GESUALDO, Alfonso

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 53 (2000)

GESUALDO, Alfonso

Simona Feci

Nacque a Napoli intorno al 1540 da Luigi, quinto conte di Conza, primo principe di Venosa (dal 1561), e da Isabella Ferella, figlia del conte Alfonso di Muro. Già protonotario apostolico, il 1° marzo 1561 divenne cardinale diacono col titolo di S. Cecilia. Le ragioni di questa precoce nomina si possono rintracciare nel legame di parentela che in quel periodo unì la famiglia del G. a quella del pontefice: Geronima, nipote del papa e sorella di Carlo Borromeo, sposò Fabrizio, fratello del G., che svolse un ruolo di primo piano, accanto al padre, nella definizione dei capitoli matrimoniali. Il 14 apr. 1561, inoltre, il G. fu nominato administrator apostolico dell'arcidiocesi di Conza, feudo di famiglia, già sede episcopale di due Gesualdo.

Fin da questo periodo la posizione del G. in Curia fu esplicita: filospagnolo, all'amicizia con i Borromeo, e specialmente con Carlo, contrappose una forte rivalità di natura familiare e personale nei confronti dei Carafa e in particolare dell'altrettanto giovane Alfonso, cardinale di Napoli.

Proprio in quegli anni si consumava la parabola dei Carafa che - già caduti in disgrazia all'epoca del pontificato di Paolo IV, loro congiunto - con Pio IV furono vittime dello spirito di rivalsa e di vendetta. Nel 1562, su ordine del papa, il G. sostituì Alfonso Carafa, rifugiatosi nei feudi familiari dell'Irpinia, alla direzione della Biblioteca Vaticana, ma il suo scarsissimo impegno e la trascuratezza in questo ufficio imposero assai presto la ricerca di un altro responsabile, individuato prima nel cardinale Bernardino Scotti, il quale per ragioni di salute dovette declinare l'incarico, quindi nel cardinale camerlengo Vitellozzo Vitelli, energico ed efficiente amico del Carafa, che da lontano non aveva smesso di seguire gli affari della Biblioteca, dolendosi di constatarne il declino.

Durante il concistoro del 1° marzo 1564 il cardinale Giovanni Morone sollevò la questione dell'opportunità di una consacrazione episcopale di A. Carafa e del G., i quali, pur non raggiungendo l'età prevista, erano a tutti gli effetti pastori di diocesi; Pio IV accolse la richiesta, non mancando però di criticare l'abitudine, da lui stesso perpetuata, di concedere deroghe ai limiti di età: i due aspiranti, cui si aggiunse l'ancor più giovane cardinale Francesco Gonzaga, si videro così concessa la necessaria dispensa e in aprile il G., che già il precedente ottobre aveva ottenuto l'ordinazione sacerdotale, ricevette il pallio a Conza. L'evento, tuttavia, fu fonte di delusione, poiché le vere ambizioni del G. erano rivolte alla diocesi napoletana; né fu più abile o fortunato negli anni successivi, quando - morto nell'agosto 1565 il Carafa - la sede ambita continuò a sfuggirgli. Nella sua attività episcopale il G. fu, tuttavia, responsabile e in linea con i dettami del concilio di Trento, che allora si concludeva; durante ripetuti soggiorni, il G. accertò, attraverso le "visite", le condizioni materiali e spirituali della diocesi e nel giugno 1565 ne riorganizzò il capitolo. Solo nel novembre 1572 resignò l'incarico a favore di Salvatore Caracciolo, figlio di una sorella, continuando comunque a godere dei benefici e dei frutti della diocesi. In questi anni ebbe modo di misurarsi anche con l'amministrazione civile, poiché Pio IV lo nominò governatore di Amelia e Orte l'8 giugno 1564, carica alla quale fu riconfermato da Pio V il 7 febbr. 1566.

Andava, frattanto, mutando rapidamente i titoli: il 17 ott. 1572 ottenne quello di S. Prisca, che fu sostituito da quelli di S. Anastasia (9 luglio 1578), S. Pietro in Vincoli (17 ag. 1579), S. Clemente (5 dic. 1580) e infine, il 4 marzo 1583, dalla diocesi suburbicaria di Albano.

