CONTARINI, Alvise

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 28 (1983)

CONTARINI, Alvise

Gino Benzoni

Nato a Venezia, il 23 apr. 1597, da Tommaso di Gasparo del ramo detto della Madonna dell'Orto e da Marina di Vincenzo Pisani, sin dall'adolescenza la sua esistenza - resa anche disponibile dall'assenza di diretti obblighi familiari ché non prese moglie e non ebbe figli - è totalmente assorbita dall'impegno pubblico.

Contrassegnato da una fitta sequenza di cariche l'esordio degli anni 1618-1623: conservatore alle leggi, provveditore alla Giustizia Vecchia, esecutore delle delibere senatorie, revisore delle cariche pubbliche, savio alle Biave, esecutore contro la Bestemmia, savio agli Ordini, il C. è indotto - in questa fase d'intenso rodaggio - ad un rapido e stimolante assaggio dei problemi strutturali e sovrastrutturali dello Stato (da quelli annonari a quelli amministrativi, da quelli giudiziari e di controllo a quelli legislativi), ad una prima percezione dei suoi complessi meccanismi. Eletto, ancora il 7 dic. 1623, rappresentante veneto presso gli Stati generali delle Province Unite, in ottemperanza alla successiva commissione del 26 apr. 1624, siaccinge sollecito al viaggio: il 12 maggio è a Lucerna donde, toccando Berna e Ginevra, raggiunge Lione il 22 e di lì L'Aja dove, insediatosi già il 3 giugno, esibisce le credenziali il 1° luglio. Suo compito attestare il "contento" di Venezia per ogni "successo et prosperità" olandesi, sua "mira" costante imprimere nella mente di "quei signori" il "candore" della "buona disposizione" della Serenissima nei loro confronti.

L'"affetione", dunque, e l'"unione de gli interessi" sembrano saldare la nuova e la vecchia Repubblica, la quale ultima non tralascia occasione per ribadire la sua simpatia, per esaltare la reciproca concordia. Ma v'è pure un'ombra di preoccupazione laddove viene raccomandato al C. di garantire il più pieno e completo "concambio" per ogni favore; v'è quasi un reticente e contorto timore esorcizzato con profferte sin eccessive d'amicizia quando s'esige ch'egli insista sull'"interesse dei nostri mercanti, perché quanto alli loro dal canto nostro non si manca d'ogni maggior protettione". Al di là dei complimenti trasmessi dal C., resta la differenza tra i due Stati che può portare a sfiorare la divergenza, che può sboccare in momenti di divaricazione. L'Olanda costituisce un terribile colpo di piccone all'ormai scricchiolante edificio della monarchia ispanica, una cocente umiliazione per l'arroganza di questa, un'attestazione della sua deperibilità; Venezia perciò non può che guardare alla nuova Repubblica con partecipe solidarietà. In fin dei conti s'alleggerisce anche in Italia, grazie a quella, la soffocante cappa dei "giogo" asburgico. D'altro canto, però, l'aggressività economica olandese, il suo buttarsi a capofitto con fresche energie nei traffici marittimi, lo imporvisi con disinvolta spregiudicatezza, con duttile capacità d'adattamento, con empiria audacemente inventiva preoccupano e, talvolta, angosciano Venezia ormai spiazzata e distaccata sul terreno della competizione commerciale e nel contempo, invischiata dalla memoria ingombrante dei suoi antichi e irrecuperabili primati tardomedievali e quasi paralizzata dalla tenace affezione ai modi e alle tecniche già fattori di quella perenta egemonia. Una duplicità d'atteggiamento riscontrabile anche nel C., il quale - dopo aver osservato le tensioni tra stadhouder ed élite urbana, dopo aver commentato le tappe del rinnovato impegno bellico antispagnolo, dopo aver assistito alla scomparsa di Maurizio d'Orange e alla successione di Federico Enrico - oscilla, nella relazione conclusiva, appunto tra ammirazione ed allarme. Più lucido però della classe dirigente veneziana nel suo assieme e su di essa in anticipo - da questo punto di vista la relazione sull'Olanda del C. è uno dei testi più penetranti nella selva delle scritture di governo dei '600 veneto -, anziché tentennare perplesso, il C. procede sino ad una forma di comprensione operativa. Capisce, infatti, d'essere allarmato proprio da ciò che ammira; e non esita, di conseguenza, a proporre come modello l'Olanda. Stato di fatto sovrano anche se in attesa di riconoscimento, le Sette Provincie Unite hanno conquistato combattendo la "libertà"; la loro "ribellione" è approdata all'"indipendenza" legittimata dall'avallo anglo-francese, confortata dalla "stima" di Venezia e dall'affermazione crescente. "I Signori Stati" sono, infatti, una "potenza" che, emersa con le proprie forze e per "propria generosità", s'è poi estesa sino ad occupare - sempre "per proprio valore" - "isole" e "fortezze" in acque lontane. Nelle "Indie Orientali", avverte il C., gli Olandesi cacciano i Portoghesi, opprimono i "chinesi", bistrattano gli stessi Inglesi. Li muove la spietata determinazione di perseguire, in ogni caso, il proprio "interesse", il quale non conosce "amicitia o raggione". Il "paese considerabide non per grandezza, ma per sito" s'è volto, con la presa di possesso di posizioni chiave, ad un insopprimibile sviluppo mercantile; si che, pur coi suoi vistosi "mancamenti" di "biade", "vino", "legname", "ferramente", "calcina", "cordaggi", "pece", dispone di tutto ciò in abbondanza. Mirabile per il C. la "nascente repubblica", sbalorditiva la sua forza. Ne anatomizza rapidamente la forma istituzionale col suo latente bipolarismo di "governo in generale" - vale a dire l'Assemblea dei deputati e il Consiglio di Stato presieduto dal principe (una dualità pure questa, suscettibile, inoltre, d'esiti dicotomici) - e "governo in particolare", per cui ogni provincia "tiene regola a parte" e rispetta gli "antichi statuti" e persino le "città particolari" si autogovernano "con regole differente". Finanziariamente - osserva il C. - le uscite, a causa della guerra, superano di gran lunga le entrate; ma va, altresì, rilevato come, tra i cespiti di queste, ci siano "certi fogli collati", senza i quali gli "atti" sono "invalidi" e come, soprattutto, allo Stato affluisca facilmente la moneta attirata dalle garanzie d'un "credito publico" puntualissimo nel corrispondere gli interessi. E, poiché questi superano il 6 %, costituiscono un allettante richiamo per ingenti capitali. Il C. analizza anche l'apparato militare, lo quantifica, lo valuta; sul mare, asserisce senza tema di smentita, nessun "prencipe" può gareggiare con l'Olanda in potenzialità offensiva, "facendosi conto" che disponga d'oltre 4.000 "vascelli atti ad armarsi ad uso di guerra" e di 60.000 marinai. Precisati in pochi nitidi tratti i rapporti cogli altri Stati, dalla guerra, ora "apperta" ora interrotta da tregue, con la Spagna alla "colleganza" con la Francia, dalla "corrispondenza" con la Svezia e l'Inghilterra all'"amicitia" con Venezia e alla "neutralità", quanto meno intenzionale, con l'Impero. Individuate con acume le due anime del calvinismo, quella arminiana e quella, pel momento vincente, gomarista e colti esattamente i riflessi e le implicanze nonché le cause della "discrepanza" in fatto di "predestinatione": più "opulenti e commodi" gli arminiani e inclini alla pace e perciò esposti all'accusa di "spagnolismo"; "seguace di Gomero la plebe", che l'intransigente predestinazionismo indubbiamente fortifica "alla guerra et ai pericoli".

