ALFONSO MARIA de Liguori, santo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 2 (1960)

ALFONSO MARIA de Liguori, santo

Giuseppe Cacciatore

Nacque a Marianella, presso Napoli, in una villa di famiglia, il 27 sett. 1696, da don Giuseppe e donna Anna Cavalieri dei marchesi d'Avenia. Il padre discendeva da una nobile famiglia, stabilitasi in Napoli, come sembra, quando la città era ancora ducato autonomo. Fra i secc. XIII e XVII i nomi di Ligorio, Liguoro, di Liguoro e infine de Liguori ricorrono variamente negli elenchi della magistratura o alla testa di importanti affari politici. Don Giuseppe segui la carriera militare. Al tempo che ci interessa, 1696, è "comandante la galera Capitana della regia Squadra della Città e del Regno di Napoli". Alcuni episodi, tramandatici dal primo biografo di A., A. Tannoia - la fonte più antica di informazioni, da preferire in generale alle biografie recenti, un po' solenni, un po' auliche -, rivelano nel capitano maniere rudi e autoritarie. Tutt'altra natura quella della madre. Anima mite, piena di condiscendente dolcezza, donna Anna prese per sé il peso della educazione degli otto figli, primo dei quali Alfonso. Don Giuseppe mirò a fare del primogenito un perfetto cavaliere. Secondo un uso corrente tra la nobiltà, la sua istruzione umanistica fu iniziata e condotta a termine in casa, sotto la guida di scelti maestri. Alle discipline d'obbligo, letterarie e scientifiche, don Giuseppe volle che seguisse il disegno, la pittura, l'architettura, la poesia, la musica. Soprattutto la musica: "tre ore ogni giorno se la doveva divertire in camera Alfonso col maestro; ed era tale l'impegno di suo padre, che non potendoci talvolta assistere, come soleva, chiudeva al di fuori l'uscio con chiave, e lasciandolo col maestro, partivane per gli suoi affari".

Di questa varia cultura giovanile rimangono nella vita di A. alcune espressioni che dimostrano, per lo meno, quale fondo di umanità e di grazia fosse nella sua natura: una "sfera armillare", dipinti ad olio ma con intenti esclusivamente morali, chiese, disegnate in ottimo stile settecentesco, canzoncine e in modo speciale la sua musica. Da missionario dovette sentire quale forza di impugnatura possieda questa arma quando è ben tenuta. Alcuni dei suoi inni, come il popolarissimo Tu scendi dalle stelle, rivelano tanta facilità e felicità di presa da consentirci un'idea delle sue capacità artistiche. Possediamo anche un Duetto fra l'anima e Gesù Cristo, con violino..., del 1760, condotto sullo stile dei maestri del tempo e del suo maestro, Gaetano Greco, discepolo dello Scarlatti e formatore a sua volta, forse insieme ad A., del Pergolesi, del Durante, del Vinci.

Nel 1708 si iscrisse nella facoltà di diritto dell'università di Napoli, dopo aver superato un esame di abilitazione dinanzi al "Cattedratico di rettorica". Titolare della cattedra era G. B. Vico. Di questo incontro tra A., appena dodicenne, e il grande filosofo non possiamo dire di più di quanto possa venir fuori dal fuggevole colloquio di un esame. È probabile che A. abbia ascoltato la celebre prolusione del Vico, De nostri temporis studiorum ratione. Dovettero esservi però forse buoni rapporti di stima, se non di amicizia, tra il filosofo e la famiglia de Liguori. In una raccolta di "Componimenti per nozze" (Firenze 1725), tra Andrea Coppola, duca di Canzano, e Laura Caracciolo, dei marchesi dell'Amoroso, ambedue parenti dei de Liguori, figurano due sonetti del Vico. Autore della raccolta è Antonio di Liguoro, probabilmente il fratello di Alfonso.

La giurisprudenza napoletana, dalla quale mosse i suoi passi il futuro equilibratore della Morale, si trovava allora, come scrive il Giannone, "nell'ultimo punto di perfezione". Metodo e indirizzi fissati da Francesco d'Andrea, che, dal 1650 in poi, si trova a capo di ogni iniziativa di rinnovamento nella vita intellettuale dello Studio cittadino. Con lui si era introdotta l'interpretazione storica del diritto, contro le vecchie forme di decisioni, consulte, allegazioni, glosse. Storia e filologia, fondendosi con la nuova filosofia di Cartesio e Gassendi, ricostruivano le vicende della legislazione giudicandola "in base alla vita e al-l'anima di chi l'aveva formata" (ma spesso l'una e l'altra disciplina nelle mani della mediocrità cattedratica dell'università rimasero poco più che pesante erudizione). La storia del diritto esaminata "non più in base a presupposti collocati al di fuori dello Stato, ma in base ai suoi bisogni politici, economici, intellettuali" (N. Cortese, F. d'Andrea, Napoli 1923, p. 46) divenne storia della politica locale, il diritto trasformato in statalismo regionale. Questo, nelle sue linee fondamentali, l'ambiente universitario nel quale A. compila sua formazione giuridica nel quinquennio 1708-13. Titolari delle varie cattedre erano: per il diritto civile D. Aulisio e N. Caravita, "avvocato primario e gran favoreggiatore di letterati", come lo chiama il Vico nella sua Autobiografia; per il diritto canonico, Gennaro Cusano e Nicola Capasso. Nell'indirizzo universitario è forse da ricercare una delle ragioni del procedimento erudito da A. adottato nei suoi scritti: una delle ragioni, non tutte, giacché si tratta di un metodo comune al Sei-settecento.

