POPE, Alexander

Enciclopedia Italiana (1935)

POPE, Alexander

Ernest de Sélincourt

Poeta inglese, nato a Londra il 21 maggio 1688, morto a Twickenham il 30 maggio 1744. Era figlio di un drappiere ritiratosi nel 1700 in agiatezza a Binfield, nella Windsor Forest. Entrambi i genitori erano cattolici, ma l'avversione popolare contro la loro religione li costrinse a nascondere le proprie tendenze; perciò il fanciullo crebbe in un'atmosfera di segretezze e di sotterfugi che lasciò traccia indelebile sul suo carattere, talché più tardi si disse di lui che non sapeva prendere il tè senza qualche stratagemma. Una pericolosa malattia sofferta a 12 anni lo lasciò debole e con una deformità permanente, ciò che contribuì ad accrescere in lui la sensitività e l'irritabilità innate. Fin dalla prima infanzia si rivelò precoce: a otto anni imparò il latino e il greco e in seguito affermò di non ricordare un'epoca della propria vita in cui non avesse scritto versi. Ma dopo pochi anni di frequenza delle scuole, visse in casa, libero di abbandonarsi alle proprie tendenze; sebbene leggesse molto, in francese, in italiano, e i poeti inglesi non meno dei classici, gli mancò la vera disciplina di uno studioso. Apprese da sé l'arte della versificazione, traducendo Ovidio e Stazio, adattando il Chaucer a imitazione delle Fables del Dryden, studiando il Dryden stesso e il Sandys e cimentandosi con la commedia, la tragedia e l'epica. Il suo desiderio di fama poetica lo spinse presto a cercar la conoscenza di letterati, tra i quali furono sir William Trumbull, il Walsh, che gl'insegnò ad apprezzare la "correttezza", il Granville, il Wycherley e il Congreve. Al caffè Will, dove un tempo aveva regnato il Dryden, il P. frequentò la società letteraria del giorno. I suoi amici apprezzarono talmente le sue Pastorals (cominciate a 16 anni e che, in una forma o nell'altra, nel 1706 erano scritte), che l'editore Tonson si offrì di pubblicarle. Dopo un ritardo che non è mai stato spiegato, il libro apparve nel 1709 ed ebbe subito grandi elogi. Pur con la loro artificialità, la smaccata imitazione di Virgilio, la mancanza del sentimento e dell'osservazione di quella stessa natura che vorrebbero descrivere, le Pastorali rivelano il P. già maestro nel distico eroico, che fluisce sempre musicale e raggiunge talora squisita grazia elegiaca. Al medesimo periodo appartiene il Messia, adattamento della quarta egloga di Virgilio, e la prima metà del Windsor Forest, che palesemente deve molto al Cooper's Hill del Denham. Non molto più originale il P. riuscì nell'Essay on Criticism (1711); tuttavia nella formulazione delle norme sulle quali si fonda il vero gusto e dei limiti del giudizio personale, nel suo appello alla natura frenata dal giudizio, nel suo rispetto per l'autorità di Aristotele e degli antichi, egli esprime il vangelo letterario del suo tempo, lontano tanto dalla stravaganza degli ultimi elisabettiani, quanto dalle ingegnosità forzate dei poeti "metafisici". Egli vi attuò magistralmente il suo ideale di scrivere "what oft was thought but ne'er so well expressed" (ciò che spesso fu pensato, ma non mai espresso così bene), perché il poema abbonda di distici che, per straordinaria felicità di locuzioni, sono entrati nel linguaggio quotidiano. L'argomento della sua composizione successiva gli venne fornito dalla vita della società contemporanea e in tal modo il Pope scoprì la vera tendenza del suo genio. Durante una festa a Hampton Court, miss Arabella Fermor subì il furto d'una ciocca di capelli per opera del suo ammiratore Lord Petre. La famiglia di lei si risentì profondamente di questo gesto e il P. pensò di metter fine al chiasso che ne era derivato volgendo garbatamente la cosa al comico. Sia che riuscisse o no nell'intento, certo è che in The Rape of the Lock egli scrisse la più brillante parodia del poema eroico. La prima edizione (1712) fu giudicata dall'Addison "merum sal"; la seconda (1714), arricchita con l'aggiunta dell'episodio della partita a carte e con la vivace fantasia del macchinario di silfidi, gnomi e salamandre, suggerita al P. dalla lettura del libro del conte De Gabalis sui Rosacroce, riuscì a compiere l'impossibile: ampliò, cioè, uno squisito nonnulla, migliorandolo, nell'ampliamento, anziché guastarlo. A 25 anni il P. era riconosciuto primo tra i poeti viventi e divenne il centro d'una brillante cerchia letteraria, amico di Swift, Gay, Parnell, Arbuthnot, Harley e Bolingbroke. Con l'Arbuthnot e il Swift elaborò il progetto, dimostratosi più tardi fecondo, per un'opera satirica, che doveva mettere in ridicolo varie forme di pedanteria nella persona d'un immaginario Martin Scriblerus. Nel 1713 scrisse un prologo per il Cato di Addison e completò il suo Windsor Forest con un elogio della pace di Utrecht. La prima edizione in cui raccolse le sue opere (1717) conteneva due poesie che rivelarono un nuovo aspetto del su0 genio: la Elegy to an unfortunate Lady, che, lamentando il suicidio cui la dama fu spinta dall'angoscia di un amore sfortunato, rivela vera tenerezza di sentimenti, e la Epistle of Eloise to Abelard, la quale dipinge la lotta tra amore e religione con un'intensità psicologica che penetra diritta nell'intimo della tragedia. Nonostante la laboriosa eloquenza dello stile, disadatta, secondo il gusto moderno, ai temi trattati, queste due poesie rivelano il P. non più solo come il poeta delle mere sensazioni, dello spirito e della satira, ma anche della passione elementare. Ma prima ancora di questa pubblicazione, egli si era già impegnato nella più ardua fatica della sua vita: la traduzione dell'Iliade.

