APPIANI, Andrea

Enciclopedia Italiana (1929)

APPIANI, Andrea

Ugo Ojetti

Pittore, nacque in Milano il 23 maggio 1754 dal medico Antonio Appiani e da Marta Maria Liverta, e fu battezzato a San Carpoforo con i nomi di Giovanni, Andrea e Melchiorre. Il padre sperò avviarlo alla medicina. Ma Andrea non era arrivato a studiare "rettorica" che già, per aver copiato con diligenza molte stampe e aver disegnato qualche testa dal vivo, gli chiedeva di potersi dare all'arte. Così nel 1769 il padre gli permise di seguir la scuola di Carlo Maria Giudici, pittore e scultore (nato a Viggiù nel 1733, morto a Milano nel 1804) che aveva avuto l'onore di conoscere il Mengs di persona. Ivi l'A. studiò disegno secondo le regole di moda: le proporzioni del corpo umano nelle statue classiche; disegni delle statue stesse, anzi dei gessi, prima a contorno, poi a chiaroscuro, poi lentamente colorando, p. es., l'Apollo Vaticano di color carne con matite di tre colori; disegni da stampe di opere di Raffaello e di Giulio Romano; studî di composizione sugli altorilievi della Colonna Traiana. Dalla scuola del Giudici passò a quella del De Giorgi, all'Ambrosiana, più leggiadro e, come lo credettero i contemporanei, più leonardesco. E col De Giorgi studiò, sulle opere di Leonardo e del Luini, più specialmente pittura. Lasciò il De Giorgi per lo Knoller, che rinvigorì il chiaroscuro e gl'insegnò l'affresco. Ma l'affresco lo studiò anche sotto il fiorentino Giuliano Traballesi, allora professore a Brera, più libero dai comandamenti del Mengs e più flessuoso e settecentesco. Appunto per questo l'A. poco l'amò, ché per lui il Traballesi sapeva ancora di barocco, e già i condiscepoli chiamavano il castigatissimo A. "il seccone". Così giunse ai ventiquattr'anni. S'era già legato d'amicizia con il milanese Gaetano Monti, scultore d'animali, per l'epoca, vivace e schietto; con gli architetti Albertolli e Piermarini maggiori di lui; col Parini (anche la famiglia Appiani era oriunda di Bosisio), che la purezza dello stile preparava ad accogliere con entusiasmo le teorie del Winckelmann e del Lessing. Le buone lettere erano stimate dai pittori d'allora necessarie a dipingere con "sublimità d'idee", e l'A. ebbe la ventura di diventare più tardi amico anche del Foscolo e del Monti. Appassionato di musica, tollerabile sonator di violino, in quegli anni, per vivere, dipinse anche scene e costumi pel teatro alla Scala. Intanto poté recarsi a Parma, a Bologna e a Firenze, e nel 1791 arrivare fino a Roma, dove certo ammirò Raffaello, ma studiò anche le pitture del Mengs nella Biblioteca Vaticana, allora vantate come esempî di "grazia soave e di retta semplicità". Aveva fatto quel viaggio fino a Roma e a Napoli, dove le sculture antiche lo mandarono in estasi, per prepararsi a dipingere in Milano gli affreschi sotto la cupola di San Celso, coi quattro Evangelisti nei pennacchi e i quattro Dottori negli spazî al lato dei finestroni, opera fredda, castigata e stonata, dove solo gli angeli hanno una vita fresca e varia ancora memore del '700 e del Traballesi, ma opera rispettosa dell'architettura, disposta con buone intenzioni di grandezza. Quest'opera gli diede, nonostante le critiche, molta fama e molte commissioni minori, bene elencate nel libro che il suo amico Giuseppe Beretta, incisore, gli dedicò.

