CESALPINO, Andrea

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 24 (1980)

CESALPINO (Caesalpinus), Andrea

Augusto De Ferrari

Nacque nel 1524 o'25 (non nel 1519) ad Arezzo, o più probabilmente in qualchelocalità del contado aretino da Giovanni e Giovanna de Bianchi.

Secondo alcuni biografi, il padre Giovanni o Giovan Battista era medico o comunque dotto; sotto la sua guida il C. avrebbe appreso i primi insegnamenti filosofici - soprattutto la filosofia aristotelica - e le scienze naturali. Pare invece più probabile che non solo Giovanni non fosse nobile, per quanto possidente, ma che esercitasse la professione di muratore. Era figlio di Andrea, che si era stabilito ad Arezzo da un villaggio della Lombardia: infatti il soprannome Cesalpino (meglio Cisalpino, come il C. si firmava) indica probabilmente tale origine, dalla Gallia Cisalpina. Solamente nell'anno 1551Giovanni ottenne la cittadinanza aretina; dal suo matrimonio con Giovanna de Bianchi nacquero tre figli: oltre al primogenito, Andrea Domenico, morto nel 1582, e Antonio battezzato nel 1531.Giovanni morì nel 1572.

Trascorsa nella città natale la giovinezza, il C. si recò a Pisa intorno al 1544 per seguire allo Studio le lezioni di medicina, tenuteda Realdo Colombo per l'anatomia, da Guido Guidi per la medicina e Luca Ghini per la botanica, che egli ricorda con riconoscenza tra i suoi maestri; inoltre da Simone Porzio apprese la filosofia peripatetica. Ma un'orma più profonda nella sua formazione fu lasciata dalle dimostrazioni anatomiche del Vesalio. Laureatosi a Pisa il 20 marzo 1551, il C. rimase probabilmente in questa città, dove divenne nel 1555 prefetto dell'Orto botanico e lettore dei semplici, per essere stato tra i migliori allievi del Ghini (fondatore nel 1544 dell'Orto stesso), dopo che questi fu chiamato a Bologna. Allo Studio pisano insegnò (non è provato se ininterrottamente) per trentasei anni, per sedici anni botanica e per venti medicina, con il medico aretino Tommaso Cornacchini. Alla morte di questo, nel 1582 il C. ottenne di succedergli nella condotta di medico dell'Ordine dei cavalieri di S. Stefano.

Il passaggio alla cattedra medica si spiega sia con la miglior retribuzione sia con la scarsa considerazione in cui erano tenuti i "semplicisti" e in generale coloro che si dedicavano alle ricerche scientifiche rispetto ai filosofi. Anche il granduca lo apprezzava di più come medico che come botanico, tant'è vero che lesinò i quattrini per le illustrazioni in rame del De plantis. Ma la fama del suo Orto botanico giungeva anche all'estero; era in corrispondenza con illustri botanici come il francese P. Belon, il tedesco T. Mermann, il fiammingo M. de L'Obel, Ulisse Aldovrandi, ecc. Tra i suoi allievi divennero famosi Giovanni Fabro, Emilio Vezzosi, Andrea Bacci, Michele Mercati, Filippo Sassetti, Iacopo Fabbroni, per non dire di Galileo, suo probabile allievo tra il 1582 e il 1584.

Non gli mancarono anche in Arezzo riconoscimenti e cariche onorifiche, dalla cittadinanza aretina (1551) al priorato (1560), al gonfalonierato (1586), ma la sua personalità assai discussa porse il fianco anche a non poche critiche e leggende su di lui, come quella della condanna al bando e alla fustigazione in seguito al furto di sette sacchi di grano, o quella della rottura col granduca Cosimo I in seguito alla quale avrebbe dovuto lasciare la cattedra e tornare prima ad Arezzo e poi recarsi in viaggio in Germania.