Ma la relazione del C. non coglie soltanto - e sarebbe già molto - una situazione socioeconomica complessa, una realtà politica emergente. Vuole afferrarne l'intima dinamica, stanarne la molla principale. La descrizione travalica in interpretazione: non s'accontenta di lumeggiare l'Olanda, ambisce a strappare il segreto dei suo impetuoso successo. Il C. l'individua nel fondo duro aspro impietoso con se stessa e con gli altri d'una società tutta dedita alla "navigatione e al negotio", costituenti, a detta del C., in assoluto "l'opulenza de' regni, la propagatione dei commodi, la vera miniera dell'oro". Questo lo "spirito che anima quel corpo" ove "tutti o sono mercanti o... marinari"; fattore primario decisivo della loro fervida indefessa attività "l'interesse", il "gran tiranno di quei cuori", che non ammette deroghe e indulgenze. Simile a Venezia, la nuova Repubblica le è, di fatto, antitetica: la Serenissima, sembra sottintendere il C., è troppo indulgente con se stessa, troppo morbida con gli altri, poco decisa, poco audace. Quali le tecniche dello strepitoso decollo olandese? La cantieristica privilegiante l'"agilità" del naviglio, la "peritia" degli equipaggi, la concorrenzialità addirittura sbaragliante dei bassi costi assicurativi ("onde ben si può dire - così il C. - che vadino rovinando tutti gli altri, tirando, a loro ogni commercio"), la lungimirante politica di basse tariffe doganali ché gli introiti erariali poggiano sulle imposte dirette e sulla tassazione dei consumi, l'unificazione degli sforzi di penetrazione e d'allargamento in due accentranti "compagnie", quella delle Indie Orientali e quella delle Indie Occidentali. Vibrantemente partecipe, razionalmente consenziente qui l'esposizione del C., che, dimentico della sua giovane età, dimentico della riverenza dovuta al consesso senatorio, assume un piglio martellante, quasi imperiosamente didascalico. Perentorio il richiamo dell'attenzione sul "punto" dei dazi e quello, complementare, del sistema tributario: "ben vorrei restasse impresso" insiste, quasi dubitoso delle capacità ricettive del Senato. Ha già asserito che "mira" olandese è l'impadronirsi del "mare... in ogni luogo et particolarmente... nella navigatione di Venetia per Levante"; dovere dei senatori veneti la più rigida opposizione, "se non vogliono il tottale eccidio di questa città". Ma come? Il C., debordando con baldanza dai limiti propri della relazione e della sua veste, formula la risposta: facendo come l'Olanda. A suo avviso la città deve scrollarsi di dosso le bardature corporative, riformare radicalmente il prelievo tributario, abbattere l'ingombrante barriera delle esose pretese doganali, attivare con coraggio il volume del traffico e lucrare sull'incremento di questo anziché sull'aumento dei noli assicurativi. Il C. chiede in sostanza alla classe dirigente della città di dimenticare i connotati disegnati nel corso della sua plurisecolare vicenda. Un'esortazione espressa seccamente: "la prudenza di questo... Senato - così il C. - è invitata di navigar conforme al vento, proffittando in quello che dall'universale e da gli effetti viene approvato, non da quello che vannamente persuade l'uso solo, la consuetudine et l'antichità". Il C. esige Venezia si sbarazzi dell'inceppante memoria delle sue glorie medievali. Dall'esempio olandese - ribadisce - "si potranno cavar lumi di molto profitto". Solo così potrà "rissorgere il traffico esangue di questa città"; senza un profondo rinnovamento non può essere restituita all'ardua avventura dei traffici. Assente, però, nel C. il sospetto occorra anche il ricambio del ceto politico. Al di là delle tecniche, il vigore del trend olandese è espressione d'una società movimentata, d'una partecipazione politica più o meno allargata, comunque non cristallizzata come a Venezia.