L'opera venne pubblicata in varie riprese: i primi 4 libri nel 1715, gli altri nel 1716, 1717, 1718 e 1720. A questa fece seguire la traduzione dell'Odissea, della quale, però, almeno dodici libri gli furono tradotti da due eruditi di Cambridge, Broome e Fenton. Era un lavoro per il quale, sotto molti aspetti, egli non era adatto. La sua erudizione era scarsa e, come rappresentante tipico di un'artificiale epoca "augustea", non si trovava a suo agio nel mondo omerico. Nessuno oggi penserebbe a discutere le parole di Bentley, il maggiore erudito del secolo: "Un riuscitissimo poema, signor Pope, ma non dovete chiamarlo Omero". Lo stile che adottò sarebbe stato più adatto alla traduzione di un poeta latino: a nude enunciazioni dirette dell'originale corrispondono, nel P., dei ricami; alla semplice eloquenza, la retorica risonante; e lo stile equilibrato, sempre adorno e spesso vistoso, offre il primo esempio di quel falso eloquio poetico contro il quale doveva scagliarsi il Wordsworth. Tuttavia, l'opera costituisce uno sforzo magnifico, e se non può rendere nessun'altra qualità di Omero, riproduce almeno ciò che il P. medesimo chiama "lo spirito e il fuoco che costituiscono la caratteristica principale d'Omero". L'Iliade venne pubblicata per sottoscrizione; e grazie, in parte, allo strenuo patrocinio del Swift, rese al P. più di 5.000 sterline. Dall'Odissea, dopo aver compensato i collaboratori, ricavò altre 3500 sterline nette. Poteva ben vantarsi che "grazie a Omero", "Io vivo e prospero - Senza doverlo a nessun vivente principe o pari".

