GITAI, Amos

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

GITAI, Amos

Daniela Turco

Regista cinematografico israeliano, nato a Haifa l’11 ottobre 1950. Nell’arco di quarant’anni di attività, il cinema di G. si è affermato come strumento sensibile e politico di conoscenza e di pensiero, in una linea già indicata da cineasti come Roberto Rossellini e Jean-Luc Godard (v.). Il suo sguardo, situato da sempre nell’incerto confine tra documentario e finzione, si è soprattutto concentrato sulla complessità geopolitica del quadro mediorientale, di cui ha indagato le radici umane, culturali, filosofiche ed economiche, in una sorta di work in progress ancora in atto. L’uso frequente del piano-sequenza, i prolungati carrelli in camera-car, le dissolvenze in nero e le sovrimpressioni, il métissage continuo fra le arti, che attraversa politicamente e poeticamente le sue immagini, hanno sempre contraddistinto il suo lavoro, fondato sulla necessità di impegnarsi in una continua ricerca, tra identità e utopia.

Di origini europee (il padre, Munio Weinraub Gitai, era stato uno degli architetti del Bauhaus, mentre la madre, Efratia Margalit, docente di teologia ebraica e studiosa di psicoanalisi, era nata in Palestina da genitori russi), G. studiò architettura in Israele, conseguendo, poi, un dottorato negli Stati Uniti. Nell’ottobre del 1973, quando divampò la guerra dello Yom Kippur, si arruolò come volontario in un corpo di soccorso. L’esperienza diretta della guerra fu per lui determinante, spingendolo a scegliere il cinema come mezzo privilegiato di espressione. Nei decenni Ottanta e Novanta, prima soprattutto in Francia e poi tornando in Israele, G. ha costruito con il suo cinema una cifra espressiva inconfondibile in cui si assemblano nella ricerca linguistica incentrata su un montaggio ellittico e su un uso poetico-politico delle immagini e dei piani-sequenza i temi dell’esilio, dell’emigrazione e della diaspora ebraica, indicando connessioni insolite tra contemporaneità sociale e politica di Israele e la circolarità temporale della storia e della memoria ebraica, disposte in una tessitura territoriale e simbolica, dove si intrecciano luoghi, spazi e tempi. Esemplare in tal senso il progetto cui G. iniziò a lavorare con Wadi (1981), il primo di una serie di tre documentari girati a intervalli decennali, di cui l’ultimo è Wadi. Grand Canyon (2001), struggente laboratorio di visione politica e di approccio umano, in cui venivano assorbiti e rimontati anche i due precedenti. È stato con Kippur (2000) che G., a molti anni di distanza da quella guerra, ha inaugurato il suo lavoro degli anni Duemila, dopo la trilogia del ritorno in Israele ispirata dalle tre grandi città israeliane: Zihron Devarim (1995; L’inventario, su Tel Aviv), Yom Yom (1998; Giorno per giorno, su Haifa) e Kadosh (1999, su Gerusalemme), tutti film che offrono un’interpretazione immediata del suo Paese, filmato con poetica crudezza, fin dentro le sue contraddizioni più profonde, mettendo in scena quel la stessa esperienza che lo aveva spinto a diventare un cineasta. Il film procede con lunghi, implacabili piani-sequenza: il fronte è invaso dalla pioggia e dal fango che, impastati ai corpi, trasmettono il senso della tragica inutilità di ogni guerra. Questo tipo di riflessione è proseguito con Eden (2001), che mostra il percorso drammatico per giungere al 1948, anno di fondazione di Israele, ed è segnato dalla toccante prova d’attore di Arthur Miller, e poi con Kedma (2002; Kedma verso Oriente), che continua la ricognizione storica inaugurata da Eden, soffermandosi sull’approdo drammatico dei primi immigrati dall’Europa in Palestina, alla fine della Seconda guerra mondiale. Con Alila (2003), G. ha fatto ritorno alla contemporaneità, mettendo in scena un mosaico di storie, ambientate in una Tel Aviv aggrovigliata e caotica, scandite per piani-sequenza: una scelta formale voluta, in cui si materializza la tensione utopica al superamento di una realtà ormai in frammenti. In seguito G., attraverso una nuova trilogia ispirata dall’idea delle frontiere e del loro attraversamento, ha realizzato tre film, girati fuori e dentro Israele, in cui, nella cornice della complessa situazione geopolitica mediorientale, emergono nuove tematiche come il traffico di donne (Promised land, 2004), la ‘differenza’ femminile come potenziale agente di cambiamento (Free zone, 2005), la casa come luogo di relazioni e di conflitti familiari (Disengagement, 2007, Disimpegno), tema riproposto anche in News from house, news from home (2006), teso documentario politico che ritorna, a distanza di ventisei anni, sulle tracce di House (1980) e dei suoi protagonisti.

Lullaby to my father

Dopo Plus tard tu comprendras (2008), tratto dal libro omonimo di Jérôme Clément, film intenso e controverso per il confronto con la Shoah e per la necessità di trasmissione della memoria che lo anima, G. con Carmel (2009) e Lullaby to my father (2012) ha inaugurato una nuova stagione, tanto libera quanto personale, sia per la presenza di elementi intimi come i propri ricordi o i membri della sua stessa famiglia, sia perché, nello stesso periodo, ha iniziato ad affiancare al cinema un’intensa attività espositiva all’interno di musei e gallerie internazionali. Questa nuova dimensione si è dimostrata essenziale per G. per decostruire le proprie immagini e nello stesso tempo per poterle risignificare, ponendole in un rapporto del tutto nuovo con lo spazio espositivo. A Bordeaux, nella base usata dai sottomarini durante la Seconda guerra mondiale, a Parigi nei sotterranei del Palais de Tokyo, a Torino nel sottosuolo della Mole Antonelliana, a Milano nelle sale di Palazzo Reale i frammenti del cinema di G. hanno potuto avventurarsi in una sorta di zona franca, che ha permesso loro di riconfigurarsi in un nuovo disegno, in cui erano spesso raccolti progetti futuri.

La riflessione teorica e politica sempre presente nel suo lavoro ha assunto una nuova forma sostanziale in Ana Arabia (2013), girato in un unico, magistrale piano-sequenza, in un sobborgo a rischio di sgombero di Tel Aviv. Nel film le singole storie, le singole vite, raccontano la forma presente e concreta di un’utopia materialistica fondata sul rispetto e sull’ascolto dell’altro. Tratto dall’omonimo testo di Aaron Appelfeld, con Tsili (2014), ancora una volta, hanno ripreso corpo i fantasmi della Shoah e di una memoria, personale e collettiva, che G. ha sempre interrogato come tracce ancora vive e presenti non solo nell’identità ebraica, ma nelle radici profonde di una comune storia europea.

Bibliografia: Amos Gitai, a cura di A. Farassino, Rimini 1989; The films of Amos Gitai. A montage, ed. P. Willemen, London 1993; Amos Gitai. Cinema forza di pace, a cura di D. Turco, Recco 2002; S. Toubiana, Il cinema di Amos Gitai. Frontiere e territori, Milano 2006. Si vedano inoltre di «Filmcritica» i nn. 600 (dic. 2009), 628 (sett.-ott. 2012), 637/638 (sett.-ott. 2013), 649 (nov. 2014).

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