Ma la gloria gli venne dal favore del generale Bonaparte, che appena in Italia, nel 1796, lo nominò "commissario superiore" per scegliere nella Lombardia e nel Veneto le opere d'arte più importanti da mandare a Parigi. Da questo incarico penoso, col pretesto d'una malattia che lo colse a Verona, riuscì a liberarsi. Lo stesso anno disegnò molte allegorie in onore del Bonaparte e della Repubblica, incise dal Tonelli; è opera sua anche l'allegoria, con l'Italia e la Libertà che si stringono la mano, per l'intestazione della carta ufficiale del Direttorio della Repubblica Cisalpina. Aveva potuto fare dal vivo un disegno, a carbone e gessetto su carta brunella, del generalissimo subito dopo l'entrata di lui a Milano il 15 maggio 1796, disegno che è ora a Brera nella saletta consacrata all'Appiani. E il Bonaparte teneva tanto al ritratto ad olio promesso con quel disegno, che il 5 messidoro dell'anno V (25 giugno 1797) gli scriveva da Milano di suo pugno con la sua libera ortografia: "Je prie le citojen Appiani de remettre au porteur mon portrait que je desire avoir et que je pourrai lui renvoier pour le finir dans un autre moment. Bonaparte". Il ritratto è conservato nella villa Melzi sul lago di Como e datato 1803, come il ritratto del conte Francesco Melzi vice-presidente della Repubblica Cisalpina, che gli è appeso di contro e che ha le stesse dimensioni. Il generalissimo vi appare esile, pallido e chiomato, con una fonda ruga sulla fronte, le narici frementi, il naso tagliente, il mento rotondo; vestito dell'uniforme di velluto verdone, ornato d'un serto di foglie d'alloro e di quercia, in piedi presso una tavola, la mano sopra una carta d'Italia e, precisamente, l'indice sulla Corsica (cfr. Capi d'arte appartenenti a S. E. la duchessa Joséphine Melzi d'Eril-Barbò, descritti da Giulio Carotti, Bergamo 1901). L'anno dopo il Bonaparte gli donava una casa sul Naviglio, valutata 40.000 lire milanesi. Dell'A. furono anche i disegni per la medaglia commemorativa dei comizî di Lione nel 1801, per la medaglia dopo l'attentato del 14 dicembre 1800, per la medaglia della battaglia di Marengo, per la medaglia dell'incoronazione a re d'Italia, per la medaglia delle vittorie del 1809, per la medaglia del secondo matrimonio di Napoleone nel 1810, dove si vede Marte scacciato da Imeneo. Ma il monumento più noto dell'A., dipinto per Napoleone, furono gli affreschi ordinatigli dal Beauharnais, nel Palazzo reale di Milano, con l'Apoteosi dell'Imperatore e, a chiaroscuro, la descrizione delle maggiori gesta di lui, dalla battaglia di Montenotte a quella di Friedland. Questa opera notissima, di cui Stendhal ha scritto che "la France n'a rien produit de comparable", che tante volte è stata descritta, che fu subito incisa dal Rosaspina, dal Longhi e dal Bisi, e alla cui invenzione collaborò Vincenzo Monti, fu finita dall'A. nel 1808 (purtroppo i cartoni furono dispersi all'asta nel 1830), ma non fu la sola da lui eseguita in quel palazzo, perché subito dopo gli vennero allogati i dipinti nella Sala dei principi, finiti nel 1810.