Nel 1710 A. è ricevuto tra i cavalieri del Sedile di Portanova, "i nobili di piazza", ai quali spettavano privilegi e mansioni rappresentative nel governo della città. Se al grado di nobiltà si aggiungeva "l'avvocazione", l'ascesa alle cariche dello stato era cosa facile e come di diritto. Sono anche di questo periodo, che va dal 1708 ai primi esercizi dell'avvocatura, due tentativi di matrimonio compiuti dal padre. Il primo con Teresina di Liguoro, figlia del principe di Presicce, fallito nel bel mezzo delle trattative tra i genitori per la volontà della giovane di farsi suora. Fu, difatti, carmelitana e mori santamente nel 1724. Più tardi, nel 1761, A. ne scrisse una breve biografia. Il secondo con la figlia di Domenico del Balzo, duca di Presenzano, rotto per il contegno elusivo di Alfonso.

Il 21 genn. 1713 conseguì la laurea in utroque, con dispensa sull'età di vent'anni richiesta dalla relativa prammatica. Un biennio di pratica legale, prima nello studio di Domenico Caravita, poi con l'avvocato Jovene, apri ad A. le aule dei tribunali. Qualche biografo indugia nella descrizione delle qualità eccellenti del difensore; e, se è vero quel che riferisce uno di essi, P. L. Rispoli (Vita, p. I, c. V, 19) che poté consultare l'elenco delle sentenze, oggi perduto, dal 1715 al 1723, tutte le cause difese dal valente avvocato furono coronate dal successo. Fino al 1723, anno cruciale.

Pendeva una lite, "famigeratissima", tra il granduca di Toscana e Filippo Orsini, duca di Gravina, per una somma di circa 600.000 ducati annessa al possesso del feudo di Amatrice, negli Abruzzi. I termini del dibattito oggi possiamo dedurli, almeno in parte, da alcuni documenti messi in luce di recente (O. Gregorio, in Arch. stor. per le prov. napol., n. s., XXXIV [1953-55] pp. 181-203). A. difendeva gli Orsini. Fu nella loro difesa che egli subì la prima sconfitta.

Secondo un suo accenno tardivo, contenuto in un documento pubblicato dal Gregorio (loc. cit., p.186), "il punto stava in dichiarare se un feudo era nuovo o antico", ossia, e in termini di diritto, si trattava di stabilire se un titolo di accessione ad una proprietà, aggiunto ad un diritto preesistente (in quel caso, il diritto di successione), annullava quest'ultimo e metteva in piedi la nuova accessione come solo titolo valido. Il problema, discusso e non risolto dai giuristi del tempo, era: per gli uni, "qualitas nova facit feudum novum", per gli altri, "qualitas nova non facit feudum novum". A. sosteneva la seconda posizione, favorevole agli Orsini. La via naturale, dato il dubbio, sembrava quella di una transazione fra le parti, e così difatti avvenne due anni dopo, quando la causa fu chiamata in appello a Vienna. Ma a Napoli entrarono in gioco l'influenza politica e le pressioni del viceré cardinale d'Althan, fatto favorevole al granduca da opportuni donativi spediti da Firenze (tra l'altro, "due piccoli orsi, un maschio e una femmina" molto graditi), elementi che spinsero il presidente del tribunale Domenico Caravita ad emettere una sentenza contraria alla difesa di Alfonso.

Seguì una reazione agitata e confusa, fatta di angoscia, di risentimento, di disgusto. Ma fu il predominio di un momento. Altri sentimenti si fecero strada a mano a mano che il turbamento cedeva alla riflessione. L'esercizio dell'avvocatura fu abbandonato per sempre: in poco più di un mese, l'aria del cavaliere avvocato scompare. Se si dà però uno sguardo alle manifestazioni di vita religiosa del primo periodo della vita di A., l'amor tenero e appassionato all'Eucarestia, la devozione filiale alla Madonna, i frequenti esercizi spirituali, il proposito, forse trasformato in voto, di viver celibe, si ha l'impressione che, al di là dell'avvenimento esterno e determinante della scossa subita in tribunale, nel resto la sua risoluzione di abbracciare il sacerdozio si manifesti come sviluppo coerente di una interiorità già molto alta anche nel periodo che egli chiamò "secolare".

Alla fine di ottobre dello stesso anno 1723, vestì l'abito talare e iniziò gli studi teologici, probabilmente sotto la guida del canonico Giulio Torni, autore di note ai Commentaria in quatuor libros sententiarum di Guglielmo Estio (W. Hessel van Hest).

