ALFREDO il Grande, re di Wessex

Enciclopedia Italiana (1929)

ALFREDO il Grande, re di Wessex

Francesco Viglione

Con la sua complessa figura, egli (848-899) domina tutta la storia d'Inghilterra dell'alto Medioevo, eccellendo tanto come guerriero, statista e legislatore, quanto come uomo pio e virtuoso, e protettore e cultore egli stesso eccellente degli studî. Quando salì al trono (aprile 871), trovò il regno seriamente minacciato dalle secolari invasioni dei Danesi; e benché riuscisse, sulle colline di Ashdown, a riportare una splendida vittoria, pure, battuto e umiliato in altri meno fortunati scontri, fu costretto a far pace. Pochi anni dopo (878), riapparsi gl'invasori davanti a Chippenham, il giovine re fuggì riparando ad Athelney; ma qui, riorganizzato l'esercito con nuovi elementi delle vicine contee, forte delle passate esperienze, riuscì ad infliggere ai Danesi, nei dintorni di Ethandun, una sconfitta decisiva, tanto che il loro re, Guthrum, chiese ed ottenne il battesimo. Sancita la pace col trattato di Wedmore, A., prevedendo nuovi pericoli, pensò di sistemare in modo organico la difesa. Fortificò i punti più deboli, costruì nuove fortezze, aumentò le guarnigioni, obbligò i possessori d'una certa quantità di terreno a entrare nel suo servizio militare (thegns o gesiths), divise la milizia nazionale (fyrd) in due parti, che si alternassero sotto le armi, diede maggiore sviluppo alla flotta, da poco ordinata. Avvenne perciò che quando i Danesi, che frattanto si erano diretti contro la Francia e avevano subito sconfitte dall'imperatore Arnolfo, si rivolsero di nuovo, con raddoppiato furore, contro l'Inghilterra, trovarono una ben salda resistenza. Divisi in due eserciti, essi si accamparono, l'uno più numeroso ad Appledore, l'altro più esiguo a Milton, sotto il nuovo capo, Haesten (892). Alfredo, interponendosi come un cuneo tra i due, riuscì a sconfiggere il primo a Benfleet, il secondo a Buttington; indi chiuse il Tamigi, imbottigliando le forze dei Danesi, i quali, visto il pericolo, posarono le armi e si sbandarono. Con l'896, la non breve e non facile lotta terminava: gl'invasori erano definitivamente ricacciati, e nel regno di A. subentrava la tranquillità che contrassegna i suoi ultimi anni di governo. Importantissima era stata l'azione politico-militare di A., che aveva salvati gli Anglo-Sassoni dal pericolo normanno, e che aveva assicurato al Wessex una riconosciuta egemonia su tutta l'Inghilterra non danese e non celtica; non meno importante fu la sua azione interna, volta a organizzare più stabilmente lo stato, a consolidarne l'assetto legislativo. Il Codice di A. è una silloge delle leggi dei predecessori, Ine, Offa, Etelberto; ma egli raccolse, vagliò, scelse, queste leggi; e, se non gradite a lui, le sottopose alla ratificazione dell'assemblea nazionale (witenagemot); mentre invece, se a lui bene accette, le adottò senza le approvazioni dei Witan, instaurando così, molto prima di Guglielmo il Conquistatore, la massima romana e giustinianea che quel che piace al principe ha vigore di legge. Alfredo cominciò inoltre a legiferare anche in opposizione al diritto consuetudinario (folcriht) su cui si era imperniato, in origine, l'assetto sociale e politico degli Anglo-Sassoni: nel che si deve vedere l'effetto della maggiore autorità acquistata dalla monarchia. Della sua opera legislativa qui basti ricordare che, oltre a rafforzare l'autorità regia nelle assemblee regionali, fu volta a modificare il diritto privato in modo da assicurare un più sicuro funzionamento della giustizia. A. temperò la severità della ammende per offese personali, in armonia con le peggiorate condizioni economiche, dopo le invasioni dei Danesi. Dispose che chi avesse motivo di querela verso altri, non dovesse farsi ragione se non dopo aver chiesto un atto di riparazione, e solo se questa gli fosse negata, potesse impadronirsi dell'avversario e tenerlo per trenta giorni in custodia, finché i parenti, informati, non pagassero la multa: sensibile passaggio, questo, dalla giustizia privata al procedimento legale. Nel complesso, queste leggi volevano dire maggior prestigio dell'autorità dello stato, maggiore giustizia e mitezza. Ad esse Alfredo premise le leggi di Mosè, quasi a far intendere che egli aveva preso l'ispirazione da Dio.