Di questo viaggio, come del resto anche degli altri compiuti per ricerche botaniche e di fossili, dalle Marche alla Toscana, da Genova all'isola d'Elba, non è dato sapere in che periodo siano stati intrapresi. Certamente egli dovette essere ad Arezzo nel 1559, se qui fece delle vere e proprie perizie medico-legali, tra cui una nel processo intentato a Michelagnolo Albergotti per l'omicidio di una sua fantesca. Ma probabilmente non vi si trovava in modo stabile, in seguito all'abbandono della cattedra pisana, bensì solo temporaneamente, nelle vacanze estive o per brevi periodi, per curarvi le proprie faccende, relative anche a non molte proprietà nell'Aretino. Nel 1563 da Pisa inviava ad Alfonso Tornabuoni una lettera in cui esponeva nuovi principî di classificazione botanica e un erbario secco di settecentosessantotto piante con la relativa nomenclatura. Tale lavoro richiese certamente un lungo e minuzioso lavoro presso l'Orto botanico pisano, da cui non si dovette allontanare se non per poco tempo. Nel 1570, ad esempio, girava per la Toscana col suo allievo Mercati alla ricerca di semplici per ordine del papa Pio V, che intendeva costituirne un orto a Roma; lo troviamo nello stesso anno ad Arezzo come consulente medico con Pietro Caponsacchi sul ritrovamento nella pieve aretina di presunte reliquie di S. Donato.

Non molti anni dopo egli si sposò con Gherarda di Bernardino Baroncini da San Gimignano, e nel 1575 ne ebbe l'unico figlio, Giovan Battista, che poi volle fare entrare nell'Ordine di S. Stefano perché disponesse di qualche rendita.

Questi sposò poi a Roma nel 1597 Ginevra, figlia di Pier Antonio Anselmi, primo collaterale in Campidoglio, e ne ebbe quattro figli, di cui il primo, Andrea, morì a cinque anni; gli altri si chiamavano Pierantonio, Gherardo e Francesco. Da quest'ultimo nacque poi Antonio, l'ultimo discendente delle casata dei Cesalpino. È da considerarsi errata la notizia che il figlio Giovan Battista avrebbe subito una condanna in seguito ad una contesa con Gerolamo Borro di Arezzo, lettore di Pisa, accusato di eresia davanti all'Inquisizione.

Tra il 1589 e il '90 sorsero varie contese tra i docenti pisani, particolarmente tra il C. e Francesco de Vieri detto Verino, lettore di filosofia e di fede platonica. Questi iniziò (anche presso il granduca Ferdinando I) l'opera di diffamazione del C. con l'accusa di eresia e di diffusione di idee telesiane. Cosicché, quando il granduca invitò Gerolamo Mercuriali alla cattedra pisana, il C. si trasferì a Roma, raccomandandosi per lettera presso il suo antico allievo Mercati perché gli trovasse un impiego in quella città. Nel 1592 infatti fu chiamato dal papa Clemente VIII come archiatra pontificio, con un incarico di lettore di medicina alla Sapienza. Rimase a Roma per undici anni; fu amico del vescovo Tornabuoni e di Filippo Neri, che visitò e curò a lungo. Dopo la morte del santo assistette all'esumazione del corpo, di cui attestò la conservazione miracolosa. Non è provato che abbia conosciuto e curato anche il Tasso, cui Clemente VIII aveva dato una pensione. Lo stesso papa fece bruciare Giordano Bruno; si capisce quindi la prudenza del vecchio professore, considerato un audace del pensiero e accusato di eresia da parte di teologi e filosofi come Niccolò Torelli e Samuele Packer, cui però non seguirono persecuzioni, e il suo ossequio verso il terribile papa (proprio così, "terribilis", lo definisce nella dedica del De metallicis).

