Ambiente

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Ambiente

Laura Castellucci e Alessandra Mignolli

(App. V, 1, p. 143)

Dagli anni Settanta è stata sempre più condivisa dall'opinione pubblica la consapevolezza che una buona qualità ambientale rappresenti la condizione irrinunciabile per uno sviluppo economicamente più sostenibile e socialmente più giusto (v. ambiente e paesaggio, App. IV, i, p. 110). Nell'App. V molte voci sono state dedicate alle problematiche ambientali: ambiente, ecologia (ii, p. 7), inquinamento (ii, p. 722), natura (iii, p. 619) descrivono sia i rischi connessi alla rottura degli equilibri ecologici sia il quadro normativo internazionale. Nelle voci acqua (i, p. 26), ingegneria ambientale (ii, p. 711), incenerimento (ii, p. 635), rifiuti (iv, p. 518) sono descritti gli interventi per la salvaguardia dell'a. (disinquinamento, riciclaggio, bonifica dei terreni contaminati ecc.). Infine, nella voce sviluppo sostenibile (v, p. 371) viene evidenziata l'esigenza dell'uso intelligente delle risorse. Si vedano inoltre i contributi su acqua, agricoltura, ecologia, paesaggio, in questa Appendice.  *

Economia

di Laura Castellucci

Lo studio dei problemi ambientali ha acquistato una sua autonomia all'interno della scienza economica soltanto nel corso del 20° secolo. Il suo contenuto, conosciuto in tutti i paesi come economia ambientale, è riconducibile a due distinti filoni di ricerca. Il primo, che riguarda i problemi economici ambientali in senso stretto e cioè studia le possibilità di controllo efficiente dell'inquinamento ambientale, nasce intorno agli anni Sessanta. Il secondo, che studia i problemi di allocazione intertemporale delle risorse naturali, distinte in 'rinnovabili' e 'non rinnovabili', è invece già presente negli anni Trenta. I due indirizzi sono strettamente collegati sia per le problematiche considerate, sia per l'impiego delle stesse nozioni e metodologie, ma i loro punti di vista divergono sotto diversi aspetti. Il primo considera la gamma dei possibili rimedi una volta che i danni ambientali siano stati prodotti, mentre il secondo analizza le regole ottimali, riguardo all'uso delle risorse naturali, in grado di massimizzare il benessere delle generazioni presenti e future. Il primo è un approccio di tipo ex post e il secondo un approccio ex ante. Le radici teoriche sono comuni e individuabili nella teoria delle esternalità, dei beni pubblici, dell'ottimizzazione dinamica e dell'equilibrio economico generale. L'analisi costi-benefici rappresenta, inoltre, il comune campo di studi applicati.

Mentre questa parte di teoria economica si fonda su formulazioni antiche che via via sono state integrate e approfondite, la considerazione delle risorse naturali come fattore della crescita economica o come suo possibile limite - presente in alcuni economisti classici (Ricardo, Malthus, Jevons) - è stata inizialmente trascurata dalla teoria neoclassica che ha dominato gran parte della teoria della crescita economica del Novecento. I fattori produttivi sono, per i neoclassici, il capitale, il lavoro e il progresso tecnico. Le risorse naturali non figurano come specifici fattori produttivi (almeno nei primi modelli) e ciò equivale all'implicita assunzione di una loro offerta illimitata, in termini quantitativi e qualitativi, ovvero alla visione di un rapporto di linearità tra risorse naturali e processo produttivo. L'allarme ambientalistico degli anni Sessanta, seguito dalla pubblicazione intorno agli anni Settanta di svariati articoli sui rischi ambientali da parte di studiosi di diverse discipline, e la diffusione tra il vasto pubblico di un volumetto dal titolo The limits to growth, pubblicato nel 1972, contribuirono a reintrodurre le risorse naturali nell'ambito della teoria della crescita nella forma di bene capitale distinto da quello prodotto dall'uomo. Il deterioramento ambientale e la riduzione delle risorse minerarie e petrolifere posero infine le basi per l'abbandono dell'ipotesi di linearità della relazione ambiente-economia e per la sua sostituzione con una relazione di tipo circolare. Gli studi economici che seguirono questa spinta ambientalista incorporarono tutti l'ipotesi di relazione inversa (trade-off) tra crescita e a. naturale; solo più di recente non sono mancati contributi autorevoli basati anche sull'ipotesi di una relazione positiva. A livello empirico infatti è stato rilevato che le condizioni ambientali migliorano quando aumenta il reddito pro capite, che è la principale misura della crescita.

Benessere sociale in presenza di esternalità e beni pubblici

È stato dimostrato che, fatte precise assunzioni circa la struttura dei mercati, le funzioni di utilità dei consumatori e le funzioni di produzione, la massimizzazione dell'utilità da parte dei consumatori e quella del profitto da parte dei produttori portano a una situazione di massimizzazione del benessere collettivo nota come ottimo paretiano sociale (non è possibile migliorare la posizione di un singolo individuo senza nel contempo peggiorare quella di qualcun altro). Tale risultato, noto come primo teorema dell'economia del benessere, è assicurato dal sistema dei prezzi di mercato che si formano in seguito all'attività di scambio volontario. Quando però vi siano effetti esterni (una fabbrica rumorosa localizzata vicino a una biblioteca) oppure si impieghino risorse naturali libere o pubbliche (acqua di un fiume per la fase di raffreddamento di un processo produttivo), il sistema dei prezzi non assicura il raggiungimento dell'ottimo paretiano proprio perché non esiste il prezzo dell'esternalità (rumore) né del bene libero o pubblico (fiume). In questi casi si parla di fallimenti del mercato, in quanto quest'ultimo non è più in grado di assicurare l'ottima allocazione delle risorse. Se il bene è libero esso sarà sovrautilizzato fino all'esaurimento (Hardin 1968), mentre se il bene è pubblico, è cioè indivisibile e soddisfa contemporaneamente, senza possibilità di esclusione, una collettività di individui, la questione diventa più complessa.

