ANDREA D'ISERNIA

Federiciana (2005)

Andrea d'Isernia

Daniela Novarese

I dati biografici di quello che, comunemente, è indicato come monarcha feudistarum risultano piuttosto scarni. Già prima della distruzione dell'Archivio di Stato napoletano, avvenuta durante la seconda guerra mondiale, l'accurato studio di Luigi Palumbo, del 1886, corredato da una ricca appendice documentaria costruita sui registri della cancelleria angioina, non riusciva a risolvere definitivamente taluni problemi relativi alla data di nascita e al casato del giurista. È certo però che l'attestazione dell'incarico conferito, nel settembre del 1289, ad A. e a Landolfo Aiossa, quali giudici della Magna Curia, di liberare "homines de Neapoli […] de crimine lese Majestatis suspectos" (Palumbo, 1886, p. 275), ha definitivamente reso inaccettabili le indicazioni suggerite dagli scrittori più antichi, come Lorenzo Giustiniani, che collocavano la nascita del giurista intorno al 1220, opinione seguita anche da Friedrich Karl von Savigny, o da Pietro Giannone e Camillo Minieri-Riccio, che invece indicavano quale probabile anno di nascita il 1280.

Le medesime considerazioni si possono fare con riferimento al casato del giurista. Considerato da taluni appartenente alla famiglia de Rampinis, sulla scorta delle affermazioni di Camillo Salerno che nel proemio delle Consuetudines Neapolitanae (Consuetudines Neapolitanae, Venetiis 1588, Praefatio), ricordava come "Andreas e nobili familia de Rampinis originem duxit", in realtà il nome di A. è sempre accompagnato, nella documentazione pervenutaci, dall'indicazione della città del Sannio, Isernia appunto, che gli diede i natali.

Le tappe più significative del suo percorso professionale e umano lo vedono, a partire dal 1288, indicato nelle fonti quale iuris civilis professor, oltre che iudex Magnae Regiae Curiae e magister rationalis. Nel 1294 veniva nominato, insieme ad Andrea Acconzaioco, luogotenente del protonotaro del Regno, Bartolomeo di Capua.

Sappiamo che sposò tale Berlesca che, a giudicare dalla lite mossale dal figlio Landolfo nel 1317, relativa ad alcuni beni dotali "sive sint feudalia, sive burgensatica […] nec non et aliquibus vasis argenteis" (Palumbo, 1886, p. 345), dovette portargli una ricca dote. Dalla stessa, divenuta alla morte di A. signora di Cittanova, il giurista ebbe numerosi figli, fra i quali ricordiamo Letizia, andata in sposa al miles Francesco di Montagano, Giovanna, moglie di Roberto de Cornay jr, figlio omonimo del viceammiraglio del Regno, Roberto miles e iuris civilis professor, padre di Andrea d'Isernia jr, Landolfo miles, Tommaso e Nicola.

La vicenda professionale di A., che si snoda fra il regno di Carlo I e quello di Roberto d'Angiò, lo vede ricoprire incarichi assai delicati che gli fruttarono numerosi e tangibili segni della benevolenza regia. Così, nell'ottobre del 1290, in considerazione dei "grandia, grata et accepta servicia" (ibid., p. 277) resi a Carlo I e a Carlo II, A. riceveva trenta onze d'oro dalla Curia regia. Qualche anno più tardi, nel 1296, riceveva in dono da Carlo II, per sé e i suoi eredi, i castelli di Croce e Cunicolo, siti in Terra di Lavoro e nel contado di Molise. Nel 1305 otteneva dal medesimo sovrano la licenza di acquistare "certas quotas partes seu bona feudalia in castro montis Aquili" (ibid., p. 318). Peraltro, in quello stesso anno, Carlo II confermava la donazione, disposta dalla regina Maria a favore del giurista, di alcuni beni siti nel territorio di Somma. Nel giugno del 1309 re Roberto gli concedeva la facoltà di poter dividere, tra i figli, i suoi "nonnulla bona feudalia", e ciò "non obstantibus constitucione ac consuetudine Regni" che facevano preferire il primogenito. E pure "non obstante constitutione Regni id prohibente" (ibid., p. 334) Roberto gli prometteva inoltre che, in caso di morte senza figli dell'unico maschio di Oderisio di Sangro, i feudi sarebbero andati alle figlie di Oderisio, nuore di Andrea. Peraltro, l'evidente stima che Roberto nutriva nei confronti del 'suo' alto funzionario risulta confermata anche dalla circostanza che qualche mese più tardi, nel luglio del 1309, A. avrebbe fatto parte della "comitiva" che accompagnava il sovrano "versus Romanam Curiam" ad Avignone, per una delicata missione diplomatica presso il pontefice Clemente V (ibid., p. 338).