Nel 1719, con i guadagni dell'Iliade, comprò una casa con terreno sulle rive del Tamigi a Twickenham. Il padre gli era morto due anni innanzi e nella nuova casa si stabilì con la vecchia madre, cui era profondamente affezionato, dedicando molto tempo e molta abilità ad abbellire la sua proprietà; quivi anche ricevette la visita del principe di Galles e di molti nobili, che egli era orgoglioso di ricevere "non come seguace ma come amico", e che celebrò nei suoi versi con complimenti squisitamente torniti. Ma se tra gli amici era un compagno intelligente e affezionato, la sua natura sensibile e sospettosa, la sua passione per gl'intrighi e la sua malizia, che era felice di ritorcere qualsiasi offesa, reale o immaginaria, gli avevano già creato molti nemici accaniti. Fin dal 1711 aveva attaccato senza motivo, nel suo Essay on Criticism, il vigoroso critico Dennis; temendo poi che i Pastorals del Phillips potessero essere preferiti ai suoi, li aveva messi in ridicolo, attirandosi così l'inimicizia del Phillips e di tutti i suoi amici; si guastò inoltre con l'Addison, accusandolo, senza fondato motivo, di gelosia e di tradimento per i suoi giudizî su The Rape of the Lock e sulla traduzione di Omero. Un temperamento come il suo non poteva tollerare la critica, per quanto fondata. Nel 1725 egli curò un'edizione di Shakespeare, in cui la prefazione, pur con tutte le sue limitazioni, è un riconoscimento sincero del genio shakespeariano; ma non conosceva la letteratura elisabettiana, e la cura del testo, che egli spesso comprese male e spesso emendò con ingiustificata libertà, gli attirò la giusta censura di Lewis Theobald. Il P. si vendicò facendo del Theobald l'eroe del suo grande poema satirico The Dunciad (1728). Questa satira virulenta, imitata dal MacFlecknoe del Dryden, copre di disprezzo e d'insulti non solo il Theobald ma tutti coloro che lo avevano offeso, senza badare se si trattasse di persone veramente disprezzabili, o se fossero tanto spregevoli da non meritare ch'egli se ne curasse. Il P. pretendeva di difendere la causa della vera letteratura contro i suoi diffamatori, ma la pretesa è insostenibile, perché riesce evidente che il suo vero scopo era personale. E ugualmente insostenibile è la sua affermazione implicita che l'incapacità letteraria è sinonimo di degradazione morale. The Dunciad è un esempio insigne d'ingegno brillante asservito a finalità indegne. Tuttavia, contiene alcuni passi stupendi, e la mirabile chiusa del quarto libro (aggiunta dal P. nel 1742, quando mutò l'eroe del poema facendolo somigliare al suo nuovo nemico Colley Cibber) è l'unico esempio d'un poema eroicomico che si eleva fino al sublime.

Dalla schietta satira personale, il P., nel suo lungo poema didascalico intitolato Essay on Man (1733), si volse "a giustificare Iddio e la sua volontà dinnanzi all'uomo". La sostanza filosofica del poema gli venne fornita dal suo amico Bolingbroke, convinto deista, il quale aveva opinioni che il P. poteva versificare con sufficiente chiarezza, ma delle cui conseguenze filosofiche non si rendeva conto. Egli non era un metafisico, e la sua mancanza di educazione filosofica lo rendeva incapace di condurre un'argomentazione serrata. In alcuni punti è un panteista, in altri un fatalista; la sua teoria dell'amore di sé e della ragione è inconcludente; la sua concezione dello sviluppo storico della politica o della religione è vaga e nebulosa. L'intero "sistema", quale egli lo aveva pensato, fu agevolmente demolito dal filosofo svizzero de Crousaz. E tuttavia nessuna opera del P. raggiunse ai suoi tempi più larga popolarità, perché nonostante le sue flagranti contraddizioni emana in taluni momenti un vero ardore morale ed esprime, in versi sempre forbiti e assai spesso eloquenti, una fase caratteristica del pensiero popolare di quel tempo.

L'aspetto più autentico del genio del P. sta nel saper mescolare la satira personale con la riflessione morale: in The Dunciad vi era stata troppa satira; nell'Essay on Man, troppa riflessione. Il perfetto equilibrio artistico tra i due aspetti egli lo raggiunse nell'opera degli ultimi anni. Nella primavera del 1835, trovandosi malato, ricevette la visita del Bolingbroke, il quale gli fece notare come "si sarebbe prestata" la prima satira del secondo libro d'Orazio, se il P. avesse voluto imitarla in inglese. Il poeta accettò il consiglio e si mise al lavoro su quelle Imitations of Horace che, nell'insieme costituiscono la sua opera più bella. Il metodo autobiografico frammentario di Orazio si adattava perfettamente al genio del P. e il testo dell'originale, evitandogli la necessità di costruire, gli offrì occasione di dar prova della sua abilità nel parallelo e nell'adattamento. Inoltre, mentre poteva assumere la parte favorita di campione della virtù, aveva modo di satireggiare i suoi nemici con un veleno che, invero, trova ben poco riscontro in Orazio. Tra queste brillanti Imitations, la Epistle to Arbuthnot (1735) è indubbiamente il capolavoro. In essa si trovano brani di autobiografia intima, nei quali all'orgogliosa lode di sè si alterna un vero pathos, quando ricorda la dedizione di tutta la sua vita alle Muse; il suo nobile e commovente omaggio a parenti e amici trova un ardito contrasto nei vivaci e vituperosi attacchi contro le persone che odiava, quali lord Hervey (Sporus) e Addison (Atticus). Quest'ultimo attacco era stato scritto molto prima, ma venne inserito in questa epistola. Tanto lord Hervey quanto Addison costituiscono, nella poesia, due ritratti satirici, nei quali il genio del P. nell'interpretare falsamente, ma con le apparenze della verità, raggiunge l'apice. Abilità forse non minore è nella Epistle to Augustus, nella quale la lode sincera che Orazio tributa al suo imperatore si muta in una sferzante esposizione delle debolezze di Giorgio II. Fra i ritratti contenuti in questa epistola è particolarmente notevole tanto per la virulenza quanto per la brillante esecuzione quello di Atossa, spietata satira della duchessa di Marlborough.