Si trattava di onori senza vere responsabilità, e del resto durante tutto il pontificato di Gregorio XIII il G. fece parte solo della congregazione del Concilio dal 1574. Un giudizio coevo, tracciando un ritratto eloquente del suo profilo psicologico, ci suggerisce, almeno in parte, le ragioni della lentezza della sua ascesa: egli, infatti, si dimostrava "nella vita irreprensibile, nella coscienza scrupoloso, nei trattamenti cortese, nei negotij irresoluto et nel gusto delicato, onde difficilmente si compiace, et facilmente si satia nelle cose del mondo, et della corte, più tosto di buona opinione che di fondato discorso" (Bibl. apost. Vaticana, Vat. lat. 10337, c. 10v).

Solo con l'elezione del nuovo papa, Sisto V, il G. riuscì a misurarsi con impegni di maggiore responsabilità e visibilità. Nell'ambito del programma di ristrutturazione e consolidamento dello Stato, Sisto V ricorse al G. nominandolo il 13 maggio 1585 legato della Marca; ma fu in campo diplomatico che il G. si dimostrò più a suo agio: i sentimenti filospagnoli e gli incarichi di cardinale protettore del Portogallo e del Viceregno di Napoli e di viceprotettore del Regno di Ungheria lo inserivano tra gli interlocutori di spicco nella conduzione di affari che riguardavano da vicino gli interessi degli Asburgo. Passato alla diocesi di Frascati (11 dic. 1587), nel 1588 il G. divenne presidente della congregazione dei Riti, appena istituita. Qui, insieme con illustri cardinali quali Niccolò Sfondrato, Federico Borromeo e Cesare Baronio, si occupò della riforma del Breviario, divenuta necessaria a più di vent'anni da quella tridentina, sollecitando con profitto la collaborazione di istituzioni e uomini di cultura di tutta Europa, ma senza riuscire a portare a compimento l'opera. Nel 1589, quando era titolare della diocesi di Porto (2 marzo 1589), il G. dovette rappresentare le posizioni del re di Spagna nel dibattito sulle guerre di religione francesi e sul comportamento da tenere nei confronti di Enrico IV. Nell'agosto 1591 entrò a far parte della congregazione cardinalizia incaricata di esaminare la legittimità dell'investitura papale del Ducato di Ferrara, questione sollecitata dal duca Alfonso II d'Este che, in assenza di eredi legittimi, intendeva assicurare la continuità del suo Stato con questo espediente. Il 20 marzo dello stesso anno, il G., ormai decano del S. Collegio, aveva ricevuto dal papa Gregorio XIV la diocesi di Ostia e Velletri e da quel momento fu impegnato ad assolvere tutti i compiti tradizionalmente affidati al cardinale più anziano, come la direzione del conclave e l'incoronazione dei nuovi pontefici.

In seguito alla morte dell'arcivescovo di Napoli, il 12 febbr. 1596 il G. vide finalmente realizzata l'ambizione da sempre coltivata. Non sembra tuttavia che Clemente VIII avesse pensato immediatamente al G. come successore di Annibale Di Capua: secondo la ricostruzione di L. Parascandolo, infatti, venuta meno la disponibilità del generale dei gesuiti Claudio Acquaviva, ben visto da Filippo II e dallo stesso pontefice, e proposto l'incarico al cardinale Giulio Antonio Santoro, a lungo vicario arcivescovile a Napoli, solo l'opzione di questo per la Penitenzieria apostolica aprì al G. la strada della diocesi partenopea.

Accolto nella città il 2 apr. 1596, il G. - dando prova di un'energia e di una determinazione forse insospettate - si impegnò immediatamente nel governo della diocesi con l'intento di perfezionare l'applicazione dei decreti tridentini e di adeguarvi la struttura ecclesiastica territoriale.