Il percorso professionale di A. risulta strettamente connesso al funzionamento dello Studium napoletano, fondato o rifondato da Federico II nel 1224 e caratterizzato, sullo scorcio del sec. XIII, dalla presenza di insigni maestri. Nello Studio partenopeo, infatti, che "era già riuscito a consolidare una tradizione scientifica con caratteri propri e con propri problemi, legati alla particolare situazione politico-giuridica del Regno" (Calasso, 1961, p. 101), A. fu iuris civilis professor a partire dal 1289. Tuttavia le opere di A. avevano natura extrascolastica, probabilmente composte, ha osservato Ennio Cortese, quando il giurista aveva interrotto l'insegnamento per assumere altri incarichi. Proprio la specificità dell'ordinamento del Regnum doveva inevitabilmente segnare, come ha sottolineato Francesco Calasso, l'opera di A., concretizzatasi in una Lectura al Liber Constitutionum del re-imperatore svevo, in un vasto commentario Super usibus feudorum e nella compilazione dei Ritus della Curia dei maestri razionali. Un'attività scientifico-esegetica fortemente legata alla concreta realtà istituzionale dell'ordinamento meridionale e agli innumerevoli e delicati problemi di natura giuridica (e politica) posti dall'analisi e dall'osservazione di quella.

Composta, probabilmente poco dopo l'incoronazione di Roberto (1309), come sembra potersi ricavare da alcuni loci, la Lectura di A. alle Costituzioni di Melfi offre un significativo esempio di come le tematiche affrontate dal giurista risultassero strettamente connesse all'interpretazione della realtà che lo circondava. Si pensi al problema, affrontato da A. nel prooemium, della potestas condendi statuta delle universitates meridionali, incardinate all'interno di un ordinamento nel quale la iurisdictio spettava al sovrano. Se tale facoltà era pacificamente riconosciuta alle città titolari di iurisdictio ("et quae universitates jurisdictionem habent, ut hoc possint") con riferimento specifico alla situazione del Regno il giurista riteneva che "in regno Siciliae universitates non habent jurisdictionem". Tuttavia, nel chiedersi se i signori feudali potevano "facere statuta sicut universitas quaelibet, quae legem facit municipalem. Item jurisdictionem ex consuetudine possunt habere" (Andrea d'Isernia, 1773, Prooemium, XVII b), A. anticipava una soluzione favorevole al riconoscimento di una, seppure limitata, sfera di potestà normativa alle universitates meridionali. Infatti, "nell'indicare la fonte della potestas statuendi dei feudatari nella concessione del sovrano" il giurista aggiungeva "sed si consuetudo est illa, cuius non extat memoria, habetur perinde ac si Princeps concessisset"; pertanto la consuetudo della quale "non extat memoria" si configurava per il giurista quale "fonte di potestà al pari del privilegio regio: e se ciò era valido per i nobili, tanto più lo doveva essere per le città"(Caravale, 1998, p. 192).