Sull'indirizzo di questi studi qualcosa dirà lo stesso A. a proposito della sua Morale. Scrive in una delle Apologie del 1764 dirette contro il Patuzzi: "Sappia V. P. ch'io nel fare gli studi ecclesiastici ebbi per miei direttori a principio maestri tutti seguaci della rigida sentenza; ed il primo libro di morale che mi posero in mano fu il Genetti, capo dei probabilioristi; e per molto tempo io fui acerrimo difensore del probabiliorismo" (Risposta ad una lettera... circa l'uso dell'opinione egualmente probabile, in Opere, Venezia 1834, XXXVIII, p. 84). difficile escludere l'influsso del seminario di Napoli dove col Torni insegnava Gennaro Maiello, autore di una Theologia moralis matematicum in morem adornata, rigido quanto il Genet, la cui Theologia moralis detta "Morale di Grenoble" dal vescovo di Grenoble, Le Camus, che l'aveva ispirata, era stata rivista da A. Arnauld. Fino al '734 circa, A. segue il probabiliorismo, almeno come tendenza di studio. Un diverso indirizzo gli viene imposto dai direttori spirituali, G. Jorio e T. Falcoia, probabilisti convinti. Da qui un dissidio interiore che si protrae per diversi anni: una specie di diario intimo inedito ci fà assistere ai vari atti di questo dramma. Per giungere ad uno scioglimento egli dovette sprofondarsi nello studio di moralisti di ogni genere. Un fatto di coscienza, come si vede, è alla base della sua attività di moralista.

il 6 apr. 1726 ricevette il diaconato; il 21 dicembre fu ordinato sacerdote dal cardinale Pignatelli. A questo punto la storia di A. si confonde con quella della sua opera e della sua attività di apostolato.

"Appena fu fatto sacerdote, scrive il lannoia, l'Em.mo Pignatelli, che ben vedeva come e quanto la grazia si comunicava per suo mezzo, volle, che dato avesse al clero nella chiesa di S. Restituta i santi esercizi... Fu grande il frutto che operò nelle anime, nè d'altro si parlava in tutta Napoli che delle virtù di Alfonso". Da allora la sua operosità è costituita dalla predicazione, incessante ed efficacissima, estesa per un trentennio ed oltre: dapprima in Napoli, da solo o appoggiato alla Congregazione dei Cinesi, fondata nel 1724 da Matteo Ripa (m. 1746), ma con un suo indirizzo autonomo e personale. Predicazione che si rivolge al clero e al popolo. Il primo, numeroso fin troppo nella capitale, ma avvilito, apatico e oppresso da ristrettezze economiche; nelle provincie del Regno, scarso, impreparato, incapace di contatti efficienti. Un problema per i vescovi che avessero zelo pastorale e per un uomo come A., il quale, fatto cosciente della vera natura della questione, etica e disciplinare più che economica, offrì ad essa il meglio della sua intelligenza rinnovatrice. Tutto il ricco complesso dei suoi scritti di predicazione lo riguarda; la stessa Theologia moralis ha qui un altro punto di partenza, sebbene il tempo e una accresciuta conoscenza dei contrasti della teologia abbiano conferito in seguito alla sua opera maggiore una estensione ideale europea e cattolica.

Simile, per molti riguardi, al suo clero era il popolo, di Napoli e del Regno. Quale fosse la grave situazione religiosa e l'esteriorità delle devozioni e delle pratiche di pietà fra la gente dei sobborghi e di taluni quartieri della città, delle campagne e delle montagne del Regno, si deduce tra l'altro da alcuni ritratti vivi rimasti nei suoi Sermoni popolari e in più episodi vivacissimi riferiti dal suo primo biografo (Tannoia, Vita, I, 43-50).

In Napoli "per lo più operava egli nel mercato e nel lavinaro". Le viuzze della conceria, le piazze poste nelle vicinanze di qualche chiesa, trasformate in centri di adunanze religiose - le cosiddette "cappelle" - offrirono i primi temi di analisi al prossimo riformatore e formatore di coscienze. Le persone che vi convenivano "non erano nobili, ma lazzari, saponari, muratori, barbieri, falegnami, ed altri operai; ma quanto più erano dell'infima condizione tanto maggiormente venivano abbracciati da Alfonso". Da Napoli l'azione si estende nelle provincie del Regno: il cardinale Pignatelli gli assegna dei sacerdoti, in aiuto. Con questi il lavoro isolato si rafforza, assume la forma tipica della sua predicazione: la missione popolare.

Da una di queste missioni, data ad un folto gruppo di caprai sulle colline di S. Maria ai Monti, presso Scala, nacque l'idea della sua Congregazione. Mentre predicava in un monastero della cittadina, una suora, Maria Celeste Crostarosa, rivelò di aver visto "in spirito.., una nuova congregazione di preti tutta sollecita di aiutare milioni di anime; e... tra questi Alfonso che presiedeva a tutti". Sorsero incertezze, critiche, ironie, per oltre un anno, finché il designato, fatto certo della vocazione dal parere di uomini illuminati, tra i quali il suo direttore spirituale T. Falcoia, iniziò il suo istituto, il 9 nov. 1732. Oggi è noto col nome di Congregazione del SS. Redentore.