Il C. evita, invece, di chiedersi se il ripiegamento dell'emporio realtino non vada, anche, collegato all'usura della gestione aristocratica, anche questa un prodotto dell'"uso", della "consuetudine", dell'"antichità", ch'egli vorrebbe spazzar via dall'ambito economico. Ma è possibile un così drastico intervento lasciando intatto l'edificio politico? I mercanti accorrono numerosi "là dove sono meglio trattati", insegna il C; ma elude il fatto gli spazi economici s'aprano in concomitanza con quelli politici e sociali. Un'omissione addebitabile alla sua convinta appartenenza al mondo patrizio, che peraltro, con la relazione del C., scrive una delle sue pagine più ricche di comprensione del presente e, insieme, più percorse di venature autocritiche.

Nominato, sin dal 25 febbr. 1625, ambasciatore in Inghilterra, il C. - dovendo attendere il successore - lascia L'Aja solo alla fine di giugno del 1626 e, bloccato a Rotterdam per oltre un mese dal maltempo, non può essere a Londra prima dell'agosto inoltrato. Impressionato favorevolmente il sovrano con la sua padronanza dell'inglese e guadagnatasi la stima del duca di Buckingham che "più del re medesimo sostiene al Presente il peso del maneggi esterni ed interni del regno", il C. pare il più idoneo ad adoperarsi persuasivamente per attenuare la tensione, allora esacerbata, franco-inglese, motivo di apprensione per la Serenissima perché dannosa alla tenuta del fronte antiasburgico. Avvelenano i rapporti tra le due Corone il brusco allontanamento del seguito della regina Enrichetta di Francia e la rigidezza di Richelieu nell'esigere, ciò malgrado, l'"osservanza - cosi il C. - dell'accordato del matrimonio quanto alla coscienza" di lei e "alla famiglia" alle sue "dipendenze". Ai sospetti sulla regina, accusata di fomentare mene cattoliche e di voler reintrodurre il papismo nell'isola, si aggiungono i contrasti in fatto di commercio marittimo; donde, nell'aprile del 1627, la rottura. Con paziente abilità il C., coadiuvato dai rappresentanti olandesi e danesi e sintonizzato con analoghi sforzi di smussamento condotti a Parigi dall'ambasciatore veneto Giorgio Zorzi, tesse la trama della riappacificazione. Malgrado il peggiorare della situazione per il soccorso inglese alla Rochelle assediata, il C. non desiste dal "divertire" il "precipizio". L'assassinio, del 23 ag. 1628, di Buckingham - la cui avversione, ricambiatissima, per Richelieu costituiva un grosso ostacolo all'appianamento - facilita le mosse dei C. e l'autorizza a stendere "abbozzi" d'un accordo contemplante, per il ritorno alla normalità, reciproche soddisfazioni in materia di religione, il ripristino degli antichi trattati d'alleanza, la ripresa dei traffici, il rispetto dei patto nuziale. Può così proporre, nell'udienza del 20 genn. 1629, la mediazione di Venezia che, dopo laboriose trattative, sbocca nel trattato di Susa del 24 aprile, grazie al quale la Francia è decisamente più libera nei movimenti antiasburgici. Elogiato dal Senato per l'"importante e fruttuoso... esito" della "negoziazione", ringraziato dalla stessa Maria de' Medici, la madre di Enrichetta, per il suo indispensabile apporto alla "pace", esaltato dallo stesso re Carlo per essersi prodigato "studio et ingenio" all'accordo "inter nos et regem Christianissimum", la soddisfazione del C. resta, ad ogni modo, insidiata dal cruccio con cui registra la preferenza accordata dagli Inglesi a Livorno, ove i "mercanti danarosi comprano subito le mercanzie ed inunediatamente le navi scaricano" senza il rallentamento d'onerose operazioni doganali.

La nomina, del 17 nov. 1628, ad ambasciatore in Francia e la commissione del 26 apr. 1629 precludono - non senza suo vivo disappunto - al C. la possibilità, dopo "cinque anni di continuo" e defatigante "moto", d'una rinfrancante pausa in patria. Sbarcato a Calais il 6 ag. 1629, il 10 settembre è ricevuto in udienza da Luigi XIII. Arduo per il C. - nelle "congiunture" assai "scabrose" del contrastato insediamento mantovano di Carlo Gonzaga Nevers e dell'intervento francese in Italia - difendere il reticente e limitato impegno veneziano, laddove sempre più "acerbe" si fanno le "doglianze" di Richelieu contro i senatori che "promettono di fare e non hanno mai fatto niente" sì che "hanno mancato alla lega, alla parola reiteratamente data". Alla mobilitazione francese di 100 mila uomini, alla presenza in prima fila del re (il C. non manca di rilevare come "muore di voglia di trovarsi alla testa d'un'armata") il cardinale raffronta la titubante Venezia cui "non basta l'animo" di "batter" duemila tedeschi. Questi sono più che sufficienti - si vanta Collalto - per tenere a bada le pavide armi venete. E l'ignominiosa rotta, del 25maggio 1630, di Valeggio colla fuga di Zaccaria Sagredo, noto negli ambienti francesi per "non aver mai fatto niente", accentua l'imbarazzante situazione dei C. costretto a valorizzare in qualche modo la condotta della Serenissima. Ulteriormente screditata dopo la caduta di Mantova, al C. non resta che replicare fievolmente alle "voci di doglienza... universalissime" contro un "mancamento" giudicato "degno di castigo". Ne consegue che la Francia - incurante delle animate proteste del C. - emargina Venezia tanto nella pace di Ratisbona del 13 ott. 1630 quanto nel trattato di Cherasco del 6 apr. 1631, misconoscendo il ruolo che essa pretende d'aver giocato nell'intrigante vicenda mantovana. Al C. che insiste sul "molto" fatto da Venezia, il cardinale replica sarcastico che "il fare e far male è come non fare". Il C., che nel frattempo s'è logorato inseguendo gli spostamenti di Luigi XIII e del cardinale (solo così, peraltro, può sottoscrivere a Saint-Jean de Maurienne, l'11 luglio 1630, l'appoggio veneto alla Svezia) e assistendo sgomento all'intacco al patrimonio familiare provocato dalle spese di rappresentanza, insiste perché gli sia concesso il rientro. Gli anni "fuori della patria... tra la peste e pericoli... la guerra... azzardi... la penuria... di tutte le cose", rovinosa, per "una fortuna men che mediocre come la mia", meritano, questa volta, qualcosa di più delle "buone parole" con le quali il Senato si limita, in genere, a gratificarlo. Il C. vuole tornare a Venezia ove spera gli sia assegnato il remunerativo bailaggio di Costantinopoli. Ottenuta, finalmente, la sospirata licenza, parte il 28 apr. 1632da Parigi deciso ad arrivare "quanto prima"; ma, mentre è in viaggio, lo raggiunge, il 18maggio, l'ordine, del 17 aprile, di recarsi con "celerità" a Roma, dove 7 dopo nove mesi di sede vacante a causa del richiamo di Giovanni Pesaro offeso da Taddeo Barberini - è stato nominato rappresentante della Repubblica. Messi indisparte tutti gli "interessi" personali, il C. obbedisce con "prontezza"; la "vita" e il "volere", proclama, vanno "rassignati" al comando della patria. Urge, conclude, "che senza immaginabile respiro, io me ne vada a Roma".