In quest'ultimo periodo della sua vita più che di filosofia il C. volle occuparsi di medicina, tanto che si può sostenere che il periodo romano non apporta sostanzialmente nulla di nuovo alla personalità scientifica e filosofica del Cesalpino. In effetti aveva pubblicato nel periodo pisano tutte le sue opere più importanti, tra cui i fondamentali Quaestionum peripateticarum libri quinque, Florentiae 1569, poi Venetiis 1571 e 1593.

Dedicata a Francesco I prima, e successivamente a Ferdinando I, l'opera muove dal proposito di commentare Aristotele ma senza tener conto di precedenti commenti. Appare singolare in lui l'innesto dell'attitudine alla speculazione filosofica e dell'osservazione scientifica, pur nell'osservanza peripatetica. Egli accetta innanzitutto la metafisica di Aristotele; sottolinea inoltre l'importanza delle facoltà psicologiche dell'uomo e le limitazioni conoscitive poste alla natura umana. Riguardo la fisica, il C. fa osservazioni sull'unità della forza e sulla sua conservazione. Sostiene pure - suscitando un vero scandalo teologico - la generazione spontanea degli organismi, ma, di là dalle erronee illazioni, in primo luogo esclude l'anima da tale generazione, e in secondo luogo distingue la creazione o prima produzione degli esseri dalla loro successione, e afferma che solo in tali generazioni successive si può dare il caso della formazione "ex putredine" oltreché "ex semine". Come per Aristotele, le specie a suo avviso sono eterne; la materia di tutti gli esseri sublunari non è che una potenza passiva, che si attua attraverso l'influsso dei cieli, per mezzo delle intelligenze motrici, ridotte, a suo dire, ad una sola sostanza. Altre intuizioni notevoli si trovano a proposito dell'ereditarietà, delle molecole, delle maree (cui attinse anche Galileo), ma non mancano ingenuità e contraddizioni; la forma espositiva è quanto mai oscura, tesa com'è alla massima concisione sillogistica. Il C. si serviva di Aristotele per arrivare al naturalismo, ma sapeva allontanarsene alla luce della ragione, distinta dalla rivelazione, considerata campo esclusivo dei teologi. Gli studi anatomici, a cui diede un contributo così decisivo, furono per lui anche un modo per uscire dalle strettoie aristoteliche. Contrariamente alle affermazioni di Galeno, il C. sostenne che non il fegato o il cervello, ma il cuore è il centro propulsore del sangue, attraverso le valvole relative, la cui disposizione indica il movimento circolare e non di flusso e riflusso. La descrizione della circolazione del sangue è minuta e precisa, e conviene dedurne che gli fossero note la funzione e le differenze tra le vene e le arterie, l'importanza delle valvole cardiache e dei vasi capillari, le anastomosi artero-venose, la necessità del contatto dell'aria con il sangue per diminuirne il calore ecc. Il C. non si limitò a formulare ipotesi generali, ma vi giunse per osservazioni sperimentali su incisioni e legature.

L'argomento sarà ripreso in opere successive come De plantis, Florentiae 1583, dove è sinteticamente descritta la doppia circolazione, o nel secondo libro delle Quaestiones medicae, Venetiis 1571, 1593 e 1604, in due libri dedicati a Ferdinando I di Toscana, cui nell'edizione del 1593 sono aggiunti due libri De medicamentorum facultatibus.

Vi si trattano trentatré questioni sull'ufficio del medico, sulle affezioni cerebrali, sulle convulsioni, sui rimedi naturali ecc. Non è il caso di entrare qui nell'intricata e annosa polemica tra Italiani e Inglesi su chi sia il vero scopritore della circolazione del sangue. Fu probabilmente il Colombo a indicare al C. la strada per questa scoperta. R. Colombo, indipendentemente dal Serveto (generalmente ricordato come il primo descrittore della piccola circolazione), nel suo De re anatomica (1559) aveva descritto minuziosamente la struttura del cuore, la sua funzione e i suoi vasi, anche se riteneva che al sangue della vena polmonare fosse mescolata l'aria, mentre per il C. è sufficiente il loro contatto. W. Harvey, che fu a Padova dal 1598 al 1602, ebbe maestri G. Fabrizi d'Acquapendente, il Casserio e il Rudio, allievo del C.; rimase influenzato decisamente dagli studi italiani e poté così completare e diffondere tra i medici quelle conoscenze, tracciando, un quadro complessivo della circolazione (l'espressione fu però usata per la prima volta dal C.) e portando un contributo decisivo, attraverso il suo studio del cuore e del suo movimento muscolare, della sua fisiologia e delle leggi meccaniche della circolazione.