A capo del nuovo organismo A. assume una posizione storica singolare: in lotta col governo di Napoli, sostenuto dalle teorie giurisdizionalistiche in piena crescita e perciò ostile al riconoscimento di nuovi istituti. Se egli visse e sopravvisse fu per la benevolenza personale di Carlo III, ma sul terreno legale, tenuto saldamente dal Tanucci, rimase soccombente. Monumenti di questa lotta sono alcuni scritti, nei quali, oltrepassando il fatto locale, A. trasporta il problema nel campo dei diritti della Chiesa e del primato universale del papa. L'una e l'altra prerogativa formano il tema di tre opere: Dissertatio super propositionem damnatam ab Alexandro VIII, sul primato e l'infallibilità pontificia, inclusa nella Theologia moralis; Dissertatio de iusta prohibitione et abolitione librorum, stampata nel 1759, che provocò un incidente col Tanucci; Vindiciae pro suprema Romani Pontificis potestate adversus Iustinum Febronium (s. I. e.d.) che A. pubblicò sotto pseudonimo e alla macchia, nel 1768, e che non riuscì, come pare, a far ristampare a Venezia per il controllo effettuato sui libri al confine del Regno in questi anni di aspri contrasti tra Napoli e S. Sede.

Il riconoscimento del re era molto, ma non era tutto. Per aver diritto di esistere ed espandersi nella Chiesa occorreva al nuovo istituto l'approvazione pontificia. Fu concessa da Benedetto XIV il 25 febbr. 1749. Segui per il fondatore un periodo di calma relativa e una certa libertà di sviluppo delle missioni, consentita dal favore di Carlo III. Quest'epoca, chiusa tra il 1749 e il 1775 circa, si distingue dalla precedente per il netto prevalere dell'attività letteraria di A., una delle più feconde e multiformi che si siano viste nella storia della Chiesa. Le esperienze più variate del missionario a contatto con le classi più diverse sono adunate, analizzate e infine sistemate in una massa imponente di opere, morali, dogmatiche, predicabili, ascetiche. Nella loro composizione A. non segue una linea predisegnata, attento piuttosto alle voci che gli giungono dagli angoli più dissiti della Chiesa. Si possono, dunque, dividere le sue opere per gruppi, a scapito della cronologia.

Nel 1748 compare a Napoli la prima edizione, I vol., in 40, della sua Morale: Medulla Theologiae moralis R. P. Hermanni Busenbaum cum adnotationibus per R. P. A. de Ligorio. La seconda edizione, 2 voll., 1753-55, contiene un Elenchus quaestionum reformatarum, cinquantotto nel I vol., quarantuno nel II. Le successive, in tre voll. in folio, sono del 1757 (Roma), 1760 (Roma, e una ristampa, Bologna), 1763 (due ediz. pubblicate dal Remondini a Bologna), 1767 (Roma), 1772 (Bassano, presso i Remondini), 1779 (ibid.), 1785 (ibid.). Nella quinta edizione il testo del Busenbaum passa in sott'ordine; nelle altre scompare da alcuni trattati, in altri figura come testo primitivo superato. Titolo definitivo: Theologia moralis Ill.mi et Rev.mi D. A. d. L. Il motivo della omissione del testo del Busenbaum è duplice: la cura di non dare ombra ai nemici dei gesuiti, che attraversavano il periodo più difficile della loro storia, conclusasi con la soppressione, e l'autonomia raggiunta dal pensiero dell'autore. Non pare estranea una certa avversione, maturata col tempo, per quel genere letterario che immetteva lo studioso appena nell'atrio della vera scienza: "Midolle e compendi non intaccano la scorza della teologia" (Arch. gen. dei Redentoristi, Mss. Notizie biografiche di S. A., ser. XXV, f. 65).

Altri lavori analoghi affiancarono via via l'opera maggiore: Dissertatio scholastico-moralis pro usu moderato opinionis probabilis (1749), anonima, ristampata e ampliata nel 1755, almeno nel metodo. Questa dissertazione ha importanza biografica: l'autore passa dal probabiliorismo al probabilismo semplice. Le altre opere palesano un lavorio di critica incessante che prosegue fino al 1761-62. Scritti intermedi sono: Pratica del confessore (1755), ripubblicata in latino nel 1757, Praxis confessarii; Istruzione e pratica per un confessore (1757), anche questa tradotta in latino, Homo apostolicus (1759). Quest'ultima è l'opera, che, per l'efficace sintesi divulgativa dei principi e degli orientamenti espressi nella Theologia moralis, conobbe il maggior successo letterario: diciannove edizioni vivente l'autore; oggi è ritenuta il suo capolavoro, per l'organicità del metodo e della dottrina.