Qui l'attende una realtà particolare, "diversa da tutte le altre corti"; deve muoversi all'interno d'una bizzarra capricciosa mescolanza di "uomini" e "nazioni", di ambizioni e interessi. Un "misto" da lui giudicato, nella relazione finale, severamente; vi si agita frenetica una folla intrigante, idolatrante "la fortuna" e, di fatto, senza Dio e senza patria, ché tale non può dirsi quella Roma che pure "patria comune si chiama". Tutto vi è labile e cangiante: "nessuno" è "abbietto" al punto da non "aspirare al sommo"; "nessuno", d'altro canto, ha una posizione tanto solida da non temere di "cadere". Nel cozzo di servilismo e cupidigia, nella ridda delle invidie e delle adulazioni, nella girandola dell'inganno e della simulazione mancano individualità, recanti "degnamente il vero nome di italiano", non v'è spazio per il sentimento appassionato della libertà. Lo stesso vertice papale, di per sé "apice d'ogni humana grandezza", ingordo "si abbassa" ad arraffare ricchezze e a favorire sfacciatamente i "parenti". L'ingombra, infatti, sanguigno bilioso superstizioso Urbano VIII, a null'altro volto che a "lasciar la sua casa in istima e ricchezze". Appianate e accantonate le questioni di precedenza, restano in ballo gli attriti per Aquileia e per l'abbazia di S. Zeno, rimangono pendenti discusse definizioni confinarie (particolarmente ostico "il punto del porto di Goro", ché, come osserva Fulvio Testi il 10 giugno 1634, "né i Viniziani vogliono cedere", pretendendo altresì come "loro" il "lido del mare", né Urbano VIII "vuol mostrare d'essersì appigliato al torto"), si accentuano le insidie alla giurisdizione adriatica specie coll'affermarsi del "traffico d'Ancona", la quale, favorita dall'appoggio attivo di Ragusa, finisce coi diventare competitiva rispetto a Venezia ancora prostrata dall'"ultima peste", tanto più che - come rimarca il C. - gioca a favore del porto marchigiano la "leggierezza dei datii". Il C. ribadisce, ad ogni modo, ad Urbano VIII che la capitolazione giuliana, su cui fonda le sue pretese di libera navigazione, è invalida; ricorda, nel contempo, al Senato che le "ragioni" del "possesso" vanno sostenute con la "spada"; "con legni - ammonisce - e non con altro si difende il mare nel quale sta fondata la nostra libertà". Suo vanto l'essersi "cavato fuori", come scrive il C. il 16 luglio 1631, da tanti "negozi"; "tutte le pretese sul mare - insiste soddisfatto il 24 luglio - si cedevano virtualmente alla Repubblica", mentre per "quelle di terra" la S. Sede è incline ad "ogni sicurtà". Il suo compito può dirsi quindi assolto, poiché, come commenta Testi il 28 luglio 1635, "l'aggiustamento... di Venezia col papa è molto innanzi", aggiungendo, il 18 agosto, che procede "alla gagliarda", manifestando entrambi "desiderio della conclusione"; e, ora che rincrudiscono gli attacchi gottosi cui da tempo è soggetto, il C. raddoppia le richieste di sostituzione. "La sentenza della sua vita" dipende dall'autorizzazione a partire, che gli viene finalmente concessa sì che, dopo una salutare cura a Bagni di San Casciano, alla fine di novembre del 1633 può dopo tanto - rivedere Venezia. Donde eletto, come egli desidera, bailo - salpa, nel settembre del 1636, alla volta di Costantinopoli.

