Alpinismo

Universo del Corpo (1999)

Alpinismo

Guglielmo Antonutto

L'alpinismo è l'attività sportiva consistente nell'ascendere sulle montagne mediante la tecnica dell'arrampicata. Come tale esso nasce intorno alla metà del 19° secolo. Precedentemente solo necessità contingenti avevano spinto l'uomo ad affrontare le cime più alte. Negli ultimi decenni la pratica sportiva dell'arrampicata si è enormemente diffusa, anche per i progressi della tecnologia di produzione dei materiali.

Cenni storici

Prima del 19° secolo manca una tradizione alpinistica autoctona, verosimilmente per il carattere tabu della montagna, testimoniato dal ricco patrimonio di leggende, per lo più a contenuto orrifico, gravitanti attorno alle cime più alte; salite su montagne o valichi di passi montani in alta quota sono legate finalisticamente a guerre, caccia, esplorazioni geografiche, lavoro. Dal 1850 in poi, la sistematica salita delle Alpi, fine a sé stessa, è attività caratteristica dei gentiluomini inglesi e non può prescindere, almeno ai suoi esordi, dal contributo dei valligiani che svolgono un ruolo, sia pure naïf, di guide. Caratteristico di questo stato di cose è il sodalizio di E. Whymper con M. Croz, che li porterà a scalare, per primi, la cima del Cervino il 14 luglio 1865. Croz e altri tre compagni di cordata periranno nella discesa. Whymper, solitario vincitore, marchiato dal senso di colpa per l'accaduto, continuerà inquieto a violare altre vette, soprattutto delle Ande, fino alla morte nel 1911. Già agli esordi sono presenti tutti gli elementi caratteristici di questa prima fase, eroica o 'patriarcale', dell'alpinismo: l'aspetto sociale elitario, la condivisione della conquista della cima con l'indigeno divenuto 'guida', la competizione con altri, che porterà a nuove vie di salita sempre più difficili per aspetti tecnici intrinseci o estrinseci.La competitività orienta ben presto gli alpinisti a tentare la conquista di montagne sempre più alte.

Ne derivano stimoli potenti per la ricerca scientifica sugli effetti dell'esposizione dell'organismo umano alle basse temperature e all'aria rarefatta delle alte quote e sui relativi rischi: assideramento, congelamenti, edema polmonare e cerebrale. Si giunge così fino a prestazioni eccezionali, tra le quali vale la pena di ricordare, per tutte, la scalata, nel 1978, della cima dell'Everest, senza bombole di ossigeno, da parte di R. Messner, in compagnia di P. Hebeler. Messner rimane a tutt'oggi l'unico alpinista vivente ad aver scalato tutte le quattordici montagne della Terra la cui cima supera gli 8000 m.La transizione tra la fase pionieristica e quella moderna dell'alpinismo è caratterizzata anche dall'esigenza di documentare e registrare le salite mediante relazioni sulle riviste delle associazioni che, sulla falsariga dell'Alpine club inglese del 1857, si sono costituite nelle diverse nazioni. Il Club Alpino Italiano viene fondato nel 1863 e nel 1879 inizia la pubblicazione della sua Rivista mensile. La descrizione delle salite e la classificazione delle difficoltà esigono criteri omogenei. Nel 1926 entra in uso nelle Alpi la scala di Welzenbach che suddivide le difficoltà di salita in 6 gradi. Nel 1978, a seguito della pubblicazione del libro provocatoriamente intitolato Il settimo grado di Messner (1972), è introdotto un ulteriore settimo grado.

L'arrampicata

L'arrampicata è "termine dal significato ampio, che indica modi assai diversi di procedere su pendii e pareti, non solo in alta montagna ma più generalmente su formazioni rocciose o ghiacciate, ovunque esse siano" (Club Alpino Italiano 1986). Essa comprende il sassismo come l'alpinismo d'alta quota, il free-climbing come le ascensioni delle più alte cime del globo, e si può anche applicare alle salite su cascate di ghiaccio o su grandi pareti ghiacciate. Nell'arrampicata l'impegno non è limitato ai soli arti inferiori, ma coinvolge anche quelli superiori. Poiché, tuttavia, questi ultimi sono meno forti e meno resistenti allo sforzo protratto di quelli inferiori, a essi è riservato più un ruolo di mantenimento dell'equilibrio che di sviluppo di forza per 'tirare su' il corpo. La salita, pertanto, avviene mediante il reperimento di successive posizioni di equilibrio del corpo, che rimane staccato dalla roccia e il cui peso è scaricato sugli arti inferiori. Nel frattempo, l'alpinista identifica e valuta con il tatto e la vista gli appigli che gli consentiranno il passo successivo. Egli muove un solo arto per volta rimanendo in equilibrio con gli altri tre. Questi semplici movimenti costituiscono lo stile di arrampicata, caratteristico di ciascuno scalatore e destinato, nel singolo, ad affinarsi con l'esperienza, l'allenamento e il conseguente apprendimento motorio volto a minimizzare il dispendio energetico.