Tutte le satire successive del P. sono improntate da una forte tendenza politica. Egli si vantava di "porre nella moderazione tutta la mia gloria, Mentre i Tories mi chiamano Whig e i Whigs Tory", ma egli per primo doveva credere ben poco a questa affermazione. In realtà era un acceso sostenitore dell'opposizione tory e non si lasciò sfuggire nessuna occasione di tirar frecciate contro sir Robert Walpole e tutto il suo partito. La nota di pessimismo che predomina nei suoi ultimi versi non è tanto la protesta dell'alto moralista a cui egli si atteggia, lamentando la depravazione dei tempi, quanto la mormorazione di un'opposizione politica delusa. Ma la causa del pessimismo, come di molti altri aspetti del P., più ancora che politica era personale: il lamento d'un uomo solitario che si sentiva invecchiare prematuramente.

Nel 1732 era morto il Gay e nel 1735 morì l'Arbuthnot; in quel medesimo anno il Bolingbroke partì per la Francia, mentre il Swift, ridotto intellettualmente un avanzo di sé stesso, si trovava in Irlanda e il P. era circondato da uomini che non avrebbero mai potuto sostituire i suoi primi amici. Di qui deriva la nota di disperazione e l'appassionata rivendicazione di sé che si trova nell'ultima satira.

Nel genio del P. lo spirito classico, o per lo meno augusteo, della poesia inglese giunse all'apice. Della poesia, che ha per argomento la vita sociale dell'uomo e ne considera le debolezze con un senso comune che sbocca inevitabilmente nella satira, egli è il maestro riconosciuto. Nessuno ha saputo meglio di lui "colpir l'umana sciocchezza a volo e cogliere i costumi al vivo mentre nascono". Le sue limitazioni sono palesi: per rendersene conto basta pensare all'universalità di Shakespeare, all'altezza d'immaginazione e all'appassionata sincerità di Dante o del Milton.

Anche per intelletto e carattere egli rimane inferiore perfino a molti dei suoi contemporanei. Tuttavia se non fu grande come uomo, fu straordinario come artista. Nell'uso che fece del distico eroico, che è il metro da lui adoperato in tutte le sue opere migliori, non ha rivali; la dolcezza lirica dei suoi Pastorals, la grazia arguta e delicata di The Rape of the Lock, l'ampiezza maestosa della sua Iliade, l'eloquenza dell'Eloise to Abelard, il tono disinvolto e conversativo delle sue Imitations of Horace, attestano la meravigliosa varietà che egli poteva permettersi in un campo ristretto e imposto. Se non ebbe l'elevato idealismo che è il segno dei grandi poeti mondiali, ebbe almeno quel "fuoco" che, secondo quanto egli stesso nota nella prefazione a Omero, è la qualità distintiva di ogni vera poesia. Soprattutto ebbe la passione inappagabile della perfezione, il desiderio di portare la propria opera a quel massimo di eccellenza che potesse raggiungere; ciò che costituisce il carattere dell'artista supremo.

Ediz.: Works, a cura di Elwin e Courthope, voll. 10, Londra 1871-1889 (il vol. V contiene la Vita, scritta dal Courthope).

Bibl.: S. Johnson, Lives of the Poets, Londra 1879-81; W. Hazlitt, Lectures on the English Poets, ivi 1818; L. Stephen, Life of P., ivi 1880; A. Beljame, Le public et les Hommes de Lettres en Angleterre au XVIIIe siècle, Parigi 1881; G. Sherbun, Early career of A. P., Oxford 1934.