Giunto nel dicembre e fatto l'ingresso solenne il 15 genn. 1637, rischia seriamente la vita quando - per ritorsione all'umiliante vittoria su di una squadra di galere barbaresche ottenuta alla Valona, il 7 ag. 1638, da Antonio Marino Cappello - Murad IV (un sultano cui il C. riconosce doti di statista) sembra, in un primo momento, deciso a farlo trucidare. Sbollito il furore, il C. viene, comunque, iniprigionato mentre incombe la minaccia del blocco di Spalato, della rottura dei rapporti con Venezia, della rappresaglia sulla comunità veneta e si profila lo spettro funesto della guerra. Anche in siffatto frangente - che per lui si sdrammatizza dato che può risiedere, sia pure in forma vigilata, presso Costantinopoli -, il C. conserva lucidità di giudizio e capacità di fermo orientamento. Sconsiglia, pertanto, l'invio d'un'ambasciata straordinaria che si sarebbe risolta in un remissivo tentativo d'ammenda rispetto all'operato di Cappello, quasi in una sua sconfessione. Preferisce, con cauto lavorio di ricucitura, trattare egli stesso le condizioni del risarcimento richiesto dai Turchi subordinando il pagamento alla propria liberazione; e, quindi, esige che la ripresa dei traffici sia garantita dall'impegno ottomano di reprimere la pirateria a danno dei navigli veneti. Senza compromettere la dignità della Serenissima, riesce a scongiurare lo incubo del conflitto. "Se per mala fortuna il mio ritegno portasse una guerra - osserva il 30 apr. 1639 -, so che tutte le maledizioni dell'età presente et delle venture caderiano sopra di me". Non è il caso di lesinare in fatto d'indennità: per quanto questa sia onerosa - ben 500.000 reali furono versati al sultano ed altri 150.000 andarono ai ministri via via ammorbiditi e convinti a facilitare l'accordo -, calcola che "le sole spese di un mese nella guerra rilevano la somma" da quella comportata, tanto più che "un solo anno - fa notare il 9 luglio - di traffico la risarcisce". Una saggezza degna d'encomio: "ferma il sol Giosuè, tu, con più vanto, / per gli amici salvar fermi la luna" l'approva Ciro di Pers. Partito da Costantinopoli il 1° apr. 1641, vi lascia - attesta il successore Girolamo Trevisan - "il più eminente concetto di virtù, di prudenza, di valore, di integrità, di splendore", degno, a detta del rappresentante inglese Peter Wyche, d'essere "esaltato ai cieli" quale "buon servitore" di tutta la Cristianità. E offre a Venezia, elaborato e rifinito frutto del suo acume d'osservatore, la relazione ove è colto il carattere totalizzante d'un dominio brutale e tirannico, in cui il sultano, sorta di "terrena assoluta deità", dispone a suo insindacabile arbitrio dei beni e dei corpi, dell'"onore" e delle "coscienze". Rilevato come la religione, all'esterno mera "ipocrisia", sia pregna "nel midollo" di politici effetti, assicurando "nel tiranno la monarchia", il C. traccia quindi un quadro di quel mastodontico impero esaminato sotto il profilo della "milizia" di "terra" e delle "forze marittime" e correlato cogli altri "potentati". Conclude, infine, il suo testo con un pudico accenno al suo "più che necessario riposo", al bisogno inderogabile d'occuparsi tranquillamente delle sue "private moderatissime fortune". Il C. spera, in effetti, ormai conclusa la fase errabonda della sua esistenza; vagheggia un tenor di vita meno dispendioso e più raccolto; si ripromette, forse, di riprendere gli studi dell'adolescenza (lettore, ad esempio, di Plutarco, restano degli estratti delle Vite di questo), di frequentare letterati (lo si sa amico del poeta Giovan Francesco Busenello), d'utilizzare le sue minuziose annotazioni diaristiche - quali, appunto, le Osservazioni sopra le materie che si trattano in Collegio (1622-1624) - per una più approfondita riflessione storico-politica. Ma ancora una volta la Repubblica prescinde dalle sue più intime esigenze, ignora la sua profonda aspirazione alla quiete, ché il Pregadi lo elegge, il 20 apr. 1643, ambasciatore al congresso di Münster.

"Ufficio" del C., precisa la commissione del 16 luglio, quello di "interpositione" e di "mediatore" onde "agevolare e spianar" dalle difficoltà l'accidentata via alla conclusione della pace vivamente desiderata dalle potenze ormai consunte dal troppo prolungato sforzo bellico e quanto mai necessaria alle terre tedesche esauste e sconvolte, ove il C. avrà modo di verificare i "paesi inculti, le ville... disabitate, l'habitationi derelite" ed una città, già popolata e fiorente come Augusta, "ridotta... ad una spelonca".

Diffidando i riformati e i luterani e la stessa Francia della mediazione pontificia, Venezia offre maggiori garanzie di neutralità. Si tratta per lei - Stato ormai trascurabile sul mero terreno della forza e, anche, dell'economia -d'un'occasione di ricupero, in termini di credito morale e di riconosciuta saggezza, d'un ruolo d'indubbio rilievo. Perciò il C., il suo migliore diplomatico, viene stanato dalla sua momentanea tranquillità e destinato al centro nevralgico delle indaffarate e sussultanti trattative. Il C. comprende l'importanza dell'incarico; non può sottrarsi di fronte all'opportunità d'un rilancio internazionale della Serenissima, cui le potenze belligeranti offrono il destro di riagganciarsi ad un orizzonte politico più spazioso, di reinserirsi, in qualche modo, nei problemi dell'equilibrio europeo (solo più tardi il C. percepirà come la scelta di Venezia sia fino ad un certo punto lusinghiera; la si coinvolge nelle trattative di pace perché la si considera politicamente tanto irrilevante da non poter esprimere appetiti, da non poter accampare pretese). Il solerte contributo della Serenissima - scrive il C. il 31 luglio - ad una "causa" dinteresse "universale" costituirà certo la "moneta" più appropriata per acquistare maggior rilievo; quanto a sé, investito da una carica "non ambita", oberato, suo malgrado, da un'immane responsabilità, privo d'ogni motivazione grettamente personale cercherà di realizzare al meglio la nobilitante missione di "servire alla patria per semplice puro zelo".