In generale, il sistema dei prezzi di mercato porta all'ottimo paretiano perché esclude dal godimento coloro che non pagano il prezzo e consente, tramite aggiustamenti delle quantità acquistate, di soddisfare gusti diversi di individui diversi. Nel caso dei beni pubblici, invece, non è possibile escludere dal godimento coloro che non pagano il prezzo perché il bene è appropriabile da tutti per il suo intero ammontare (una volta disinquinata, l'aria di una città viene respirata da tutti indipendentemente dal fatto che abbiano contribuito al finanziamento della sua depurazione). Ciò nonostante è, in astratto, possibile (Samuelson 1954) definire una situazione di ottimo anche in riferimento ai beni pubblici, ma è necessario conoscere le vere preferenze dei soggetti. In pratica, nessuno ha interesse a rivelare le proprie preferenze perché la non escludibilità dal godimento permette a chi non paga di scaricare sulla collettività l'intero costo della fornitura del bene (comportamento noto come free riding, "viaggiare" gratuitamente). In queste circostanze è necessario individuare dei meccanismi di correzione del mercato per massimizzare il benessere sociale. Tale risultato si ottiene quando la quantità di inquinamento è quella corrispondente all'uguaglianza tra il costo sociale (costo privato più costo esterno) e il beneficio privato, e quando le risorse naturali sono utilizzate secondo la regola di Hotelling. Quest'ultima stabilisce che il tasso di utilizzo ottimale delle risorse riproducibili è quello che massimizza il valore attuale delle royalties (rendite), dati i prezzi e il tasso di interesse, entro il vincolo del tasso di riproduzione naturale, mentre per quanto riguarda le risorse non riproducibili il tasso di utilizzo ottimale è quello che le esaurisce in un tempo stabilito. La correzione necessaria per proteggere le generazioni future si sostanzia nell'imposizione di vincoli, quale, per es., l'invarianza attraverso le generazioni dello stock di risorse naturali, che però comporta notevoli problemi di misurazione fisica ed economica dello stock di ricchezza naturale. Ai fini della politica di intervento è necessario attribuire un valore economico ai beni ambientali e alle risorse naturali che non hanno una valutazione di mercato, definire gli obiettivi e quindi scegliere gli strumenti più efficienti per raggiungerli.

Il valore dei beni ambientali e i metodi di valutazione

L'attribuzione di un valore monetario ai beni ambientali e naturali è piuttosto difficile. Tra i diversi metodi elaborati nessuno prevale sugli altri, e la stessa terminologia non è del tutto unanime. Per conoscere il valore monetario delle preferenze individuali si usa la nozione di disponibilità a pagare. Il prezzo che un soggetto è disposto a pagare per l'ottenimento di un bene (o servizio) è l'indicatore delle sue preferenze (beneficio marginale), che possono però non coincidere con il beneficio che ne ritrae. Si perviene al beneficio (totale), che potrebbe essere maggiore del prezzo, ricostruendo quanto ciascun individuo sarebbe disposto a pagare per avere una riduzione di prezzo, pur restando allo stesso livello di utilità antecedente alla riduzione del prezzo (variazione compensativa), oppure quale ammontare di reddito dovrebbe ricevere per godere della stessa utilità che avrebbe avuto se il prezzo si fosse ridotto (variazione equivalente). Esistono perciò due modi per misurare il beneficio: la disponibilità a pagare e la disponibilità ad accettare. Essi sono rilevanti per l'economista ambientale che deve conoscere quanto gli individui sarebbero disposti a pagare per avere un certo miglioramento ambientale o per evitare una perdita, oppure, quale compenso sarebbero disposti ad accettare per rinunciare a un beneficio o per sopportare una perdita. La disponibilità a pagare e la disponibilità ad accettare, sul piano teorico, non dovrebbero differire molto; ma gli studi empirici mostrano differenze non trascurabili (e ciò si spiegherebbe con la psicologia individuale per la quale perdite e guadagni non sono simmetrici). La questione non è al momento risolta e sono utilizzate entrambe le nozioni.

Uno sguardo più approfondito all'essenza del valore economico dei beni ambientali e naturali consente di distinguere tra beni che hanno un valore d'uso e beni che hanno un valore in sé o intrinseco. Il valore d'uso, per l'individuo che effettivamente utilizza il bene, non corrisponde al valore totale del bene, poiché quest'ultimo deve includere anche il valore d'opzione, ovvero il valore dell'uso potenziale da parte di altri soggetti, incluse le generazioni future. Il valore economico totale è perciò la somma del valore d'uso e del valore di opzione. Il valore intrinseco invece è definito indipendentemente dall'uomo e dall'uso attuale o potenziale, e può pensarsi come valore di esistenza. Si è di fronte a un valore di esistenza in casi di irreversibilità e unicità.

Per ottenere le misure empiriche dei valori così definiti sono stati elaborati vari metodi, tra i quali i più utilizzati sono: il travel cost e lo hedonic price, quali metodi indiretti, e la contingent valuation, quale metodo diretto. Con il primo metodo si tratta di risalire al valore del bene ambientale valutando il costo dato dalla somma di ciò che si è disposti a pagare per raggiungere il luogo di fruizione (costo di trasporto) e per visitarlo (prezzo del biglietto di ingresso), e del reddito cui si rinuncia destinando il tempo necessario a raggiungere il bene ambientale piuttosto che dedicarlo al lavoro. Con il secondo metodo si tratta di individuare nel prezzo complessivo che si è disposti a pagare per l'acquisto di un bene privato di mercato, legato alle qualità ambientali, la parte di valore da attribuirsi a queste ultime. È il caso dell'individuazione del valore ambientale nel prezzo degli immobili abitativi che si apprezzano o si deprezzano con i miglioramenti o i peggioramenti ambientali dell'area (oltre che per altri fattori). Il metodo della valutazione contingente, spesso l'unico utilizzabile, è soggetto a molte critiche perché si basa su domande dirette, attraverso interviste, anche telefoniche, o questionari, su quanto i soggetti sarebbero disposti a pagare per un certo miglioramento ambientale. Le risposte non sono sempre credibili, perché l'intervistato può volutamente mentire o non avere sufficienti informazioni.

Il problema della valutazione della qualità ambientale e della disponibilità di risorse naturali si pone anche a livello di contabilità nazionale. Soltanto a partire dagli anni Ottanta si è affermata l'idea che la misurazione del flusso di beni e servizi prodotti (PIL) debba essere completata da informazioni quantitative riguardanti l'a. e le risorse naturali. Tentativi per inserire queste valutazioni nel sistema dei conti nazionali internazionalmente accettato (noto come SNA, System of National Accounts), sono allo studio e stanno progredendo (contabilità verde).

Scelta degli strumenti più efficienti per la tutela ambientale

La scelta degli strumenti deve essere determinata dalla minimizzazione dei costi. Gli strumenti elaborati sono vari, ma si possono aggregare in due gruppi (il secondo più numeroso) a seconda che presuppongano decisioni decentrate o decisioni centralizzate. Queste ultime possono ispirarsi alla logica detta di command-and-control ("imporre e controllare") oppure a quella degli incentivi.