Napoleone in un dialogo col Canova a Parigi, trascritto dallo stesso Canova (cfr. V. Malamani, Antonio Canova, Milano 1901), giudicò l'A. più esperto nel dipingere a fresco che ad olio. Questo giudizio imperiale sembrerà giusto a chi pensi che l'A. era il maggior affreschista vivente, e che Napoleone a Parigi non poteva incontrare altri pittori a fresco, ma molti ottimi pittori ad olio conosceva e proteggeva, primo il David. Certo ora, confrontando dell'A. i suddetti affreschi, quelli più gentili e giovanili, con la Storia d'Amore e Psiche, nella rotonda della villa reale di Monza (1789), e il Parnaso sulla vòlta del salone nella villa reale di Milano firmati "A. Appiani fecit MDCCCXI", e quelli a Milano nel salone del palazzo Castiglioni (gli affreschi di casa Prina furono danneggiati nel tumulto del 1814), non con i quadri ad olio di soggetto mitologico, storico o religioso, come il Napoleone sul Danubio che è a Versailles nella Galleria delle Battaglie, o Giunone e le Grazie della pinacoteca di Brescia, o l'Adorazione dei Pastori nella chiesa d'Arona, o l'idilliaco Giacobbe nella chiesa d'Alzano (Bergamo), ma con i ritratti da lui dipinti, si può dire che quel giudizio deve essere corretto. Come pel David, anche per l'A. i ritratti restano oggi la più palese prova dei vantaggi della semplicità e verità, da loro tanto spesso vantate a parole. Dei tanti che l'A. dipinse, certo i meno vivi sono i ritratti di Napoleone, se si eccettui quello di casa Melzi: gli altri, primo il Napoleone in trono tra la Pace e la Vittoria (1806), sono manierati e declamatorî. Molti degli altri indicati dai vecchi suoi biografi sono dispersi non si sa più dove, forse sotto altri nomi. Ma basta ricordare il ritratto del Sommariva all'Accademia Carrara di Bergamo, il ritratto del Monti nella galleria romana d'arte moderna ("le chef-d'oeuvre d'André Appiani", scrisse Stendhal), il ritratto della cantante Grassini e della moglie del coreografo Angiolini all'Ambrosiana di Milano, quello di P. Landriani al Museo della Scala, quello del Bodoni a Parma, quello di Marianna Waldstein nell'Accademia di S. Luca a Roma, quello della contessa Grimaldi Prati nella pinacoteca di Treviso, quello, in casa Castelbarco, della contessa Maria Castelbarco, l'"inclita Nice" del Parini, e i suoi autoritratti agli Uffizî e a Brera. Anche negli affreschi del Palazzo reale s'incontrano molti ritratti, del Monti, del Romagnosi, del Bossi, del cardinale Caprara, che ebbe l'onore d'essere rappresentato anche dal David. Nel 1801, dopo i comizi di Lione, l'A. era andato a Parigi, ma niente si sa degli artisti che vi conobbe, né è visibile nella sua arte già matura un qualche effetto di quel viaggio. Nel 1805, il Beauharnais gli aveva dato l'incarico di scegliere, come commissario per le belle arti, tra i quadri delle congregazioni soppresse, quelli degni d'arricchire la pinacoteca di Brera, e di questa pinacoteca lo nominò conservatore.

A 59 anni, il 28 aprile 1813, mentre attendeva a dipingere in palazzo anche la sala di corte, e sempre elegante e fastoso e generoso regnava su tutta l'arte lombarda, fu colto da un attacco apoplettico. Visse inerte nella sua casa di via Monforte fino all'8 novembre 1817, tanto da veder tramontare il sole del suo Bonaparte. Sulla tomba parlò il Berchet. Un monumento gli fu eretto nel palazzo di Brera con un busto del Thorwaldsen nel 1826, e allora il Longhi scrisse un altro elogio di lui. È a Brera anche un busto dell'A. scolpito dal Marchesi e posto accanto a quello del Canova. Ma non è paragonabile, in quella voluta rinascenza del classicismo, l'influsso del Canova a quello dell'Appiani. Quello dominò tutta l'Italia, e, nella scultura, anche tutta l'Europa; il dominio di questo fu limitato alla Lombardia (l'A. fu eletto accademico di S. Luca, a Roma, solo nel 1811) e non ebbe, si può dire, seguaci proprî e lunga fama, anche perché l'A. seppe di rado nella pittura, come il Canova nella scultura, mantenere vivo sotto la compostezza neoclassica il sincero sentimento della grazia e della finezza settecentesca.

Un suo nipote, Andrea Appiani il giovane (1817-1865), anche egli pittore, studiò a Milano sotto l'Hayez e a Roma sotto il Minardi, dipinse quadri storici e di genere e, nella chiesa di Bolbeno in Trentino, affreschi di soggetto sacro.

Bibl.: Descrizione dell'opera a fresco eseguita nel 1795 nel Tempio di S. Maria dal pittore A. A., Milano 1797; L. Lamberti, Descrizione dei dipinti a buon fresco eseguiti dal cav. A. A. nella Sala del trono del R. Palazzo di Milano, Milano 1809; G. Berchet, Allocuzione nei funerali del pittore A. A., Milano 1817; Catalogo delle opere di A. A., Milano 1818; G. Longhi, Elogio storico di A. A., Milano 1826; G. Fumagalli, Elogio del Cav. A. A., negli Atti dell'Accademia di belle arti, Milano 1835; G. Beretta, Le opere di A. A., Milano 1848; A. Caimi, Delle arti del disegno nelle provincie di Lombardia, Milano 1862; L. Malvezzi, Le glorie dell'arte lombarda, Milano 1882; G. Nicodemi, La pittura milanese dell'età neoclassica, Milano 1915; G. Marangoni, La Rotonda dell'A. nella Villa Reale di Monza, Milano 1923.

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