Si inseriva così nell'alveo di una tradizione episcopale ormai trentennale: tuttavia, proprio la necessità di adottare una linea politica già perseguita nei decenni precedenti dà la misura delle difficoltà intrinseche alla diocesi con cui il G., come già i suoi predecessori, dovette misurarsi e spiega alcune delle sconfitte che egli subì. Inizialmente il G. si preoccupò della rete urbana delle chiese e dei luoghi di culto, di cui era urgente la razionalizzazione e l'integrazione: nel dicembre 1597 il numero delle parrocchie napoletane aumentò sensibilmente, anche se in misura ancora insufficiente, raggiungendo le trentasette unità, e contemporaneamente le giurisdizioni dei luoghi ecclesiastici furono riordinate, tenendo conto delle diverse destinazioni degli edifici sacri e degli interessi toccati. Si trattò di un traguardo molto importante e se ne può cogliere appieno la portata considerando che la mappa tracciata dal G. rimase in vigore almeno fino alla metà dell'Ottocento. Nello stesso tempo, a sostegno di un più puntuale e accessibile servizio pastorale e sacramentale, il G. promulgò un editto, Cum nobis innotuerit (4 apr. 1598), con cui impose l'obbligo di residenza a parroci e canonici. Infine, sempre nella medesima prospettiva, fondò la penitenzieria e - cosa che nelle cronache devote dell'epoca ebbe grande risalto - dotò la cattedrale di oggetti sacri e di arredi. Il lavoro del G. trasse alimento dalle due visite episcopali che egli compì tra il 1596 e il 1599 e dal censimento ecclesiastico realizzato nel 1598, che gli permisero di documentarsi in modo approfondito sulle condizioni della diocesi. La questione più complessa e grave che immediatamente venne alla luce fu lo stato del clero regolare e, in particolare, dei monasteri femminili. Questi, infatti, - a eccezione delle nuove fondazioni "riformate" - versavano in una situazione assai lontana dagli auspici tridentini, non tanto a causa degli scandali, pure frequenti, quanto per le caratteristiche complessive della vita claustrale. Concepita dalla nobiltà come un'irrinunciabile opzione nelle strategie familiari e patrimoniali, essa si basava su vocazioni superficiali, il più delle volte mai accompagnate dai voti, aiutate e alimentate da abitudini e diritti che permettevano e tolleravano una notevole libertà di relazioni, proprietà e costumi; la modifica di questo assetto avrebbe comportato la crisi dell'intero sistema familiare a livello sociale ed economico. Era una sfida difficilissima, tanto più che i precedenti tentativi di imporre i decreti tridentini avevano conseguito modestissimi risultati, come era apparso evidente dalla ricognizione compiuta durante il pontificato di Sisto V. Scoraggiata, la congregazione dei Regolari si era risolta, il 12 luglio 1592, a moderare i precetti sistini, che imponevano l'effettiva separazione della vita claustrale da quella del mondo, al fine di vederne una qualche applicazione. Eppure il G. non esitò e tentò di contrastare le forti resistenze e le perduranti abitudini, ancora radicate nonostante i provvedimenti adottati per la ristrutturazione degli edifici, ripubblicando, all'indomani del suo arrivo, i decreti del 1592 e assumendo autonome iniziative personali.

L'intento che, in modo sorprendentemente diretto, si propose il G. fu l'imposizione dell'autorità del vescovo a tutti i monasteri napoletani, anche a quelli di giurisdizione regia - S. Chiara, S. Maria Egiziaca e S. Maria Maddalena -, cui egli, con un breve del 6 sett. 1596 privo dell'exequatur regio, ordinò l'allontanamento dei frati francescani che li amministravano e vi risiedevano, individuando proprio nell'abitudine delle religiose alla presenza dei frati la causa principale del malcostume. La misura andò al di là del semplice intervento disciplinare, già di per sé respinto dalla nobiltà napoletana, trasformandosi in una questione giurisdizionale che coinvolse Filippo II, il papa e le principali autorità civili e religiose dello Stato. Clemente VIII, che aveva autorizzato l'iniziativa del G. e le discusse modalità di intervento, lo difese appassionatamente in una lunga lettera del 5 ott. 1596 indirizzata al viceré Enrico Guzmán de Olivares, sottolineando la ben nota partigianeria filospagnola dell'arcivescovo napoletano, "servitore di Sua Maestà di tanto affetto e sincerità che sogliamo noi dire che chi doppo morte lo trinciasse, troveria che come scrivono alcuni di Santo Ignatio Loyola, che in tutte le parti delle carni se li trovarebbe scritto il nome di Giesù, così nelle sue si trovaria quello del Re" (S. Guerra, Diurnali, p. 54). Ma, per le voci spagnole e napoletane che reclamavano provvedimenti sovrani, il fatto che il G. "portasse in fronte un exequatur generale" (ibid.) per la sua fedeltà alla Corona, era irrilevante perché questo exequatur - divenuto una prassi nei rapporti tra sovrano e pontefice e preferita dal primo - non era stato effettivamente chiesto. Lo spinoso conflitto, dopo il primo momento di durezza, si protrasse per alcuni anni, giungendo solo nel 1598 a una conclusione che, con una decisione unilateralmente assunta dagli ecclesiastici, affidava i tre monasteri regi ai francescani. Ma la partita tra il vescovo e le suore non si era per questo conclusa. Tornato a Napoli dopo la lunga permanenza a Roma per le celebrazioni dell'anno santo, in occasione della Pasqua del 1601 il G. ordinò a una quindicina di monasteri di contenere a non più di dieci ducati le spese per gli addobbi del "sepolcro" del giovedì santo. L'anno successivo il G. emise un decreto con cui ordinava che ogni monaca proprietaria di beni li intestasse al rispettivo monastero nel giro di sei giorni. Questa ulteriore iniziativa del vescovo provocò la reazione decisa della nobiltà cittadina, che, dopo aver tentato invano di persuaderlo a ritirare la disposizione, inviò a Roma il marchese di Bracigliano Cesare Miroballo, che ottenne da Clemente VIII la revoca, rendendo vani ancora una volta gli sforzi riformatori, e soprattutto disciplinari, del vescovo.