La logica del command-and-control implica che lo Stato (o ente locale) stabilisca l'obiettivo (standard), definibile in vari modi, rispetto alle emissioni, all'a., alla tecnologia, e cerchi di farlo rispettare con mezzi coercitivi sanzionatori. Tale logica presenta diversi punti deboli. Oltre al problema cruciale dell'individuazione dello standard socialmente ottimo, essa comporta costi amministrativi, di controllo e di applicazione della sanzione, piuttosto elevati. Inoltre non assicura la minimizzazione delle risorse perché costringe ogni impresa a rispettare uno stesso standard indipendentemente dai propri costi. Se, come è presumibile, il costo, detto di abbattimento, è diverso da impresa a impresa, sarebbe complessivamente più conveniente far ridurre le emissioni in maggior quantità all'impresa che, essendo più efficiente nell'attività di abbattimento, sopporta costi minori.

La logica degli incentivi fa leva sul comportamento volontario dei soggetti, che viene indirizzato verso l'obiettivo collettivo, con l'impiego di meccanismi che rendono economicamente convenienti i comportamenti compatibili con l'obiettivo generale, e costosi quelli contrari. Le imposte sulle emissioni nocive e i sussidi ai costi di abbattimento sono i mezzi classici. Un altro modo di utilizzare il sistema degli incentivi è rappresentato dal ricorso all'emissione dei diritti di inquinamento negoziabili. Lo Stato stabilisce per un dato inquinante emesso nell'aria, nell'acqua o nel suolo, la quantità che può essere scaricata senza danno, in quanto emessa entro le capacità di assorbimento naturali, e quindi 'stampa' i corrispondenti diritti di emissione. Chi scarica nell'a. questa sostanza ha la scelta di acquistare tali diritti oppure di passare a tecnologie meno inquinanti. In entrambi i casi l'obiettivo è raggiunto e con esso l'efficienza nell'uso delle risorse, perché l'impresa avrà scelto il metodo meno costoso.

Gli strumenti che presuppongono decisioni decentrate non sono molti e sono subordinati al fatto che i soggetti coinvolti nell'attività di inquinamento, attivi e danneggiati, siano in numero limitato. Uno di questi strumenti è dato dalla 'legge di responsabilità' (liability law), che stabilisce la responsabilità dei potenziali inquinatori e quindi il loro obbligo a rimborsare l'eventuale danno provocato. L'intento della legge è quello di indurre le imprese a prendere decisioni inclusive anche dei possibili effetti esterni, ammesso che sia chiaro il legame di causa-effetto e che i costi di transazione non siano troppo alti. Un altro strumento è dato, quando possibile, dalla precisa definizione dei diritti di proprietà sui quali si creano gli accordi negoziali tra le parti che hanno interessi contrastanti. Alla base della fiducia nelle decisioni decentrate c'è la consapevolezza che i soggetti coinvolti conoscono, meglio di qualunque organo o agenzia dello Stato, i danni e i costi per evitarli. Infine si può ricorrere alla moral suasion per ottenere decisioni individuali socialmente ottime. Tali sono le campagne pubblicitarie rivolte a educare il pubblico a non disperdere i rifiuti nell'a., a non rovinare le piante, a non accendere fuochi nei parchi ecc., senza prescrivere sanzioni ma contando sulla responsabilità individuale.

Un significativo cambiamento è avvenuto nell'impostazione delle politiche ambientali dei vari stati, primi fra tutti gli USA, la cui politica ambientale è molto stringente e più antica di quelle europee, in termini di definizione degli obiettivi e quindi nella messa a punto degli strumenti. Inizialmente si distinguevano le emissioni nocive a seconda che coinvolgessero l'aria, l'acqua o il suolo. È emerso che uno standard ottimo per l'acqua può risultare dannoso per il suolo circostante, così come un minore scarico nel suolo può comportarne uno maggiore nell'aria, e così via. In queste circostanze, non essendo possibile conoscere l'alternativa alla quale corrisponda il maggior benessere collettivo, si tenta di superare la classica tripartizione fra aria, acqua e suolo.

Problemi ambientali internazionali

Economie di mercato e pianificate; economie sviluppate e sottosviluppate. - La sovrautilizzazione delle risorse naturali e il deterioramento ambientale si spiegano nelle economie di mercato con la mancanza del prezzo per i beni liberi, per quelli pubblici e per le esternalità, e nelle economie pianificate principalmente con il fatto che l'attuatore del piano ha, come unico incentivo, quello di rispettare gli obiettivi di quantità da produrre (lo stesso suo compenso è spesso collegato ai meri risultati quantitativi). Nelle economie di mercato il settore ambientale rappresenta oggi un vasto campo di intervento pubblico, ma molte questioni superano i confini nazionali e richiedono interventi concertati tra gli Stati. Questi interventi sono resi estremamente difficili non solo dalla diversità degli assetti politico-istituzionali ma anche dal diverso grado di sviluppo delle economie, e questo è un fattore significativo per la qualità dell'ambiente. Se è vero che l'obiettivo della crescita esercita una forte pressione sull'a. naturale, e dunque si può concretamente verificare l'esistenza di una relazione inversa tra questa e la qualità dell'a., oltre certi livelli di prodotto nazionale tale relazione si inverte, nel senso che con la crescita del prodotto pro capite migliora anche la qualità dell'ambiente. Lo sviluppo industriale avviene dapprima a danno della natura e poi si evolve verso l'impiego di tecnologie meno inquinanti e a minore utilizzo di risorse naturali. La coesistenza tra paesi con diversi livelli di sviluppo e il loro raggruppamento in paesi industrializzati-ricchi e arretrati-poveri - generalmente corrispondente a condizioni ambientali curabili e per le quali è evidente l'impegno dello Stato e, rispettivamente, condizioni ambientali molto deteriorate e in via di peggioramento - complica molto il quadro di riferimento. Le economie europee dell'ex blocco comunista sono in questo senso arretrate perché sono caratterizzate da bassi livelli di prodotto pro capite e forte deterioramento ambientale.

L'ambiente globale. - I problemi ambientali più recenti e più acuti si stanno manifestando a livello mondiale. Tre appaiono le questioni più problematiche: la riduzione dello strato di ozono, l'aumento della temperatura della terra (effetto serra) e la riduzione della biodiversità. Tutti e tre questi fenomeni hanno precise caratteristiche fisiche e come tali devono essere studiati, ma essendo esasperati dall'attività di produzione e di consumo dell'uomo, rientrano anche nel campo dell'indagine economica.