Nel 1762 pubblica una Breve dissertazione dell'uso moderato dell'opinione probabile, elaborata insieme alla quinta edizione (1761) della Istruzione e pratica. In questa e nella Breve dissertazione appare per la prima volta la formulazione definitiva del pensiero dell'autore.

Tutti questi lavori seguono il passo della Theologia moralis, la quale si perfeziona da una edizione all'altra, fino a quella del 1763, che contiene gli elementi centrali del sistema ormai raggiunto. Nelle sue linee maestre può riassumersi così: affermazione dei diritti della libertà di fronte alla legge dubbia; obbligo di attenersi all'opinione per la legge quando questa ha in suo favore ragioni nettamente più forti, atte ad elidere le probabilità contrarie e porre l'opinione per la legge in stato di certezza o quasi certezza.

L'ordine morale, per A., è costituito da un rapporto di conformità tra la volontà e la norma oggettiva, cioè la legge. Tale rapporto è dato dalla conoscenza che ha il soggetto della legge come norma obbligatoria. Da ciò egli è condotto a respingere la probabilità isolata come regola universale di condotta, perché essa, almeno nei gradi inferiori, non è conoscenza; lo è invece la certezza morale in quanto rapporto conoscitivo. Questa certezza però non è quella assoluta richiesta dal tuziorismo, ma una certezza prudente, relativa, quale può esser data, quando non si può ottenere di più, dalla probabiliorità riconosciuta come tale. Quando questa non esiste, cioè nel caso in cui due opinioni si equivalgono di ragioni, e il dubbio non può vincersi direttamente, un principio riflesso certo può metterci in possesso della sicurezza necessaria.

Norma universale, dunque, è la certezza morale. Con ciò A. si stacca dal facilismo dei probabilisti e accoglie il lato migliore del probabiliorismo; ma si stabilisce anche in una posizione di netto contrasto di fronte a tutte le gradazioni del rigorismo, dal giansenismo al tuziorismg. Nel 1764 difatti il campo si mosse. La Breve dissertazione del 1762 fu attaccata dal domenicano G. V. Patuzzi, sostenuto dalle Nouvelles Ecclésiastiques, organo del giansenismo europeo. A. rispose nello stesso anno con una Apologia, seguita poco dopo (1765) da una seconda, più estesa: Dell'uso moderato dell'opinione probabile (tradotta in latino e apparsa nel 1767 nella sesta edizione della Theologia moralis). Il Patuzzi non si arrese; ma attraverso la polemica A. poté chiarire e precisare ulteriormente il proprio pensiero. L'Europa prese contatto con la nuova Morale, alla quale si riconobbe a mano a mano il merito di aver consumato le sorti del giansenismo e le tendenze più discusse del probabilismo. Tutto il pensiero antecedente era stato riassunto: più di 70.000 citazioni da 800 autori attestano da sole il formidabile lavoro di revisione, di critica, di vagliatura compiuto.

La mentalità di A., un po' avversa alle discussioni astratte, riappare identica, dopo la Morale, anche in dogmatica. Così nel problema della predestinazione e della grazia, esaminato ed esposto dapprima nel libretto Del gran mezzo della preghiera (1759) e più tardi in uno scritto, Del modo come opera la grazia, posto in appendice all'Opera dogmatica contro gli eretici pretesi riformati (1769). Partendo dal dogma della Redenzione universale, A. stabilisce, in polemica con Giansenio, l'esistenza di una grazia sufficiente egualmente universale, valida per la posizione di alcuni atti che egli chiama imperfetti o incoativi. Principale, tra questi, è la preghiera, la quale, perché atto umano emesso sotto l'impulso della grazia, chiarisce il carattere "efficace" ed operativo di questa. Con ciò A. raggiunge, al di là dei sistemi classici della teologia posttridentina, la più certa tradizione agostiniana, con il suo metodo psicologico-descrittivo e con la sua dottrina che non scruta il mistero, ma lo afferma e ne trae soltanto norme di condotta pratica.

La morale e la dogmatica come la predicazione. Ne lasciò larghi estratti: Selva di materie predicabili (1760), diretta alla formazione del clero; Lettera... ove si tratta del modo di predicare all'apostolica con semplicità (1761), in cui riprende i motivi del muratoriano Dei pregi dell'eloquenza popolare, contro certi sermonari del tempo, ornati e trapunti; Sermoni compendiati per tutte le Domeniche dell'anno (1771), che costituiscono una specie di manuale pratico ad uso dei predicatori, ma che per i pregi intrinseci di oratoria limpida ed affettiva conobbero grande successo, raggiungendo undici edizioni vivente l'autore.