Garantito, comunque, da uno stipendio mensile di 600 scudi e dalla possibilità di disporre d'altri 1.500 scudi per spese straordinarie, potendo contare su di un segretario, un coadiutore e due corrieri, si mette, il 31 luglio, in viaggio, accompagnato, pure, da quattro giovani patrizi, uno dei quali è Gregorio Barbarigo, il futuro santo. Passando per Verona, Innsbruck (dove ottiene libertà di transito per i soldati arruolati da Venezia), Augusta, Francoforte (e qui verifica l'affiorare, nella Dieta, di propensioni alle trattative separate tali da scavalcare l'Impero), Colonia, il 20 novembre è a Münster, accolto, a suo dire, da "tutta la città commossa", salutato da cannonate, tra unanimi "benedictioni et applausi" osannanti "l'impiego" di Venezia in "opera da tutti desiderata in sommo grado". Ma, col tempo, il soggiorno in una città tanto umida e fredda acuirà il tormento della podagra; e, sbolliti gli entusiasmi per il suo arrivo e placatisi i clamorosi omaggi d'"ogni sorte di persone" alla Serenissima ch'egli rappresenta, l'attende il defatigante impatto con un groviglio di "passioni" e "interessi diversi", con lo snervante traccheggiamento delle reciproche diffidenze e gelosie. "La confusione - spiega il C. - ...procede da gelosia... che quanto più si cerca di levarla, tanto più... profonda le... radici". S'aggiunge, nel marzo del 1644, a complicare le cose la presenza di Fabio Chigi, il futuro Alessandro VII, che il Senato raccomanda di trattare con ogni riguardo, sì che la "mediazione" si svolga quale frutto di mutuo "buon accordo", di proficua "armonia", quanto mai necessaria quando, aggredita Venezia dalla Porta, la pace diventa per quella non già l'obiettivo finale, ma l'auspicata premessa (anche se il C. non manca di rilevare come le "historie" documentino a iosa che la Francia "non sia per romper già mai col Turco") d'un vagheggiato fronte cristiano contro la straripante potenza ottomana per costruire il quale è indispensabile l'avallo pontificio.

Superata l'iniziale disistima per "un nuncio" che a tutta prima pare impacciato nelle mosse e succube della Francia, il C. finisce coll'apprezzare la "buona condotta" e la "docilità" che lo rendono a lui "unito in tutto", laddove attribuirà ad Innocenzo X la estraneità della S. Sede alla fase conclusiva, rilevando come questo papa "non oda, non vegga, né forse capisca l'importanza di che si tratta... non havendo fatto dichiaratione alcuna... per mostrare il desiderio della pace". Oscillante sino a barcollare il congresso, bastando un "qualunque accidente nelle armi" a vanificare d'un tratto "i progetti e le fatiche di molti mesi". Contraddittorio, inoltre, pletorico, caotico e, soprattutto, eterodiretto. Sono le grandi capitali a tirarne le fila. Donde la necessità del C. di continuo contatto con i rappresentanti veneti a Vienna, a Madrid e particolarmente a Parigi, tutti centri condizionanti l'andamento dei lavori, sensibilissimo altresì alle notizie romane londinesi costantinopolitane, facilmente impressionato dagli "avvisi" dell'Aia e di Bruxelles. "Questa barca di Münster - costata il C. - non farà viaggio che con i venti che soffieranno dalle corti"; se i "ministri" dovranno sottoporre "ogni bagatella" a queste, commenta scoraggiato, "prima che sia superata una difficoltà", se ne sommerà subito un'altra "et così andiamo all'infinito". Già le "ufficiosità", i cerimoniali, i saluti creano guai. Il C. stesso è costretto ad impuntarsi col conte d'Avaux (il quale, peraltro, più che umiliare la Serenissima voleva far intendere ai diplomatici olandesi che c'era una bella differenza tra "teste coronate" e repubbliche), non ammettendo disparità di trattamento; e minaccia d'andarsene quando si ventila che le carrozze dei delegati dei principi elettori non vogliano, in corteo, cedergli il passo. Non può transigere in fatto di prestigio formale della Serenissima. Solo salvo questo può preoccuparsi, con diligenza ed equanimità, di credenziali, plenipotenze e "aggiustamento dei mandati". Insidiosissime le questioni di protocollo: per "sconcerti" d'etichetta, di titoli e precedenze tutto rischia dincagliarsi. Incessanti i "pontigli", addirittura, inceppante la pretesa - non riconosciuta dai ministri asburgici -, da parte del duca di Longueville, al "titolo d'altezza"; "questo titolo - così il C. - è stato un demonio", foriero di "mille garbugli", apportando più "travaglio" di "quello che forse non sia per far i trattati di pace". Gran merito dei C. l'aver doppiato felicemente lo scoglio di tali "disgusti"; quand'anche, asserisce, "non facessi altro in questo congresso", almeno ne "haverò gettato" i "primi fondamenti" preliminari per affrontare, una buona volta, i contenuti. "Macchina" arrancante congestionata il congresso, "pesantissima" a causa dei molteplici "interessi" si muove a stento, presto si blocca dopo qualche timido passo. Mazzarino stragiura di "volere la pace", ma il C. dubita della sua buona fede, sospetta "vada ingannando il congresso, il consiglio, la regina stessa e la Francia". Questi, assieme ai poco malleabili principe d'Orange e Axel Oxenstierna, forma una coriacca "trinità d'interessi particolari", dura da rimuovere, laddove gli Spagnoli, afflitti da grosse perdite che si affannano a minimizzare ("no es nada, no es nada" continuano a dire), sembrano più propensi all'accomodamento. E il C., che pure era parso a Fulvio Testi "amico e parziale de' francesi", non esita a replicare al plenipotenziario Abel Servien (i cui "disgusti" col collega d'Avaux giungono a creare situazioni grottesche; e l'uno si lagna dell'altro con il C.) lamentante presunte difficoltà frapposte dai delegati imperiali che era, invece, proprio lui, il colpevole degli "ostacoli maggiori". Un'accusa franca che, di fatto, mira a Mazzarino. Il C. può permettersela grazie al credito via via acquistato, malgrado accuse ora francesi ora spagnole tentino di offuscarlo. Procede imperterrito nell'assiduo quotidiano esercizio mediatorio, incurante se ogni tanto c'è chi borbotta per la sua "partialità", se il suo attivismo - che s'accentua dopo l'aggressione ottomana a Candia - alimenta i sospetti ora dei Francesi, ora degli Spagnoli. "Né le blandizie degli uni, né le doglianze degli altri mi moveranno da quell'atteggiamento con cui ho guadagnato... titolo d'huomo dabbene", afferma sdegnoso.