Sul finire degli anni Settanta gli scienziati registrarono una grande apertura nello strato di ozono sopra l'Antartide (da allora altre ne sono state individuate, anche sopra zone della Terra densamente popolate), che attribuirono all'accumulo di cloruri che era avvenuto a un ritmo di accrescimento superiore al passato. Questo accumulo risultò a sua volta collegato all'emissione nell'atmosfera di sostanze come il CFC (clorofluorocarbonio), ampiamente impiegato nella produzione industriale. Il CFC era stato sviluppato negli anni Trenta per l'impiego nella refrigerazione, date le sue qualità di stabilità e non tossicità. All'epoca della sua introduzione furono visti i benefici ma non gli effetti di lungo periodo sull'atmosfera, tanto che si estese molto rapidamente anche il suo uso come propellente per i prodotti spray (lacca, deodoranti, insetticidi), per la produzione di poliuretano e polistirene, e altro. Il danno prodotto dalla riduzione dello strato di ozono si manifesta in termini di perdita di salute per l'uomo (aumento di determinati tumori, disturbi della vista) e di riduzione dei raccolti agricoli. Al riguardo sono stati firmati protocolli per limitare l'uso di CFC e sono allo studio possibilità di utilizzo di sostituti.

L'effetto serra ha radici più antiche, perché risale alla rivoluzione industriale, ovvero alla rivoluzione nell'uso dell'energia, in seguito alla quale si verificò dapprima un grande impiego di combustibili fossili, inizialmente il carbone, quindi il petrolio e il gas naturale. La combustione, soprattutto del carbone ma anche del petrolio, unita alla deforestazione, ha condotto - a partire dalla rivoluzione industriale - a un aumento del 20% del contenuto di CO₂ (anidride carbonica) nell'atmosfera, e vi sono previsioni di un suo raddoppio nel 21° secolo. Tale accumulo determina l'aumento della temperatura complessiva il cui impatto sull'uomo e sull'ecosistema mondiale è in parte sconosciuto ma di dimensioni macroscopiche. La riduzione di CO₂ è nell'agenda degli accordi internazionali. La consapevolezza del costo rappresentato dalla perdita di biodiversità costituisce l'argomento di frontiera, ultimo tra quelli emersi nell'arena dei problemi ambientali. L'espansione dell'attività dell'uomo per coltivare piante e allevare animali avviene con la distruzione dell'a. naturale (non modificato dall'uomo). Con tale progressiva perdita l'uomo si priva di un immenso capitale genetico non più riproducibile per definizione. Il suo potenziale futuro, per sostenere una popolazione crescente e per curare malattie oggi incurabili, deve avere un riscontro in un valore economico al presente che ne giustifichi la preservazione.

L'economia degli accordi internazionali. - I problemi legati all'introduzione, amministrazione ed efficacia delle politiche ambientali a livello nazionale sono complessi, ma insignificanti in confronto a quelli di livello internazionale. Tuttavia, dato che i problemi ambientali più gravi sono mondiali e le maggiori esternalità superano i confini nazionali, gli accordi sulle politiche, sui costi e benefici e sulla loro spartizione tra le nazioni sono cruciali. Le esternalità tra nazioni possono presentarsi sostanzialmente secondo due tipologie a seconda che una nazione inquini un'altra, oppure che ciascuna inquini (se stessa e) tutte le altre. Nel primo caso l'accordo cui si deve giungere potrà basarsi sul principio che l'inquinatore indennizzi la vittima o che la vittima paghi l'inquinatore perché si astenga dall'inquinare, o contemplare un misto dei due. Nel secondo caso il rispetto dell'accordo internazionale, eventualmente raggiunto, è indissolubilmente legato all'effetto di free riding da parte dei singoli Stati come accade per il singolo individuo nel caso di beni pubblici. Esempi di concreti accordi sono le direttive e i regolamenti ambientali della CE entrati a far parte della politica comunitaria soltanto di recente.

Tappe significative nella protezione ambientale. - Numerosi trattati internazionali sui problemi ambientali, bilaterali e multilaterali, sono stati firmati da un numero variabile di Stati soprattutto negli anni Sessanta, e ancor di più dagli anni Settanta in poi, mentre più rari sono quelli risalenti agli anni Cinquanta e Quaranta, e pochissimi quelli risalenti agli anni precedenti. Questi accordi sono generalmente tematici, nel senso che si riferiscono all'inquinamento marino, ai fiumi internazionali, alla flora e fauna, al nucleare, all'aria. Altri invece si riferiscono ad aspetti specifici spesso riconducibili al trattamento dei rifiuti e in particolar modo di quelli tossici.

Nel giugno del 1972 si tenne a Stoccolma la prima conferenza mondiale delle Nazioni Unite sull'ambiente umano allo scopo di assicurare una certa qualità ambientale; essa portò all'istituzione dell'UNEP (United Nations Environment Programme) e alla Conferenza globale sull'inquinamento tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, seguita da un'altra nel dicembre 1997 a Kyoto, per verificare i risultati raggiunti in termini di obiettivi stabiliti nei precedenti accordi internazionali (soprattutto a Rio de Janeiro) e fissare i nuovi obiettivi. Quest'ultima Conferenza globale ha ottenuto risultati parziali, sia perché quasi nessun obiettivo stabilito a Rio è stato raggiunto, sia perché il Protocollo che infine è stato prodotto evidenzia poche possibilità di ratifica da parte dei paesi ricchi, primi fra tutti gli Stati Uniti. La causa va ricercata nel fatto che mentre l'Unione Europea, gli Stati Uniti e il Giappone hanno convenuto di ridurre le emissioni dei gas che provocano il surriscaldamento del pianeta (effetto serra) rispettivamente dell'8%, 7% e 5%, cioè al di sotto del livello del 1990, i paesi in via di sviluppo non sembrano disposti a limitare in alcun modo le loro emissioni. Significativa è stata la pubblicazione nel 1997 del rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo (WCED, World Commission on Environment and Development) o rapporto Brundtland, Our common future, al quale si deve tra l'altro l'introduzione del termine sviluppo sostenibile nel senso di crescita economica eco-compatibile.