Le concezioni del C. si inseriscono in un sistema che, distaccandosi da Galeno e da Aristotele, fa risalire tutte le funzioni vitali ad un unico principio; questo si attua nel corpo umano concepito come un microcosmo, la cui anima risiede nel cuore. L'anima agisce attraverso il calore, principio di vita divino, anche se nasce e muore con gli esseri. Questi differiscono gli uni dagli altri appunto per il grado maggiore o minore di calore che li anima. Il C. ristabilisce così il vero uso della circolazione come nutrizione del corpo e diffusione del calore, e nello stesso tempo riafferma l'unità della materia, da cui il calore trae, come dalla potenza all'atto, la vita continuamente rigenerantesi.

In quest'ottica si situano gli interessi botanici e mineralogici del Cesalpino. Milletrecento piante, molte di recente conoscenza, sono descritte nel De plantis, di cui il primo libro è dedicato all'esposizione generale dei principî di tassonomia fitologica, basati sulla struttura degli organi di fruttificazione, mentre altri quindici libri sono dedicati alla metodica descrizione delle piante e dei loro usi, attraverso precisi raffronti biologici con gli organi animali.

Anche se animata da un vasto spirito di osservazione naturale - supplito però a volte dall'immaginazione -, quest'opera ebbe scarso seguito sia per il linguaggio scolastico (vi difetta infatti un'idonea nomenclatura scientifica) sia per la mancanza di illustrazioni esplicative.

Ricchi di intuizioni sono anche i tre libri De metallicis, Romae 1596, poi Norimbergae 1602, continuazione della Metallotheca Vaticana del Mercati per la parte relativa alle gemme e ai marmi. A parte i molti riferimenti alle arti e alla medicina, vi si trovano fertili accenni all'origine dei fossili, al calore e all'ossigeno in certe combinazioni chimiche, alle leggi della cristallizzazione. Resta da citare infine l'ultima opera pubblicata prima della morte, un manuale di medicina clinica assai diffuso, Praxis universae artis medicae, Romae 1602-03, poi Francofurti 1605, Tarvisii 1606, Venetiis 1680 (anche col titolo Katoptron sive Speculum artis medicae)dove, oltre ad un accenno mirabilmente sintetico alla circolazione, colpisce soprattutto una sensata sintesi di pensiero antico e scienza moderna nel considerare vero medico solo colui che unisce esperienza e ragione.

Il C. morì a Roma il 15 marzo 1603 in seguito ad una pleurisia acuta.

In tutte le sue opere il C. usa la sua audacia intellettuale per elevarsi dalla scienza sperimentale ad una filosofia neoaristotelica a metà strada tra immanenza e trascendenza, tra Alessandro e Averroé. Aristotele è per lui una guida verso la chiarezza "in sinceram veritatem", anche se a volte lo piega a giustificare razionalmente certi pregiudizi del suo tempo (ad es. la credenza nei demoni in Daemonum investigatio peripatetica, Florentiae 1580). Dell'uomo è da lui privilegiato il momento della conoscenza, anzi la scienza si identifica con la felicità umana. Da questa convinzione profonda il C. trae l'entusiasmo intellettuale che caratterizza la sua versatile indagine e la sua curiosità rivolta in molte direzioni, ciò che fa di lui un caratteristico uomo del Rinascimento, anche se minore e con forti limiti.

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