Una ferma linea di condotta fedele ad un criterio di sostanziale imparzialità che si rivela produttiva soprattutto nel 1647: il C. supera la crisi delle trattative e il conseguente rinfocolarsi della guerra sì che già alla fine dell'anno dispone delle "scritture" sottoscritte da Francia ed Impero, mentre - sia pure limitatamente ai punti accessori - riprendono i colloqui franco-ispani. Si dipana, finalmente, il viluppo degli "affari" di "tanti diversamente interessati"; il successo corona gli instancabili sforzi (qui a Münster, scrive il C. al nipote Vincenzo, "non ho un'ora di respiro", non "riposo né giorno né notte") del C. che non desiste dall'adoperarsi anche se il "dolore nei piedi" si fa talvolta atroce, anche se non può "caminar che coi bastone", anche se, per "assender le scale", dev'essere sovente portato a braccia. Il 31 genn. 1648 c'è l'accordo ispano-svedese, sancito il 15 maggio con "pubblico giuramento"; il 24 ottobre segue la "sottoscrizione della pace" - contro la quale protesta il nunzio che rifiuta la sua firma ai protocolli - con l'Impero da parte della Francia e della Svezia. La guerra, "flagello del cielo per castigo delle corruzzioni humane", può dirsi "terminata". Merito del C., che tra "gelosie e riffe et insinuationi", ha saputo "navigare col vento stretto", sino ad approdare alla "minor mala sodisfattione di tutti".

Rientrata la ventilata missione a Costantinopoli "per ufficio di congratulatione" al nuovo sultano, il C. si trattiene a Münster sino al 6 ag. 1649, contattato da Cristina di Svezia desiderosa del suo apporto ai primi sondaggi di pace con la Polonia. Coinvolto, suo malgrado, da Mazzarino nel contenzioso pendente con la Spagna, sosta senza esito ad Anversa e Bruxelles nel vano tentativo di definire, almeno, la frontiera franco-ispana fra Landrecies e Saint-Quentin. Sisposta quindi, nel novembre, a Parigi dove - esentato dal trasferimento a Lubecca a causa del ritardato avviamento del "congresso" di pace polono-svedese - soggiorna infruttuosamente ché il definitivo orientamento spagnolo verso la rottura del concertato a Münster finisce col vanificare la prestigiosa funzione implicante "facoltà di concluder e dar parola per la pace" conferitagli da Mazzarino. A questa il C., logorato dalla stanchezza e sempre più malandato di salute, avrebbe voluto sottrarsi, ma a Venezia si delibera altrimenti, ché si tratta d'un'ulteriore occasione per conservare un minimo di presenza internazionale. La "mediatione", osserva un savio di Terraferma, e "sopra modo" utile alla Repubblica, se non altro perché è l'unico mezzo per CSsere informata; "quando non vi fusse stasto fuori ambasciatore mediator non si haverebbe saputo i trattati". Ma, al fine, non resta che prender atto dell'atteggiamento spagnolo. Perciò il C., nel maggio del 1650, lascia Parigi malgrado Mazzarino protesti perché "un mediatore così necessario... sia richiamato alla sola contemplatione" del re cattolico, quasi Venezia sia "partiale per la soddisfatione degli spagnuoli". Inchiodato a Lione per un mese dalla gotta e quivi finalmente raggiunto dalla "bramata licenza di rimpatriare", il C. affronta il viaggio, per lui penosissimo, che, passando per Torino e Casale e usufruendo della via acquea del Po, lo riporta, dopo tanti anni, a Venezia, dove, il 26 settembre, legge una calibratissima Relatione sulsettennale "maneggio... scabroso" da lui svolto.

Eletto, il 27 genn. 1651, dal Consiglio dei dieci pubblico storiografo, il peggioramento delle sue già cattive condizioni fisiche impediscono al C. di dedicarsi ad un compito congeniale e a lungeb ambito. Poco, ormai, gli è concesso di vivere: muore a Venezia l'11 marzo del 1651. "Questa notte - scrive, l'11 marzo, il nunzio a Venezia Scipione Pannocchieschi - è passato a miglior vita" il C., "uno de' primi e più consumati" patrizi. Non a caso, ancora nel 1645, ritenendolo, come aveva osservato il nunzio Angelo Cesi, "soggetto da far riuscita anche nel maneggio delle armi", s'era prospettata l'ipotesi di affidare a lui il capitanato generale da Mar.

Scompare così una delle più eminenti personalità della Venezia scicentesca, il principale attore d'una vicenda diplomatica cui la città aveva consegnato la sua fiduciosa speranza d'un rientro nell'alveo principale della storia europea cercando, altresì, di trasformarla in efficace cassa di risonanza dell'impari lotta antiturca alla quale è costretta. Purtroppo la "pace universale", costruita anche dall'indefessa e scrupolosa sagacia negoziatrice del C., non incornicia alcuna ripresa internazionale della Serenissima e nemmeno è premessa d'un solidale sostanzioso appoggio europeo all'estenuante dissanguamento della difesa di Candia. Come il C. ebbe ad osservare, Venezia sola contro il colosso ottomano è "commiserata con voci di applauso universalmente, ma da nessuno con effetti o dichiarazioni assistita".