Altrettanto significativo appare lo sforzo di A. di conciliare la tradizione normanno-sveva della potestas regia, potestas originaria e senza mediazioni, mirabilmente espressa nel ben noto mosaico della chiesa della Martorana di Palermo, con l''autorappresentazione' che i sovrani della casa d'Angiò ebbero del proprio potere, considerandosi vassalli del pontefice, come mostra l'iconografia coeva (cf. l'affresco che rappresenta Clemente IV nell'atto di investire Carlo d'Angiò del Regno di Sicilia, Pernes-les-Fontaines, Tour Ferrande). Per questo motivo, pur essendo "il più perfetto e intransigente teorico della soggezione feudale del Regno di Sicilia alla Santa Sede", A., a parere di Calasso, "non ebbe la minima difficoltà ad accoglier pari pari da Marino da Caramanico ‒ che codesta soggezione aveva cercato di attenuare teoricamente ‒ il principio che il re di Sicilia […] aveva gli stessi poteri nel regno quanto l'imperatore su tutto l'impero" (Calasso, 19573, p. 135).

A. individuava, nel prooemium, "liberi Reges et exempti ab Imperio […] Monarchae in regnis suis" e fra questi poneva il Rex Siciliae, del quale però si affrettava a riconoscere che lo "habet a Romana ecclesia" (Andrea d'Isernia, 1773, Prooemium, XVIII b). Una posizione che risultava più vicina a quella del coevo protonotaro del Regno Bartolomeo di Capua ("Rex Siciliae in regno sui est monarcha […] quia est exemptus ab Imperio […] Sed est ligius Romanae ecclesiae, cum habet Regnum in feudum ab ecclesia" (ibid. p. 6, gl. Ad prooem. Post mundi machinam) piuttosto che a quella espressa qualche decennio prima da Marino da Caramanico nel suo prooemium laddove, pur non negando la signoria feudale del papa sul Regnum ("Sed qua fronte diximus Regem Siciliae liberum, cum ab Ecclesia Romana regnum in feudum teneat? Nonne igitur subest Papae, qui videtur superior dominus, utpote, dominus feudi […]?") si affermava che la plenitudo potestatis del suo monarca ("sedes Apostolica cum regali fastigio honoraverit dominum nostrum […] imponendo etiam sibi regalia insigna supradicta contulit ei plenitudinem Regiae potestatis") era pari a quella dell'Imperatore ("Rex Siciliae […] superiorem non habet": ibid., Marino da Caramanico, Prooemium, XXXVI a). Fondamentale, nell'itinerario che la formula "rex superiorem non recognoscens in regno suo est imperator" conosceva fra Marino e A., inevitabilmente influenzata dalla realtà dei rapporti fra il rex Siciliae e il Papato, era proprio la posizione espressa da Bartolomeo di Capua, che passava attraverso una più articolata formulazione della teoria dell'exemptio, che A. si trovava a condividere pienamente (Const. I, Inconsutilem tunicam), sebbene talvolta non mancasse di affermare di ritenere verum, rimettendosi all'autorità di Marino, ciò che quel giurista aveva affermato a proposito dell'equiparazione dei poteri del rex con quelli dell'imperator ("illud quod ista dicit hic glossa [sc. di Marino da Caramanico] ut scilicet aequiparetur rex, in regno suo Imperatori in Imperio suo putamus verum esse": Andrea d'Isernia, 1773, Prooemium, XXVI a). Non a caso, a questo proposito, Cortese ha sottolineato come le possibili implicazioni contenute nel pensiero di Marino da Caramanico fossero più tardi sottoposte da A. a una "critica il cui significato storico più intimo si coglie nella premessa ispiratrice che sta in quel processo di ridimensionamento dell'autorità regia e di accentuazione dei diritti della Santa Sede, che sono espressioni tipiche del nuovo clima politico instaurato con l'avvento angioino" (Cortese, 1966, p. 42). In altre occasioni invece, il giurista non mancava di rilevare come la glossa di Marino aderisse ancora, sostanzialmente, allo spirito dell'età federiciana. Ad esempio, commentando la Const. Honorem (III, 23) che proibiva ai titolari di feudi in capite di contrarre nozze o di far sposare figlie, sorelle o nipoti o figli senza il permesso della Curia Regia, il giurista sottolineava come "stricte servabantur istae constitutiones ante rebellionem Siciliae. Et ideo sic exposita est, ut patet in glossa. Post fuit constitutio Regis Caroli II. in planitie sancti Martini" (Andrea d'Isernia, 1773, 346 b).