L'opera di A., già così complessa, si affianca via via alle nuove preoccupazioni ispirate dalla lotta contro il materialismo, l'indifferentismo religioso e l'incredulità del secolo ed espresse nella Breve Dissertazione con tra gli errori de' moderni increduli oggidì nominati materialisti e deisti, come in analoghi scritti successivi, Verità della fede (1762), Verità della fede contro i materialisti...(del 1767; in appendice una Confutazione del libro francese intitolato dello Spirito), Trionfo della Chiesa ossia i storia delle eresie colle loro confutazioni (1772), Vittorie de' Martiri (1775), con i quali A. si pone, con un suo rilievo, tra le tendenze controversistiche, antirazionalistiche e antilluministiche, e apologetiche della seconda metà del secolo XVIII.

L'ascetica di A. non è influenzata da indirizzi o motivi propri all'una o all'altra scuola. Se si eccettuano alcuni autori preferiti, S. Teresa, S. Francesco di Sales, che egli lesse avidamente, A. Radriguez, G.B. Saint-Jure e qualche altro, dai quali estrasse quanto gli parve conforme alla sua libera pratica cristiana, la dottrina di A. scorre tra i vari temi offerti dalla tradizione con assoluta indipendenza di giudizio. Non è la creazione o la sintesi sistematica che la distingue; sotto questo riguardo sarà sempre inutile tentare di fissare la sua ascetica in uno schema chiuso. Ama distendersi nella tradizione, libera e aperta, ma in questa ha saputo discernere e scegliere. Delle verità che gli si offrono ritiene l'aspetto efficace e salutare, e lo mette in valore, conforme alla sua tendenza già notata. Su alcuni temi, tuttavia, A. insiste con particolare intensità: la preghiera, l'uniformità alla volontà di Dio, che in A. costituisce il termine dell'esercizio di perfezione, la meditazione dei novissimi, la Passione, l'Eucarestia, la devozione alla Vergine.

Si compongono così in unità opere numerosissime. L'Amore delle anime cioè Riflessioni ed affetti sulla Passione di Gesù Cristo (1750), le Saette di fuoco cioè pruove che Gesù Cristo ci ha date del suo amore nell'opera della nostra Redenzione.(1766), la Pratica d'amare Gesù Cristo (1768), uno dei libri ascetici più diffusi del '700, le Riflessioni sulla Passione di Gesù Cristo (1773), ecc. indicano temi importanti dell'ascetica di A.; l'esercizio della perfezione viene considerato particolarmente nelle Meditazioni per otto giorni di esercizi spirituali in privato (1761), e nella Via della Salute cioè Meditazioni e pratiche spirituali per acquistare la salute eterna (1766), mentre alla perfezione propria dello stato religioso sono dedicati La Vera Sposa di Gesù Cristo cioè la Monaca Santa per mezzo delle virtù proprie di una religiosa (1760) e gli Stimoli a religiosi e Stimoli ad una religiosa (1775)

La meditazione del fine ultimo dell'uomo trova la sua espressione più compiuta nelle Massime Eterne cioè Meditazioni per ciascun giorno della settimana e soprattutto nell'Apparecchio alla morte cioè Considerazioni sulle Massime Eterne (1758). Tali motivi ritrovano sempre il loro aspetto consolante, più avvertibile nella Novena del S. Natale (1758), nella Novena del Cuore di Gesù (1758) - quest'ultima di grande importanza per la diffusione della devozione al Cuore di Gesù allora combattuta aspramente dai settori rigoristi e giansenisti italiani - e nelle Visite al SS. Sacramento ed a Maria SS. per ciascun giorno del mese (1746), opera estremamente significativa nella pietà cattolica poiché A. - fissò con essa definitivamente in forme semplici e accessibili la pratica della visita sacramentale.

È questo un insieme di scritti attraverso i quali A. riusci a segnare della sua impronta il sentimento religioso del suo tempo e del secolo successivo. Non si esagera dicendo che si deve a lui principalmente se le grandi teorie della mistica e dell'ascesi, le quali con s. Francesco di Sales erano uscite dalla scuola ed entrate nella cosiddetta buona società, uscirono anche da questa e si riversarono tra il popolo. A. nell'ultima storia del pensiero cattolico, senza parere, è stato colui che ha ritrovato le vene dell'antica concezione eroica del cristiano ed ha, nella sua vita e nella dottrina - umile soltanto nella veste -, rinnovato i grandi teorici dell'amore di Dio, come li aveva conosciuti il Medioevo.

In questo suo muoversi su vie già note e trascegliere e potenziare temi tradizionali o dare compiutezza a temi ancora incertamente definiti di devozioni più recenti, sarà da porre anche il significato più valido della sua opera mariologica.

