Verri), Milano 1998. Per la famiglia Manzoni e il suo patrimonio: F. Calvi, Il patriziato milanese, Milano 1875; D. Rota, Casa Manzoni: vita familiare ed economia. Documenti inediti, in Otto/Novecento, XVII (1993), 6, pp. 5-117; A. Dattero, La famiglia Manzoni e la Valsassina, Milano 1997, pp. 96, 138 s. Sui rapporti con Cuoco: G. Bollati, A. M. tra i personaggi del «Platone in Italia» di V. Cuoco, in L’italiano: il carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino 1983, pp. 5 ss. Sui legami giovanili: A. Stoppa;ni, I primi anni di A. M., Milano 1874; A. De Gubernatis, A. M., Firenze 1879; L. Tonelli, M., Milano 1935; T. Gallarati Scotti, La giovinezza del M., Milano 1970; G.P. Bognetti, M. giovane, Napoli 1977; G. Trombatore, Saggio sul M.: la giovinezza, Vicenza 1983; Id., La formazione del grande M., 1810-1819, Firenze 1993; M. Sansone, M. francese, 1805-1810, Roma-Bari 1993. Sul M. agricoltore e studioso di economia, M. Corgnati - L. Cor;gnati, A. M. «fattore di Brusuglio», Milano 1984; L. Derla, M. e l’economia politica, in Id., Letteratura e politica tra la Restaurazione e l’Unità, Milano 1977, pp. 239-268; P. Barucci, La «cultura» economica di A. M., in Studi in memoria di F. Melis, V, Napoli 1978, pp. 279-311. Per il «giansenismo» del M., ancora decisivo F. Ruffini, La vita religiosa di A. M., Bari 1931; ma si veda altresì C. Carena, «Le soir mon mari nous lit un peu…». Letture e libri giansenisti in casa Manzoni, in M. scrittore e lettore europeo, cit., pp. 43-48. Per i rapporti con Goethe: H. Blank, Goethe und M.: Weimar und Mailand, Heidelberg 1988; per i testi di Goethe: Scritti sull’arte e sulla letteratura, a cura di S. Zecchi, Torino 1992, pp. 211-230. Sulla conoscenza da parte di Stendhal della Lettre: D. Christesco, La fortune de A. M. en France, Paris 1943. Sui legami con i giovani storici, C. De Lollis, A. M. e gli storici liberali francesi della Restaurazione, in Id., Scrittori d’Italia, Milano-Napoli 1968, pp. 223-372. Sull’elaborazione dei Promessi sposi cfr. anche L’officina dei Promessi sposi (catal.), Milano 1985, a cura di F. Mazzocca e con un intervento critico di D. Isella; C. Bologna, Il «romanzo in progresso» di A. M., in Letteratura italiana (Einaudi), VI, Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino 1986, pp. 838-876; L. Toschi, La sala rossa, Torino 1989. Per l’accoglienza ai Promessi sposi: R. Spongano, Le prime interpretazioni dei Promessi sposi, Firenze 1967; M. Vitale, La lingua di A. M., Milano 2000; A. Cottignoli, M. fra i critici dell’Ottocento, Bologna 2002. Sul secondo matrimonio: C. Cantù, A. M.: reminiscenze, I-II, Milano 1882; S. Stampa, A. M., la sua famiglia, i suoi amici: appunti e memorie, Milano 1885; M. intimo, a cura di M. Scherillo - G. Gallavresi, Milano 1923; E. Flori, A. M. e Teresa Stampa, Milano 1930. Per la morte: Carteggio Tenca - Maffei, a cura di L. Jannuzzi, Milano 1973, II, p. 115; C.M. Fiorentino, Gli ultimi momenti di A. M. nelle lettere di G. Visconti Venosta a suo fratello Emilio, in Nuova Antologia, CXXXVI (2001), pp. 259-267.

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