Considerazioni biomeccaniche e bioenergetiche

Lo stile di arrampicata non può prescindere dai seguenti presupposti biomeccanici e bioenergetici: 1) la forza di contrazione è proporzionale alla superficie di sezione trasversale del muscolo, ciò che, insieme alle diverse caratteristiche delle fibre muscolari, giustifica la maggior forza di resistenza degli arti inferiori rispetto a quelli superiori; 2) la velocità della contrazione muscolare è inversamente proporzionale alla forza sviluppata; 3) la massima forza è sviluppata a una lunghezza ottimale del muscolo; 4) gli sforzi statici (isometrici) sono particolarmente onerosi dal punto di vista energetico, in quanto inducono una condizione di temporanea anaerobiosi.

Che la forza sviluppata da un muscolo sia proporzionale alla sua superficie trasversa è nozione comune che informa gran parte degli esercizi preparatori ad attività sportive di forza, quali, per es., il sollevamento pesi. Si può ritenere che un muscolo sviluppi una forza pari in media a 50 N per cm². La massima forza muscolare svolge un ruolo prevalente nelle forme di progressione in parete più inerenti all'arrampicata libera e a quella sportiva che alla vera e propria attività alpinistica. In questo contesto giova considerare il diverso comportamento del tessuto muscolare a seconda del tipo di fibre che lo costituiscono. È noto, infatti, che le fibre muscolari si dividono in due tipi principali: lente, a prevalente metabolismo ossidativo (tipo I), e rapide, a prevalente metabolismo anaerobico (tipo II). Le fibre di tipo lento, ossidativo, costituiscono la maggior parte delle unità motrici dei muscoli a funzione antigravitaria, destinati cioè a sostenere il peso del corpo mantenendolo verticale. Sono questi i muscoli che l'alpinista impegna maggiormente nel fissare la posizione in parete nel corso della progressione. Tali muscoli, situati nel dorso e negli arti inferiori, essendo molto resistenti alla fatica consentono il mantenimento della posizione per periodi anche lunghi.

Diversamente, i muscoli delle braccia sono costituiti per lo più da unità motrici di tipo veloce. La forza che essi possono sviluppare è grande, ma il rapido consumo dei substrati energetici a opera del dispendioso metabolismo anaerobico li rende poco resistenti alla fatica. Non è pertanto possibile mantenere per lunghi periodi la posizione in parete con il corpo letteralmente 'appeso' alle braccia.Il rapporto di proporzionalità inversa esistente tra la forza e la velocità della contrazione muscolare riveste importanza in occasione dei movimenti veloci necessari al superamento di passaggi critici, a volte notevolmente esposti. In tal caso può essere utile un precedente contromovimento di 'pendolamento' al fine di immagazzinare energia negli elementi di tipo elastico del tessuto muscolare, energia che viene in seguito restituita nel corso del balzo, un po' come accade nella rincorsa preparatoria degli atleti intenti a spiccare un salto.I muscoli sono inseriti sui segmenti ossei dello scheletro, di norma in modo tale che la loro lunghezza, a riposo, sia ottimale al fine dello sviluppo della forza. A tale lunghezza, nelle miofibrille infatti è massima la possibilità di interazione tra le teste di miosina e i siti reattivi dell'actina, cioè le due strutture muscolari che costituiscono il generatore di forza alla base della contrazione muscolare. Ne segue che l'alpinista deve evitare di far presa su appigli che richiedano un eccessivo allungamento muscolare. I muscoli possono essere comunque 'educati' a lavorare a lunghezze superiori con l'allenamento mediante esercizi cosiddetti di stretching o allungamento.

Da ultimo, l'alpinista deve evitare di assumere posizioni o compiere sforzi con modalità isometriche, agendo, cioè, contro una resistenza infinita. In tal caso la contrazione muscolare, di tipo tetanico e protratta, sfavorirebbe dapprima e impedirebbe a lungo andare il necessario apporto di ossigeno da parte della circolazione al muscolo che lavora. I vasi sanguigni tributari, infatti, sarebbero compressi dalla massa muscolare contratta che li circonda. In altri termini, tale modalità di lavoro porta rapidamente il muscolo in condizioni ischemiche, il che equivale a porlo in condizioni metaboliche di tipo anaerobico.I muscoli traggono l'energia necessaria alla contrazione dalla scissione dell'acido adenosintrifosforico (ATP), che va rinnovato continuamente.