Osservazioni conclusive

Riconoscere la circolarità delle relazioni a. naturale-processo produttivo spinge a porre al centro dell'attenzione le possibilità di riciclaggio dei rifiuti, attività sulla quale convergono i problemi legati alla lotta contro l'inquinamento e all'uso delle risorse naturali. Infatti, grazie ad essa, è possibile rendere impiegabile nel processo produttivo materiale secondario in luogo delle materie prime (e perciò ridurre la pressione sulla disponibilità di risorse naturali), ridurre le risorse economiche destinate ad accumulo, trattamento e distruzione dei rifiuti, e quindi ridurre l'inquinamento che è in gran parte dovuto proprio al trattamento dei rifiuti (discariche, incenerimento ecc.). Particolari problemi genera il trattamento dei rifiuti tossici, i quali dovrebbero circolare in tutti gli Stati con loro specifici e dettagliati documenti di viaggio in modo da avere il quadro conoscitivo circa il 'dove' e la 'condizione' nella quale si trovano in ogni momento, e da non perderne traccia in qualche passaggio.

In termini di politiche ambientali classiche, un grande impegno è necessario per la cura dei problemi di dimensione mondiale indotti dalla crescita economica. Le prospettive ottimistiche di cura ambientale sono legate alla stipula di accordi mondiali e all'assenza di comportamenti di free riding da parte dei vari firmatari.

In termini di impiego e disponibilità di risorse naturali anche per le generazioni future, molto dipende dalla sostituibilità e dal progresso tecnico. Se quest'ultimo si evolverà in futuro lungo le linee sperimentate in passato, ci si possono attendere maggiori risparmi di materie prime naturali, sia perché dovrebbero aumentare i processi riutilizzativi a costi via via più bassi, sia perché il rapporto energia/ prodotto (intensità energetica) dovrebbe continuare a ridursi. Potranno inoltre essere scoperti nuovi giacimenti di fonti energetiche oltre che forme di energia alternative. Va però riconosciuto che, per quanto la ricerca e il comportamento responsabile delle generazioni presenti possano dare un valido aiuto alla tutela ambientale, l'esplosione demografica resta il vero pericolo per la qualità dell'a. e la disponibilità di risorse naturali.

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Diritto internazionale

di Alessandra Mignolli

In materia di tutela dell'a. il diritto internazionale deve confrontarsi con una contraddizione di fondo tra l'inevitabile considerazione dell'unità, sotto il profilo fisico e geografico, dell'a. naturale e l'altrettanto inevitabile ripartizione del globo terrestre tra una molteplicità di sovrani territoriali. È evidente, infatti, che le conseguenze dei danni arrecati all'a. nel territorio di uno Stato si ripercuotono oltre le frontiere di questo, e che l'a. in questo senso assume sempre più i caratteri di un bene globale e indivisibile. Tuttavia la comunità internazionale fatica ad ammettere che tale bene costituisca, giuridicamente, l'oggetto di un interesse comune. In altre parole, il singolo Stato non accetta volentieri di sottostare a limitazioni nell'esercizio della propria sovranità territoriale, per es. in ordine allo sfruttamento delle risorse naturali, in nome di un interesse generale. Può così accadere, e di fatto accade, che l'interesse generale per la conservazione e la tutela ambientale contrasti con l'interesse del singolo Stato e dei propri cittadini per lo sfruttamento economico di determinate risorse. Sotto il profilo giuridico, dunque, appare ancora difficile e controversa la qualificazione, che pure è stata proposta (Spatafora 1992), dell'a. come patrimonio comune dell'umanità, la cui conservazione, per il benessere delle generazioni presenti e future, costituirebbe un interesse generale e fondamentale della comunità internazionale nel suo insieme. La problematicità di una simile qualificazione ha fatto sì che la nozione di patrimonio comune dell'umanità si sia affermata con esclusivo riguardo a risorse situate in spazi sottratti alla sovranità territoriale, come il fondo e il sottosuolo dell'alto mare o lo spazio extra-atmosferico, e abbia assunto una valenza e obiettivi di natura prevalentemente economica, quale quello di consentire a tutti gli Stati di partecipare ai benefici derivanti dallo sfruttamento di risorse esauribili, la cui estrazione, richiedendo tecnologie avanzate e costose, risulterebbe altrimenti appannaggio di pochi. Una simile valutazione in termini economici dell'a., come risorsa esauribile, e quindi preziosa, stenta ad affermarsi nella comunità internazionale, soprattutto relativamente agli spazi sottoposti a sovranità statali. Tale valutazione incontra resistenze soprattutto da parte degli Stati in via di sviluppo, nell'immediato più interessati a trarre profitti dallo sfruttamento delle risorse naturali di cui dispongono e poco propensi a introdurre nel processo produttivo di industrie nascenti tecnologie rispettose dell'a., che richiedono ingenti investimenti. Non solo, ma le stesse imprese di paesi industrializzati spesso non esitano a trasferire i propri impianti produttivi sul territorio di paesi che adottano bassi livelli di protezione ambientale. Tenendo presenti questi problemi e queste contraddizioni di fondo si possono ora analizzare le tendenze e gli sviluppi, che sono nonostante tutto degni di rilievo, del diritto internazionale dell'ambiente. Un forte impulso a tale sviluppo è giunto, a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, dal crescente aggravarsi del degrado ambientale e dalla necessaria consapevolezza che problemi come l'assottigliamento della fascia di ozono e l'effetto serra non possono essere affrontati e risolti al livello nazionale, ma richiedono uno sforzo comune di tutti gli Stati. Sta dunque cominciando lentamente a farsi strada, non senza difficoltà e contrasti, la coscienza della 'globalizzazione' del problema ambientale. Negli ultimi venti anni del sec. 20° le iniziative internazionali volte a far fronte a problemi di natura ambientale si sono moltiplicate.

Degne di rilievo sono quelle iniziative che, sul piano regionale, sono state poste in essere per preservare uno specifico spazio dall'inquinamento: tra queste si segnalano la Convenzione di Barcellona del 1976 per la protezione del Mediterraneo con relativi protocolli aggiuntivi, su cui v. ambiente e mediterraneo, nella V App.; il Protocollo di Madrid del 1991 sulla protezione dell'a. antartico, che integra il Trattato di Washington del 1959; il cosiddetto side agreement, che affianca il NAFTA (North American Free Trade Agreement) del 1993 (in vigore dal 1° genn. 1994) e fissa standard di protezione ambientale comuni per i tre Stati contraenti (Stati Uniti, Canada, Messico), allo scopo di evitare che normative nazionali difformi producano distorsioni sul flusso degli investimenti. La presente voce è dedicata a fare il punto sullo stato del diritto internazionale in materia ambientale e dei suoi più rilevanti sviluppi, prevalentemente sul piano multilaterale, tenendo conto dei risultati conseguiti, ma anche delle difficoltà cui si è, fin dall'inizio, accennato.