Fonti e Bibl.: Oggetto di due profili - A. M. Bettanini, A. C. ambasciatore veneto..., in Rivista di studi politici internazionali, IX (1942), pp. 371-416, e A. Zanon Dal Bo, A. C. mediatore... nel congresso di Vestfalia..., Lugano 1971 -, la azione negoziatrice del C. è soprattutto esaminata nell'esauriente lavoro di S. Andretta, La diplomazia veneziana e la pace di Vestfalia, in Annuario dell'Ist. stor. it. per l'età mod. e cont., XXVII-XXVIII (1975-76), pp. 1-129. Alle fonti e alla bibliografia in questi, specie nel terzo, indicate si aggiungono: Archivio di Stato di Venezia, Communicationi. Consiglio dei dieci, filza 17, lett. del C. del 2 genn. 1639; Ibid., Senato. Lett. Bressa e Bressan, filza 34, lett. del 21 giugno 1632, dei rettori di Brescia; il molto materiale, specie copie di dispacci del C., e qualche cenno su di lui in Venezia, Civica Bibl. Correr, Mis. P.D., 107b, p. 252; 108b, pp. 257-263; 374 C/I;636 C/XII; C 2389/19; Ibid., Arch. Morosini Grimani, nn. 41-47, 388, 510, 551, 553, passim;Ibid., Mss. Malvezzi, 139/4; Ibid., Misc. Correr, 327, 328, 362, 792, 982, 1127, 1154, 1159, 1435, 1862, 2321, 2434, 2481, 2542; Ibid., Cod. Cicogna, 1537, cc 180r-184r; 1702, c. 55; 2402/42; 2524/65; 2692/III; 2725; 3020/19; 3113/VIII; 3165/I; 3204/86; 3280/IV; 3680; Ibid., Ritr. Gherro, 510; munus del C. l'esemplare di J. e W. J. Blacu, Theatrum... sive Atlas novus..., in 4 voll. rilegat. in cuoio, in Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Rari 1-4, il cui primo volume reca a stampa la dedica al C.;Arch. Segr. Vaticano, Nunz. Venezia, 81, c. 154r; le rel. e dispacci del C. in Relazioni di amb. ven. al Senato, a cura di L. Firpo, I, Torino 1965, pp. 753-762; III, ibid. 1968, pp. 963-1036; VI, ibid. 1975, pp. 815-842 (utili i cenni del curatore in I, p. XXV, ove è, però, errata la qualifica di "futuro doge"; II, ibid. 1970, pp. XLIX-L; V, ibid. 1978, p. XXVI); gli stralci da dispacci dei C. in Diplomatarium relationum B. Gabor cum Venetorum Republica, a cura di L. Óváry, Budapest 1886, pp. 788 ss., 795-804; gli stralci da dispacci dei C. in Documente privitóre la istoria Românilor..., a cura di E. de Hurmuzaki, IV, 2, Bucuresci 1184, pp. 491-512; VIII, ibid. 1894, pp. 451-460, 462-467, 470-476, 478 s., 481-491, 493; Gli ultimi successi di... Waldstein narrati dagli amb. ven., a cura di S. Gliubich, in Archiv für Kunde öst. Geschichts-Quelien..., XXVIII (1863), pp. 451-455; lett. al C. in G. R. Mazzarino, Epistolario..., a cura di C. Morbio, Milano 1842, pp. 29, 70 s., 90, 96 s., 107 s., 131 s., 149 ss., 157; S. Morosini, Lett... ad A. C..., per nozze Morosini-Rombo, s. l. né d. (ma Venezia 1885); Coleccion de documentos inéditos para la historia de España, LXXXII-LXXXIV, Madrid 1884-85, passim; Nuntiaturberichte aus Deutschland... Nuntiatur des Pallotto..., a cura di H. Kiewning, Berlin 1895-97, I, pp. 167 n. 1, 300; II, pp. XXXV, LIII, 186 n. 1, 293; I libri commemoriali... di Venezia..., a cura di R. Predelli, VII, Venezia 1907, pp. 159, 189, 190 s.. 193 s.; VIII, ibid. 1914, pp. 13, 19; Docc. rel. à la juridiction des nonces.. des Pays-Bas pendant le rég. espagnol, a cura di J. Lefèvre, Bruxelles-Rome 1943, p. 159 (errato, però, il nome Ambrogio); F. Chigi, La nunziatura..., a cura di V. Kybal-G. Incisa della Rocchetta, Roma 1946, ad vocem; Recueil des instructions aux ambassadeurs... de France..., XXVI, a cura di P. Duparc, Paris 1958, pp. 2, 8 s.; ad vocem in Acra pacis Westphalicae, s. 1, I, Münster-Westfalen 1962 e s. 2, I, ibid. 1969 e II, ibid. 1976; Capita selecta Veneto-Belgica, I, 1629-31, a cura di J. J. Poelhekke, 'S-Gravenhage 1964, passim;F. Testi, Lettere, a cura di M. L. Doglio, II, Bari 1967, pp. 8, 22, 59, 127 s., 141, 170, 171, 175, 207, 209, 212, 217, 220, 231 s., 235, 246 s., 250, 254, 285, 297, 308, 316, 460, 493 s., 514 s., 529; G. Galilei, Opere (ediz. naz.), XV, p. 188; XVI, p. 164; XX, pp. 423, 577; F. Belli, Osservazioni nel viaggio, Venetia 1632, p. 95; G. Gueldo Priorato, Hist. delle guerre di Ferdinando II e... III., Venetia 1640, p. 521; C. di Pers, Poesie, a cura di M. Rak, Torino 1978, pp. 80, 393, 418; F. Sansovino, Venetia... nobilissima..., Venetia 1663, pp. 166 s., 670; G. Sagredo, Memorie istoriche de' monarchi ottomani, Venetia 1697, pp. 699-703, 720-724; G. Graziani, Historiarum Venetarum libri..., I, Patavii 1728, pp. 351, 425 s., 442 s., 529, 629, 630, 697, 729 s.; E. A. Cicogna, Delle Inscriz. Ven., II, Venezia 1827, pp. 227, 247 s.; III, ibid. 1830, p. 503; V, ibid. 1842, pp. 592 s.; VI, ibid. 1853, p. 865; I codici... della collezione Foscarini.. nella... Bibl. di Vienna..., a cura di T. 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