Ciò avviene grazie all'impiego, in tempi brevissimi (〈 10 s), della fosfocreatina o, in tempi un po' più lunghi (40 s circa) della glicolisi anaerobica con conseguente produzione di acido lattico o, infine, per tempi anche molto lunghi della completa ossidazione di glucidi e lipidi. I primi due meccanismi sono limitati nel tempo, dato che provocano una veloce deplezione delle riserve energetiche muscolari e, per la glicolisi anaerobica, anche acidificazione del tessuto muscolare. Ciò pone un limite temporale breve alla prestazione, che non esiste invece per il meccanismo ossidativo. Il lavoro meccanico netto compiuto dall'alpinista è proporzionale al prodotto del peso sollevato per il dislivello. Il rapporto tra il lavoro meccanico e l'energia consumata, espressi nelle stesse unità di misura, è il rendimento della salita che, in conformità con le leggi della termodinamica, è 〈 1, una parte dell'energia essendo dispersa in calore. La salita in parete ha luogo su terreno irregolare, in modo discontinuo e implica l'attività di gruppi muscolari disparati (le braccia in primis) spesso impiegati in condizioni statiche, ciò che conduce a un rendimento di 0,08-0,1 (8-10%), nettamente inferiore al rendimento ottimale della contrazione muscolare (0,25-0,30).

Tecniche e materiali

a) Arrampicata su roccia. Due sono le tecniche fondamentali di arrampicata su roccia: diretta e in opposizione. La prima avviene lungo un piano frontale variamente inclinato, la parete rocciosa: per salire lo scalatore si avvale dell'azione combinata degli arti superiori e inferiori sfruttando le asperità della roccia. Nell'arrampicata in opposizione lo scalatore utilizza appigli e appoggi che si trovano su due differenti pareti rocciose angolate a costituire un diedro, o completamente separate e parallele a formare un camino; la reazione di appoggio che sostiene il peso dello scalatore è fornita contemporaneamente dalle due pareti contro le quali i piedi spingono in direzioni opposte poggiando su asperità della roccia: punti di appoggio, superfici di aderenza o cavità di incastro. La valutazione di affidabilità, accessibilità e distanza di appigli e appoggi è cruciale. La funzione degli arti superiori dovrebbe essere limitata agli aggiustamenti e al mantenimento dell'equilibrio, ma quando ciò non è possibile essi contribuiscono all'azione propulsiva mediante trazioni o spinte. In ogni caso, la progressione prevede dapprima l'innalzamento degli arti inferiori seguito da quelli superiori. Nel caso dell'arrampicata diretta il movimento di un arto presuppone la fissazione degli altri tre; nel caso dell'arrampicata in opposizione il movimento di un arto inferiore presuppone la messa in tensione dell'altro arto inferiore e di quello superiore controlaterale.

La scarsità di appigli su di un tratto di parete lo fa definire 'placca', il cui superamento richiede l'aderenza degli arti inferiori. La presenza di un'estesa fessura al margine della placca consente tecniche di progressione 'alla Piaz', o 'alla Dülfer', per cui il peso del corpo è sostenuto dall'azione congiunta di sostegno dei piedi e di trazione degli arti superiori con presa delle mani sul margine della fessura. Nel caso del camino, costituito da due pareti sostanzialmente parallele delimitanti uno spazio che consente allo scalatore di muoversi all'interno, la tecnica di arrampicata è in opposizione: 'in spaccata', frontale, o sagittale, o con aderenza della schiena su una parete e spinta dei piedi sull'altra. Se nella parete rocciosa è presente una fessura, lo scalatore potrà avvalersi della tecnica cosiddetta 'alla Comici', nella quale i piedi forniscono l'appoggio e gli arti superiori assicurano l'aggancio alla parete esercitando una trazione opposta sui margini della fessura come a volerla aprire. Trazione degli arti superiori e appoggio, o aderenza, su quelli inferiori saranno usati anche per superare formazioni rocciose tipo 'spigolo-lama' al margine di pareti non troppo inclinate. Il superamento di strapiombi o tetti rappresenta la difficoltà maggiore dell'arrampicata perché in questo caso gli arti superiori devono sostenere la maggior parte del peso del corpo in posizioni anche di forte allungamento. Le tecniche descritte possono essere utilizzate per la salita 'in libera', ossia con l'uso di chiodi al solo fine di assicurare lo scalatore alla parete.