Diritto consuetudinario in materia ambientale

Sotto il profilo del diritto internazionale consuetudinario, anche a causa della comparsa relativamente recente del problema ambientale, sono pochi i principi di cui prassi statale e dottrina accettino unanimemente l'effettiva vigenza. Si può dire che la maggior parte di essi sono ancora in via di formazione, data la loro comparsa in una serie sempre più fitta di strumenti giuridici, sia non vincolanti (risoluzioni, dichiarazioni ecc.), sia vincolanti (trattati, convenzioni), che si sono andati moltiplicando negli anni Ottanta e Novanta. Nel processo di formazione di norme giuridiche in questa materia, un ruolo rilevante è stato svolto dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite, attraverso l'adozione di un gran numero di risoluzioni e la convocazione di importanti conferenze internazionali. In una fase di incertezza ed evoluzione, alcune pronunce della Corte internazionale di giustizia della seconda metà degli anni Novanta hanno contribuito a far luce sulla questione dell'esistenza, nel diritto internazionale generale, di alcuni principi relativi alla protezione ambientale.

Il divieto di provocare danni ambientali transfrontalieri, apparso per la prima volta nella sentenza arbitrale del 1941 nel caso della Fonderia di Trail, avente a oggetto una controversia tra Stati Uniti e Canada per i danni causati a coltivazioni statunitensi dalle immissioni inquinanti provenienti da una fonderia canadese, è stato ripreso ed enunciato nella Dichiarazione adottata dalla Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente umano svoltasi a Stoccolma nel 1972 (principio 21) e nella Dichiarazione della Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro del 1992 (principio 2), entrambi, peraltro, atti non vincolanti. La Corte internazionale di giustizia, nel parere consultivo reso l'8 luglio 1996 sulla liceità della minaccia o dell'uso di armi nucleari, ha affermato che "l'obbligo generale che hanno gli Stati di vigilare affinché le attività esercitate entro i limiti della loro giurisdizione o sotto il loro controllo rispettino l'ambiente negli altri Stati o nelle zone non appartenenti alla giurisdizione di alcuno Stato fa ora parte del corpo di regole del diritto internazionale dell'ambiente". La Corte ha ritenuto che i principi di Stoccolma e di Rio e il loro frequente inserimento in convenzioni internazionali siano testimonianza di un'acquisita opinio iuris su questo punto. In una successiva pronuncia, la sentenza resa il 25 settembre 1997 nel caso del progetto Gabcikovo-Nagymaros tra Ungheria e Slovacchia, la Corte ha posto in evidenza un altro principio generale rilevante in materia ambientale, il principio di prevenzione, essenziale per la frequente irreversibilità dei danni ambientali. Certa e da tempo consolidata è invece l'esistenza di norme che regolano la gestione equa di risorse condivise tra due o più Stati, come per es. i corsi d'acqua che attraversano più Stati: è infatti vietato deviare a monte il corso di un fiume impedendo il flusso delle acque nello Stato a valle o bloccare con una diga l'immissione delle acque in un lago comune. Questi principi sono stati ora trasfusi in una convenzione di codificazione delle norme internazionali relative agli usi, diversi dalla navigazione, dei corsi d'acqua internazionali, adottata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 21 maggio 1997. Quello che certamente non esiste nel diritto internazionale generale è invece un principio che comporti la responsabilità internazionale dello Stato che abbia, esercitando attività non vietate, provocato dei danni all'ambiente. Una tale forma di responsabilità oggettiva assoluta è allo stato attuale decisamente da escludersi, come confermano anche le difficoltà incontrate dalla Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite, che sta da tempo lavorando a un progetto di codificazione della responsabilità degli Stati per attività lecite. Molte convenzioni internazionali hanno invece previsto mezzi per far valere la responsabilità civile interna di chi provochi danni ambientali (un esempio è la convenzione europea sulla responsabilità civile per i danni risultanti da attività pericolose per l'a., aperta alla firma il 21 giugno 1993 nel quadro del Consiglio d'Europa). E con ciò il quadro delle regole consuetudinarie è completo, dal momento che sull'obbligo di effettuare una preventiva valutazione di impatto ambientale per ogni attività intrapresa e soprattutto sulle modalità di tale valutazione le opinioni sono contrastanti.

Diritto pattizio e atti non vincolanti in materia ambientale

In presenza di una situazione che, lo si è visto, sul piano del diritto consuetudinario è quanto mai incerta e in fase di evoluzione, gli Stati hanno dato vita a una serie di convenzioni in materia di protezione dell'a., sia al livello bilaterale, per regolare tra Stati limitrofi le attività nocive poste in essere su territori confinanti, sia al livello multilaterale, e sono le più numerose negli ultimi anni e le più interessanti, perché testimoniano uno sforzo di individuare nuove soluzioni e meccanismi giuridici. Fino alla seconda metà degli anni Ottanta, gli strumenti giuridici esistenti contenevano obblighi estremamente vaghi e generici: si ricorda la convenzione del 1979 sull'inquinamento transfrontaliero a lunga distanza. La prima convenzione che ha introdotto precisi obblighi a carico dei contraenti è quella di Vienna del 1985 per la protezione della fascia di ozono, integrata dal protocollo di Montréal del 1987 sui clorofluorocarburi. Nel 1992, le Nazioni Unite, a venti anni dalla prima conferenza internazionale sull'ambiente, che si era svolta a Stoccolma nel 1972 e che aveva dato vita all'UNEP (United Nations Environment Programme), convocarono a Rio de Janeiro la Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente e lo sviluppo. In tale occasione, non si riuscì ad adottare, come era stato auspicato, una Carta della Terra vincolante per tutti gli Stati, ma fu approvata una serie di atti di natura programmatica, che comunque ha contribuito a orientare l'attività degli Stati di fronte ai problemi ambientali. Oltre alla Dichiarazione di principi, già ricordata, furono approvate la cosiddetta Agenda 21, importante documento programmatico che fornisce le linee guida per una corretta politica ambientale, e una Dichiarazione autorevole di principi sulla gestione delle foreste. In tali documenti compare l'importante nozione di 'sviluppo sostenibile', criterio di azione volto a conciliare le esigenze dello sviluppo economico e una politica a difesa dell'a. (v. oltre). Dopo cinque anni dall'adozione di tali atti, nel 1997, una sessione speciale dell'Assemblea generale, convocata allo scopo di fare un bilancio della realizzazione degli obiettivi posti con l'Agenda 21, ha purtroppo dovuto constatare che "lo stato dell'ambiente mondiale non ha cessato di deteriorarsi" e che la situazione "è peggiore oggi di quanto non fosse nel 1992". In occasione della Conferenza di Rio furono inoltre aperte alla firma due rilevanti convenzioni internazionali, quella sui cambiamenti climatici e quella sulla biodiversità.