Le glorie di Maria (1750), cui A. attese dal 1734, si presentano come una sintesi - forse la più compiuta tra le molte opere analoghe comparse tra il Cinque-Settecento - dei temi mariani più vari, ascetici, devozionali, storici, dogmatici. L'idea centrale è enunciata in un "Avviso al lettore" dove A., riferendo un testo di Pierre Nicole, dà i primi chiarimenti su una proposizione che ricorrerà frequentemente sotto la sua penna: "Dio vuole che tutte le grazie che noi riceviamo passino per le mani di Maria". È la dottrina della mediazione universale di Maria che forma l'oggetto di sviluppi ampi e spesso ricchissimi di riferimenti patristici e medievali. È soltanto occasionale il tono polemico assunto da A. nel capitolo quinto contro il libro Della regolata divozione (1747) del Muratori. Con grande riguardo ma con fermezza A. si dichiarò, analogamente al gesuita Piazza, uno dei più decisi sostenitori delle prerogative mariane, poggiando sul significato del consensus fidelium e sull'importanza capitale del fatto liturgico sancito dal magistero della Chiesa (attraverso la bolla di Alessandro VII, Sollicitudo omnium Ecclesiarum, che aveva definito la legittimità del culto dell'Immacolata). Difese perciò come certa la dottrina dell'Immacolata Concezione, affermando la validità della pia pratica fondata non su una opinione, ma su una credenza universale della Chiesa. Alla mediazione universale di Maria, ancora contro il Muratori, che aveva definito "esagerazioni divote" le affermazioni dei Padri e dei teologi in materia e che aveva intravisto nell'accentuazione del ricorso a Maria una svalutazione della mediazione del Salvatore e del culto a Lui dovuto, A. diede fondamento teologico non ancora formulato sino ad allora con tanta chiarezza, richiamandosi alla cooperazione di Maria all'opera di redenzione.

Attraverso gli scritti mariani circola però sempre l'esigenza pastorale di A.: la devozione alla Vergine che induce l'autore a scegliere tra due opinioni quella più favorevole a Maria, offre nuova forza ai deboli e agli erranti. In tal modo l'opera di A. si innesta armonicamente in quella che fu la preoccupazione dominante di lui di offrire ai fedeli imezzi più idonei alla ascesa salvifica.

Nel 1762 dovette accettare suo malgrado il vescovato di S. Agata dei Goti impostogli da Clemente XIII. La sua opera si compendia in una vasta bonifica dei settori più importanti: il seminario, il clero, il pubblico costume. Il primo rifatto anche materialmente e ripiantato su nuove basi.

Un Regolamento per i seminari, pubblicato nel 1756 per la riforma del seminario di Nola, è imposto come norma a quello di S. Agata. Le cure più attente tuttavia sono rivolte al clero, basso di tono e tutt'altro che rispondente al suo concetto altissimo. Nel 1764 pubblica Il confessore diretto per le confessioni della gente di campagna, riassunto dalla Istruzione e pratica, ma in forma piana adatta a quell'infima categoria di preti. Una Istruzione al popolo sovra i precetti del decalogo (1767) tende invece ad elevare la cultura religiosa dei diocesani; ma è anche un contrapposto ai molti catechismi di contenuto equivoco, tra i quali uno del Mésenguy, giansenista, incoraggiato dal Tanucci e diffuso con meditata larghezza.

Estesa e densa di episodi significanti la campagna per la moralizzazione della vita pubblica: dalla predicazione alla istruzione popolare, al sollevamento economico dei poveri, al richiamo energico. Nel 1769 la sua persona, già piegata da frequenti infermità, subì, per un'artrite deformante, quella incurvatura della testa sul petto che oggi vediamo nelle riproduzioni iconografiche. Da allora il pensiero della rinuncia ad un ufficio ritenuto troppo gravoso assunse l'urgenza di un dovere. Un primo tentativo presso Clemente XIII era rimasto senza effetto. La domanda, ripetuta a Pio VI, fu accolta nel 1775. Si ritirò tra i suoi religiosi nel collegio di Nocera dei Pagani, ed ivi trascorse gli ultimi anni, sotto la lima di prove durissime.

Morì il 1 agosto 1787.

L'epoca che segui alla sua morte, dai primi dell'800, detratto il periodo rivoluzionario, alla fine del secolo, è segnata dalle tappe della sua salita. Ascritto tra i beati nel 1816, fu canonizzato da Gregorio XVI nel 1839. Pio IX, nel 1870, lo proclamò dottore della Chiesa.

La sua Morale rompe facilmente le resistenze del giansenismo. P. B. Lanteri, s. Giuseppe Cafasso, s. Giovanni Bosco in Italia; il cardinale Gousset e C. Mazenod in Francia; A. Diesbach nella Svizzera e in Baviera; A. Hennequin nelle Fiandre; A. Waibel in Germania, sono tra i più validi propagatori; i suoi libri di ascetica corsero il mondo in tutte le lingue. Il popolo se ne saturava. Più in alto, la filosofia, ma con una differenza: Soeren Kierkegaard notava nel sentimento religioso dell'asceta di Napoli rispondenze d'anima che lo staccavano senza pentimenti dal pietismo protestante; altri, Gioberti, Döllinger, se ne infastidivano. Per essi A. non è il tecnico della penna, non riferisce il molto che egli ricava dai Padri, dagli scrittori medievali con esattezza "scientifica", incamera squarci d'altri scritti spesso senza avviso, insomma "non ha nulla dello scrittore di cartello, del cattedratico di prammatica". Non è il suo male. Rimane, nonostante la sua tecnica settecentesca, il senso della sua religiosità, la sua direzione. A. sentì "che la sua originalità più vera consisteva nella via da lui aperta al nuovo senso morale e spirituale, nelle anime: nuovo, si è detto, ma bisognava dire antico e nscoperto, sgombrato dai rovi, ritracciato dov'era cancellato, raddrizzato dov'era stato storto per ingenuità o malafede. Ritrovò l'antica via, fattasi feroce e deserta; ed era invece consolata di fonti di case di alberi d'incontri" (G. De Luca, nel vol. Introd. gen. alle Opere ascetiche di S. A., Roma 1960, pp. XII, XIII, XVI).