Ma il gran re era convinto che all'elevazione della coscienza nazionale non bastassero le leggi, e fosse necessario, come leva potente, l'amore della cultura. Per questo egli intraprese una serie di traduzioni, in anglosassone, da opere latine di maggior fama nel Medioevo, premettendovi preziose prefazioni, che rivelano il suo metodo e i suoi intenti. Cominciò con la Cura Pastoralis di papa Gregorio, eccellente guida per la vita dello spirito; continuò con la Historia adversus Paganos, di carattere universale, di Paolo Orosio, inserendovi di suo le relazioni dei viaggiatori Ohtere e Wulfstan sui paesi e mari scandinavi; e chiuse il primo periodo di questa sua attività letteraria con la Historia Ecclesiastica gentis Anglorum, di Beda, oggetto di orgoglio nazionale per gli AngloSassoni. Al secondo periodo, cioè ad una fase di studî più larghi e più maturati, appartengono la traduzione del libro di Boezio, De consolatione Philosophiae, e varie opere attribuite ad A. oppure da lui ispirate: Soliloqui di Agostino, Dialoghi di Gregorio, Proverbî, ecc. Insomma i tesori della cultura, pagana e cristiana, più apprezzati nel Medioevo, Alfredo diffuse, con crescente libertà di interpretazione, fra il suo popolo. Traducendole in anglo-sassone, egli contribuiva anche a creare la prosa nazionale, non ancora formata, laddove formata e ricca era la poesia, con poeti quali Caedmon e Cynewulf. Ma al di sopra di tutte le traduzioni, si eleva per il contenuto e il tono ispirato l'Anglo-Saxon Chronicle, modello di storia nazionale dei popoli occidentali, nella quale, nonostante le ancora malsicure conclusioni della critica, certo re Alfredo ebbe parte, se non direttamente, indirettamente, con il disegno, il consiglio e l'incoraggiamento. Con tutto questo, nessuno potrà affermare che egli fosse un genio creatore; egli riuscì tuttavia ad appropriarsi la cultura dei tempi e a diffonderla in mezzo al suo popolo. In ogni modo, guerreggiando, ordinando leggi, scrivendo o ispirando le altrui scritture, Alfredo elevò tanto il prestigio del suo regno che ben presto le altre parti dell'Inghilterra cercarono la sua amicizia e la sua protezione. Nei secoli precedenti la supremazia dal Kent era stata religiosa, quella di Northumbria letteraria, quella di Mercia militare. Ora, l'egemonia della monarchia di Wessex fu, per opera di Alfredo, insieme religiosa, letteraria, militare, politica in sommo grado. Il grande re spinse l'occhio anche oltre le isole britanniche: chiamò dalla Francia e dalle Fiandre persone reputate per cultura, coltivò relazioni con Roma e offerse doni alla corte papale, inviò ambascerie a Gerusalemme, e, si dice, anche nelle Indie. Alfredo il Grande, nipote per parte di madre di Carlo Magno, ebbe della sua missione di sovrano una concezione non insulare, ma cosmopolitica; e gl'Inglesi, anche oggi, riconoscono in lui l'iniziatore della loro grandezza, designandolo, come già amorevolmente lo designò uno scriba del secolo XII: Alfred, England's Darling, il "diletto d'Inghilterra".

Opere e fonti: l'ed. completa delle opere di A. è quella di J. A. Giles, The Whole Works of king Alfred the Great, ed. del Giubileo, voll. 3, Oxford e Cambridge 1858. Per le ed. delle singole opere, cfr. The Cambridge history of English Literature, I, Cambridge 1920, pp. 437-440 (in cui pure la bibl. relativa). Fonte principalissima per la vita di A. è la Asser's Life of Alfred, together with the Annals of St. Neots, erroneously ascribed to Asser, ed. W. H. Stevenson, Oxford 1904.

Bibl.: R. Pauli, König Aelfred und seine Stelle in der Geschichte Englands, Berlino 1851; C. Plummer, The Life and Times of Alfred the Great, Oxford 1902. Sulla sua attività di studioso S. A. Brooke, King Alfred as educator of his people and man of letters, 1901; The Cambridge History, cit., pp. 88-107; M. Manitius, Geschichte der lateinischen Literatur des Mittelalters, II, Monaco-Berlino 1923, pp. 646-656.

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