Tutte le convenzioni citate fanno propri i criteri derivanti dalla nozione di sviluppo sostenibile, per la quale la tutela dell'a. si deve conciliare con le esigenze dello sviluppo economico e non deve contrastare con esse. In particolare, i paesi in via di sviluppo lamentavano i costi eccessivi richiesti dall'applicazione degli obblighi delle convenzioni e facevano presente la loro minore responsabilità nel deterioramento dell'a., dovuto soprattutto ai paesi industrializzati. Ne è derivata l'accettazione del principio della responsabilità comune ma differenziata, in base al quale gli oneri sono ripartiti in modo tale da gravare in misura maggiore sui paesi industrializzati, ai quali spettano termini temporali più ridotti per adattarsi alle prescrizioni convenzionali. Essi sono poi tenuti a favorire il trasferimento di tecnologia e a predisporre strumenti di finanziamento a favore delle politiche ambientali nei PVS (Paesi in via di sviluppo). Un tale strumento, per la verità, già esisteva, ed è stato potenziato per poter contribuire al finanziamento di misure ambientali da adottare nel quadro delle Convenzioni sulla biodiversità, sui cambiamenti climatici e sulla fascia di ozono, nonché in materia di acque internazionali. Si tratta del Fondo per l'ambiente mondiale, che era stato costituito nel 1990 nell'ambito della Banca mondiale come Fondo di stanziamento speciale per l'ambiente mondiale e che nel 1994 ha assunto la nuova denominazione e una nuova struttura, per effetto di uno 'strumento' adottato da numerosi Stati e dalla Banca mondiale, dall'UNEP e dall'UNDP (United Nations Development Programme).

Tutte le convenzioni più recenti in materia ambientale, di cui quelle citate sono senz'altro le più rilevanti (ma si ricordano anche la Convenzione di Basilea del 1989 sui movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi, quella di Londra del 1990 sulla prevenzione e la cooperazione in materia di inquinamento marino da idrocarburi, quella di Parigi del 1994 sulla lotta contro la desertificazione), prevedono una continua verifica dell'applicazione degli obblighi da parte dei contraenti, attraverso periodiche conferenze delle parti. Lo scopo di tali meccanismi è quello di promuovere l'osservanza degli obblighi evitando il ricorso alle lunghe e complesse procedure previste dal diritto internazionale per la soluzione delle controversie nascenti da un eventuale inadempimento. La procedura in caso di inadempimento, infatti, tende a essere svolta in termini amichevoli: si evita il termine 'illecito', per non urtare la sensibilità dei contraenti, ma si parla di 'procedure di conformità', in base alle quali si tende a incoraggiare lo Stato recalcitrante ad adempiere ai suoi obblighi, se del caso fornendogli finanziamenti o assistenza tecnica. Solo in casi estremi sono previste delle vere e proprie sanzioni, che vanno dalla perdita dei diritti derivanti dalla convenzione alla possibilità di subire l'embargo commerciale in relazione ai prodotti non conformi alle direttive della convenzione. È quanto è accaduto nel 1995, nel quadro del protocollo di Montréal, nei confronti della Russia: una decisione volta ad autorizzare le parti contraenti a vietare l'importazione di prodotti provenienti dalla Russia non conformi a quanto prescritto nel protocollo in materia di clorofluorocarburi.

Lo sviluppo sostenibile

La nozione di sviluppo sostenibile o di sostenibilità è stata già più volte evocata, ma vale la pena di soffermarvisi per la sua rilevanza nei rapporti tra sviluppo economico e tutela dell'a. (per un'analisi di tale concetto sotto il profilo scientifico, v. sviluppo sostenibile, App. V). Sul piano giuridico e politico, essa nasce come tentativo per conciliare le due opposte visioni dei paesi industrializzati e dei PVS in ordine alla priorità da assegnare alla tutela ambientale nell'ambito delle politiche nazionali di sviluppo economico. In primo piano, i PVS hanno voluto che fosse posto l'accento sulla sovranità esclusiva dello Stato in relazione a qualsiasi decisione nazionale legata alla politica economica e di sviluppo, come appare evidente dalla formulazione del principio 2 di Rio: "Gli Stati hanno [...] il diritto sovrano di sfruttare le proprie risorse conformemente alle loro politiche ambientali e di sviluppo". Con questa importante premessa, nella Dichiarazione di Rio lo sviluppo sostenibile è stato così enunciato: "Il diritto allo sviluppo deve essere realizzato in modo tale da soddisfare equamente le esigenze di sviluppo e ambientali delle generazioni presenti e future" (principio 3); e: "Per pervenire a uno sviluppo sostenibile, la protezione dell'ambiente deve costituire parte integrante del processo di sviluppo e non può essere considerata isolatamente" (principio 4). Come si può rilevare, si tratta di enunciazioni estremamente generali, che mirano essenzialmente a individuare una prospettiva entro la quale gli Stati dovrebbero condurre la propria politica di sviluppo economico. In tale prospettiva assume un rilievo fondamentale l'elemento temporale, com'è stato rilevato dalla Corte internazionale di giustizia nella già citata sentenza del 1997: la preservazione di un a. sano è un'esigenza essenziale non soltanto per le attuali generazioni, ma anche e soprattutto per le generazioni future.

L'obiettivo di un processo di sviluppo sostenibile implica l'individuazione di alcuni criteri-guida nell'attuazione della politica economica di ogni singolo Stato: così, in materia di gestione delle risorse naturali, la sostenibilità comporta lo sfruttamento delle risorse secondo modalità e ritmi che non ne provochino la riduzione a lungo termine e che al tempo stesso salvaguardino la possibilità di soddisfare le esigenze delle generazioni presenti e future. Si ritiene altresì insito nella nozione di sviluppo sostenibile il cosiddetto principio precauzionale secondo il quale, in presenza di progetti e attività di cui, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche e dei dati disponibili, non si conoscano le possibili conseguenze dannose, si dovrebbero adottare misure di protezione ambientale. Il principio precauzionale è stato accolto in alcune convenzioni dedicate alla conservazione delle risorse naturali, in particolare nell'accordo del 1995 sulle specie di pesci sconfinanti (tra aree di mare soggette alla giurisdizione degli Stati costieri e alto mare) e altamente migratorie, per il quale l'assenza di adeguate informazioni scientifiche non giustifica la mancata adozione di misure di conservazione delle risorse. Si è già accennato a un'altra conseguenza essenziale della nozione di sviluppo sostenibile, che è il principio della responsabilità comune ma differenziata, con la conseguente ripartizione degli oneri a carico principalmente dei paesi industrializzati e con la predisposizione di meccanismi di finanziamento e assistenza tecnica a favore dei PVS.