Opere: comprendono ben 111 numeri, suddivisi in opere morali, dogmatiche, ascetiche. Elenco completo in M. de Meulemeester, Bibliographie générale des écrivains Rédemproristes, I, Bibliographie de S. A., Louvain 1933, rassegna delle edizioni e traduzioni, con brevi indicazioni bibliografiche sotto le singole opere. Ivi anche i manoscritti, rari, e gli inediti.

Fonti e Bibl.: Alcuni fondi manoscritti conservati nell'Arch. gen. dei Redentoristi, Roma, con la segnatura: Notizie biografiche di S. A., tre serie, XXV, XXVI, XXVII. Importanti due libretti autografi, specie di Diario, dal 1730 circa in poi, segnati: S. A. M., VI, 9, 10.

Processi, informativi e apostolici. Gli originali manoscritti si conservano, parte nella Bibl. naz. di Parigi: H 359,A 224-240; parte nell'Arch. Segreto Vaticano, Sez. Riti, 2075-2083.

Opere a stampa da annoverare tra le fonti: Lettere di S. A., 3 voll., Roma 1887; A. Tannoia, Della vita ed istituto del ven. A. d. L., Napoli 1798-1802 (le parole del testo chiuse tra virgolette e senza rinvio sono del Tannoia); A. Rispoli, Vita del B.A. d. L., Napoli 1834; G. Cardone, De vita ven. servi Dei A. M. d. L., Romae 1796; Spicilegium Historicum C. S.S. R.,1953 e ss.

Biografie: A. Capecelatro, La vita di S. A. M. d. L., Roma 1893; C. Villecourt, Vie et institut de S. A. d. L., Tournai 1863; A. Berthe, Saint Alphonse d. L., Paris 1896, trad. it. di A. Alfani, Firenze 1903; C. Dilgskron, Leben des h. Bischofs u. Kirchenlehrers A. v. L., Regensburg 1887; W. Faber, The life of S. A. d. L., London 1848; Angot de Rotours, Saint Alphonse de L., IV éd., Paris 1913; G. Getto, S. Alfonso de Liguori, Milano 1945; R. Telleria, San Alfonso de Ligorio, Madrid 1950, importante per le indicazioni d'archivio.

Studi: sono molti, ma scarsi quelli provvisti di informazione seria. Manca tuttora uno studio sull'origine e sviluppo del pensiero morale di A. inquadrato nelle correnti del Cinque-Settecento. Notevoli: L. Gaudé, De morali systemate S. A., Romae 1894; S. Mondini, Studio storico-critico sul sistema morale di S. A., Monza 1911; E. Ter-Haar, De systemate morali antiquorum probabilistarum, Paderborn 1894; Id., Das Dekret des Papstes Innozenz XI über den Probabilismus, Paderborn 1904; F. Delerue, Le système moral de S. A., St. Etienne 1929; J. Aertnys, Probabilismus oder Aequi-Probabilismus, Paderborn 1896; J. De Caigny, De genuino morali systemate S. A., Bruges 1901; G. Cacciatore, S. A. e il giansenismo, Firenze 1944; C. Keusch, Die Aszetik des h. A. v. L.,Paderborn 1924, trad. ital., Milano 1931; C. Dillenschneider, La mariologie de S. A., Fribourg 1931, opera pregevole, da tenersi presente da chi voglia conoscere il pensiero mariologico di A.; G. Cacciatore, La spiritualità di S. A., in Le scuole cattoliche di spiritualità, 3 ed., Milano 1949; M. de Meulemeester, Influences ascétiques de S. A. en Belgique, Esschen 1923.

Ricerche: S. A., Contributi bio-bibliogr. ,Brescia 1940; O. Gregorio, Ricerche intorno alla causa feudale perduta nel 1723 da A. d. L., in Arch. Stor. per le prov. napol., n.s., XXIV (1953-55), pp. 183-203; Id., Bicentenario di un Duetto, in Ecclesia, aprile 1960. É in corso una nuova edizione critica delle opere ascetiche di A.; pubblicato un vol. di Introduzione generale, a cura di O. Gregorio, G. Cacciatore, D. Capone, con "Premessa" di G. De Luca, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 1960: sembra il primo vol. di ricerca condotta con metodo sulla letteratura religiosa del Sei-Settecento e sulla formazione del pensiero ascetico di s. Alfonso. Per altre indicazioni bibliografiche rimandiamo al vol. cit. del de Meulemeester, pp. 27-35.

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