Ma anche sul piano delle relazioni all'interno dell'organizzazione ecclesiastica e della gerarchia il G. incontrò notevoli difficoltà, in particolar modo nel confronto con il ministro del S. Uffizio di Napoli.

Si trattava di un ambito tradizionalmente problematico per i presuli napoletani e i loro vicari, che più volte, specialmente nel precedente decennio, in concomitanza con l'offensiva accentratrice di Roma, avevano tentato di porre un freno alla crescente autonomia degli inquisitori in materia di fede, alimentando un clima di forte conflittualità.

Si inserisce in questa fase della storia dell'Inquisizione e dell'episcopato a Napoli un episodio che vide protagonista il G. nel 1596, a breve distanza dal suo insediamento: a seguito della rottura maturata nei rapporti con il commissario speciale del S. Uffizio, l'arcivescovo di Sorrento Carlo Baldino, il G., tentando di forzare la situazione, inviò l'8 novembre una lettera al cardinale G.A. Santoro in cui, lamentando l'ingerenza del vescovo di Sorrento, richiedeva ufficialmente di imporgli il rispetto della giurisdizione della curia napoletana e la proibizione di fregiarsi del titolo di "commissario". Anche in questo caso il G. andò incontro a una grave delusione, perché non solo il suo tentativo non produsse frutti, ma portò subito dopo a un maggiore irrigidimento delle posizioni romane.

Nel settembre 1600 il G. riacquisì alla giurisdizione vescovile napoletana l'abbazia di S. Michele a Procida, di cui era commendatario Roberto Bellarmino.

Morì a Napoli il 14 febbr. 1603 e fu solennemente inumato nella cattedrale, dove il nipote, Carlo Gesualdo, gli appose l'epitaffio.

Fonti e Bibl.: Arch. segreto Vaticano, Acta Camerarii, 7, c. 81v; 9, c. 94; 11, cc. 9, 23; Acta miscellanea, 51; 53, c. 277; Arm. XLII, 20, n. 245; 25, n. 71; Congregazione del Concilio, Relationes ad limina, Napoli, 560A, cc. 27-36v; Fondo Borghese, III, 28; IV, 4, c. 115; Fondo Pio, 19, cc. 215v-239v; Nunziatura Napoli, I, 17; 18, cc. 184-187; 319, cc. 11-24; Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 3208, cc. 104 s.; 3509, cc. 149-179; 4592, cc. 147-155; 5650, cc. 51-72; 5710, c. 65; Urb. lat., 879, II, c. 549; 1040, cc. 82v-83; 1059, II, cc. 441, 445; Vat. lat., 6181, cc. 115v, 131 s., 182, 199, 220, 303, 372, 377; 6189, II, cc. 416v, 421, 426; 6195, c. 842; 7061, c. 81; 7248, c. 156v; 8421; 9880, c. 58v; 10337, cc. 9-10v; 10425, c. 134; Napoli, Arch. stor. diocesano, Arcivescovi, serie I, A. G.; Visite pastorali, voll. 14-25; Pastorali e notificazioni, cartella 1; Roma, Bibl. Corsiniana, ms. 39.B.13, cc. 402-446; Ibid., Bibl. Vallicelliana, ms. G.83.

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