Commercio internazionale e tutela dell'ambiente

L'applicazione, da parte degli Stati, soprattutto quelli industrializzati, di elevati standard di protezione ambientale nel processo produttivo di beni e servizi come condizione per la loro commercializzazione può comportare inconvenienti e distorsioni nel commercio internazionale, avviato a una sempre più ampia liberalizzazione. Il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) non contiene una normativa specifica in materia. Il fine della protezione ambientale è preso in considerazione esclusivamente dall'art. xx, lett. b) e g), disposizioni che consentono alle parti contraenti di adottare misure che potrebbero altrimenti rappresentare restrizioni al commercio e quindi violazioni dell'Accordo generale, qualora esse siano "necessarie per proteggere la vita e la salute umana, animale o vegetale" o "relative alla conservazione di risorse naturali esauribili"; ciò purché le misure in questione non costituiscano "un mezzo di arbitraria e ingiustificata discriminazione" o una "restrizione mascherata al commercio internazionale". L'applicazione di tali disposizioni da parte degli organi del GATT e, dal 1995, dell'OMC competenti in materia di risoluzione delle controversie appare alquanto restrittiva: il ricorso a misure restrittive del commercio a fini di protezione ambientale è un'extrema ratio, utilizzabile solo in assenza di strumenti alternativi. Sotto il profilo del commercio internazionale, l'applicazione di elevati standard ambientali crea essenzialmente due ordini di problemi. Da un lato dà luogo al rischio di una modifica dei vantaggi comparati degli scambi a tutto svantaggio dei prodotti provenienti dai paesi 'ambientalisti', per i costi elevati che produttori e consumatori devono sopportare; su questo punto, peraltro, gioca un ruolo importante l'informazione e la sensibilizzazione volta a indurre l'opinione pubblica a optare per un prodotto 'pulito', benché più costoso. Dall'altro, come è temuto in particolare dai PVS, può dare luogo a forme mascherate di protezionismo, se uno Stato cerca di imporre i propri standard anche ai suoi partner commerciali, introducendo per es. restrizioni alle importazioni di prodotti provenienti da paesi che applicano standard ambientali più bassi. È precisamente quanto è avvenuto, per citare solo un caso, nella famosa tuna-dolphin dispute tra Stati Uniti e Messico, decisa in ambito GATT con due provvedimenti del 1991 e del 1994: gli Stati Uniti avevano introdotto un vero e proprio embargo commerciale nei confronti del tonno messicano, in ragione del fatto che esso era pescato con particolari tipi di reti che comportavano un elevato numero di catture accidentali di delfini. Di fronte al moltiplicarsi di casi del genere, gli accordi conclusivi dell'Uruguay Round del GATT hanno preso in considerazione il tema dell'a., e l'obiettivo di uno sviluppo sostenibile è stato inserito nel Preambolo dell'Accordo istitutivo dell'Organizzazione mondiale del commercio. Altri accordi adottati in quell'occasione prevedono specifiche disposizioni di natura ambientale, come l'accordo sulla proprietà intellettuale e quello sul commercio dei servizi, l'accordo sulle misure sanitarie e fitosanitarie, l'accordo sulle barriere tecniche al commercio. Infine, nell'atto finale della conferenza di Marrakech del 1994, conclusiva dell'Uruguay Round, è stata incorporata una decisione ministeriale su commercio e ambiente, che ha dato vita a un Comitato, con il compito di studiare le relazioni tra misure commerciali e misure ambientali e l'eventuale opportunità di modificare le disposizioni commerciali multilaterali attraverso l'elaborazione di nuove regole, la prevenzione di forme di protezionismo, la sorveglianza sull'applicazione delle misure commerciali destinate alla protezione dell'ambiente.

La politica ambientale comunitaria

La Comunità economica europea si è dotata di una vera e propria politica in materia ambientale solo nel 1986, quando l'Atto Unico europeo ha inserito nel Trattato di Roma del 1957 gli articoli da 130R a 130T. Tuttavia, già dagli anni Settanta le istituzioni della Comunità avevano cominciato a elaborare strategie per una tutela ambientale coordinata tra tutti gli Stati membri. Programmi di intervento in campo ambientale sono stati adottati a partire dal 1973, mentre la preoccupazione che la creazione del mercato comune vada di pari passo con il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini era già presente nell'art. 2 del Trattato, tra gli obiettivi che la Comunità, fin dall'inizio, si prefiggeva. È da notare che il Trattato di Amsterdam del 1997 ha modificato l'art. 2, inserendo più esplicitamente, tra gli obiettivi della Comunità, "un elevato livello di tutela dell'ambiente e il miglioramento della qualità di quest'ultimo", mentre l'art. 3C prescrive che le esigenze connesse con la tutela dell'a. siano "integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni comunitarie[...] in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile". D'altra parte, la valenza per così dire 'orizzontale' della politica a favore dell'a. era stata già da tempo percepita dalla Commissione europea che, per fare un solo esempio, si è sempre mostrata indulgente nei confronti di aiuti statali alle imprese, di regola vietati, quando siano erogati per promuovere la tutela dell'ambiente.

Obiettivi della politica comunitaria dell'a. sono, secondo l'art. 130R, "salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente; protezione della salute umana; utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali; promozione, sul piano internazionale, di misure destinate a risolvere i problemi dell'ambiente a livello regionale o mondiale". La Comunità intende perseguire tali obiettivi realizzando un elevato livello di tutela, fondato sui "principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, anzitutto alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio "chi inquina paga"". Sulla base di tali principi la Comunità può adottare provvedimenti di protezione ambientale, e programmi d'azione generali che fissano gli obiettivi prioritari da raggiungere; possono inoltre essere adottate normative di armonizzazione legislativa in materia di tutela ambientale. Nel 1994, poi, è stata istituita l'Agenzia europea per l'ambiente, con sede a Copenaghen, con funzioni consultive di supporto alla Commissione. Tra i provvedimenti normativi di maggior rilievo adottati dalle istituzioni si possono segnalare la direttiva nr. 85/337 del 26 giugno 1985, che impone di effettuare una preventiva valutazione di impatto ambientale relativamente a progetti di opere pubbliche o private, e la direttiva nr. 96/61 del 24 settembre 1996, per la prevenzione e la riduzione dell'inquinamento nei grandi impianti industriali, che prevede una procedura di autorizzazione.

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