Dalla salita in libera è derivata l'arrampicata sportiva nelle forme oggi in auge, ove di fatto si è perso il rapporto 'alpinistico' con la montagna mentre vi è la massima esaltazione della tecnica di salita su pareti non necessariamente vaste, ma tecnicamente anche estremamente difficili. Spesso non viene fatto ricorso ad alcun mezzo di assicurazione, secondo una concezione libera, pulita e perfino 'ecologica' dell'arrampicata. L'arrampicata 'in artificiale' prevede invece l'uso di chiodi o di altri mezzi di fissaggio fino a leggerissime ma robuste scalette o staffe pieghevoli, per farne aiuti essenziali alla progressione. Le difficoltà incontrate nel corso dell'arrampicata sono in questo caso classificate con una scala che contempla 5 gradi (A0, A1, A2 A3 e A4, dove A sta, appunto, per artificiale).

b) Arrampicata su ghiaccio. Su ghiaccio, al di là di una pendenza, stimata in genere in 15°, lo scalatore è costretto a intagliare 'gradini' con la piccozza o, più frequentemente, a far ricorso ai 'ramponi', vere e proprie suole supplementari, applicate sotto le scarpe, e munite di dieci o dodici punte metalliche, delle quali le due anteriori, denominate 'calabroni', sono inclinate in avanti e permettono di salire in buona aderenza fino a pendenze di 50-55°. A pendenze superiori, è necessario combinare l'intaglio dei gradini, l'uso dei ramponi, creare prese per le mani e far ricorso alla scalata artificiale, con chiodi da ghiaccio (spesso, ma non necessariamente, a vite). Il pendio di ghiaccio è spesso ricoperto di neve che può essere farinosa, bagnata, ghiacciata, crostosa, dura. Quest'ultima è assai favorevole alla salita, perché consente di sfruttare appieno la tecnica di ghiaccio, ma con maggior sicurezza e minore fatica. Altri tipi di neve sono invece più capricciosi e variabili: per ciascuno di essi va ricercata e adottata la tecnica più appropriata.

c) I materiali. I primi scalatori del Monte Bianco, il medico M. Paccard e il cercatore di cristalli J. Balmat, che ne raggiunsero la vetta il 7 agosto 1786, fecero uso di rudimentali alpenstock (bastoni dotati di un punteruolo di ferro). H.B. de Saussure, scienziato ginevrino e in un certo senso sponsor di Balmat e Paccard, l'anno seguente salì in cima al Monte Bianco con un domestico e diciotto guide, forniti di molta paglia, materassi, assi, picconi, badili e corde. In seguito, de Saussure non farà cenno all'uso della corda, adombrando così una polemica, che con il tempo si farà durissima, sulla liceità, o meno, dell'uso dei mezzi tecnici: corde, chiodi di vario tipo, fino ai cosiddetti chiodi a espansione infissi in fori naturali della parete o praticati ad hoc con trapani o perforatori. Negli anni i materiali sono poi andati incontro a un enorme progresso tecnico. Le corde in fibre artificiali hanno sostituito quelle in canapa, pesanti, facili a imbibirsi d'acqua e quindi a gelarsi e soggette a facile usura. Piccozze, ramponi e chiodi hanno oggi tipologie quanto mai varie in rapporto alle modalità di impiego e sono costruiti con materiali leggeri ed estremamente resistenti. Sono comparsi altri mezzi di fissazione quali le camme e i blocchetti posizionabili nelle fessure della roccia. Il collegamento ai mezzi di fissazione è assicurato mediante moschettoni di varia dimensione e foggia, cordini e fettucce.

L'alpinista veste spesso un'imbragatura che ha preso il posto del vecchio giro di corda in vita. La tecnica di discesa in corda doppia 'alla Piaz' è oggi spesso sostituita dall'uso di discensori metallici delle fogge più varie e collegati direttamente all'imbragatura. L'alpinista dispone attualmente di scarponi con la suola gommata utilizzabili sia in appoggio sia in aderenza o a incastro. La pedula, comparsa negli anni Trenta con suola di corda per le arrampicate in Dolomiti, è oggi riproposta per l'arrampicata sportiva con suola flessibile in mescola di gomma speciale, liscia, molto adatta all'uso in aderenza nel free-climbing. L'abbigliamento, infine, costituito da capi utilizzabili secondo un criterio di 'stratificazione' e realizzato con nuovi tessuti in fibra artificiale, risponde ormai in modo pressoché perfetto alle esigenze climatiche e di termoregolazione, consentendo da un lato l'eliminazione del calore prodotto in eccesso nel corso dell'arrampicata e dall'altro un'efficace protezione dalle basse temperature e da vento, neve e/o ghiaccio.

Bibliografia

club alpino italiano, Tecnica di roccia, Milano, Commissione Nazionale Scuole di Alpinismo, 1986.

m. cappon, Guida alla tecnica alpinistica, Milano, Mondadori, 1984.

c.-e. engel, Storia dell'alpinismo, Torino, Einaudi, 1965.

m. mila, Cento anni di alpinismo italiano, in c.-e. engel, Storia dell'alpinismo, Torino, Einaudi, 1965.

La montagna, a cura di M. Herzog, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1962.

Scalatori, a cura di A. Borgognoni e G. Titta Rosa, Milano, Hoepli, 1939.

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