Ciò facendo, il giurista 'registrava' il significativo cambiamento intervenuto nell'ordinamento meridionale non soltanto per le modalità dell'avvento della casa d'Angiò sul trono del Regnum, ma poneva anche l'accento sulle significative concessioni che, dopo la separazione della Sicilia dalle terre meridionali in seguito ai Vespri, Carlo I era stato indotto a elargire alla feudalità con i capitoli di S. Martino del 1283.

Continui appaiono i riferimenti a una realtà istituzionale che appariva mutata rispetto al disegno federiciano e che pertanto A. si sentiva in dovere di sottolineare. Ad esempio, a proposito della Const. Officiorum (I, 61) relativa alla "cognitio causarum" dei maestri camerari si diceva che "isti hodie sunt Secreti" (ibid., 119 b). Una circostanza che, con specifico riferimento al problema della supremazia feudale del papa, Giannone avrebbe rilevato polemicamente, sostenendo che "gli scrittori, che fiorirono a' tempi di questi Re, imbevuti di quelle massime [sc. supremazia feudale del Papa] empissero i loro Commentarj di dottrine pregiudizialissime alle regalie e preminenze del Re" (Istoria civile del regno di Napoli, III, Napoli 1770, p. 428).

In gran parte dei casi, tuttavia, il giurista sembra attenersi pedissequamente alla glossa elaborata da Marino da Caramanico. Espressioni come "hac bene glossatur", "bene glossatur et multa utilia dicit glossa", "hoc bene", "haec constitutio satis bene glossata est" ricorrono continuamente nella Lectura e Diomede Mariconda poteva sottolineare che "dominus And. de Iser. nihil innovat per suum dictum in hoc casu, et sic satis videtur approbare glossam" (Andrea d'Isernia, 1773, 218 a).

Anche i Commentaria super usibus feudorum sono opera nata fuori dalla schola. Tenendo presente che nel proemio il giurista dichiarava di aver dovuto sottrarre qualche ora alle incombenze forensi per potersi dedicare all'elaborazione dei Commentaria, essi sono probabilmente successivi al 1289, anno in cui A. era nominato maestro razionale. Anche in quest'opera risulta palese l'attenzione rivolta dal giurista alla peculiare situazione istituzionale del Regnum. Significativa, a questo proposito, com'è stato sottolineato da Rodolfo Del Gratta, la riproposizione, da parte di A., della definizione dell'homagium data da Jacques de Révigny, nonché delle tematiche sulla potestas regia, mentre anche l'eco del richiamo alla causa impositionis e in particolare agli spunti offerti in tal senso da Tommaso d'Aquino, è stato ricondotta "alle tendenze di marca guelfa che l'Isernia incarnava" (E. Conte, Servi medievali: dinamiche del diritto comune, Roma 1996, p. 164) .

Ad A. una tradizione risalente al giurista Luca da Penne ha inoltre attribuito la compilazione del De iure dohanarum o Ritus dohanarum ("compilator et author horum rituum fuit eximius iuris consultis Andreas de Isernia, prout datur intelligi infra De iure dohanae"; Messina, Biblioteca del Dip. di storia e comparazione degli ordinamenti giuridici e politici, ms. 48).

Di lui rimangono, oltre ad alcuni altri scritti attribuitigli dalla tradizione (alcuni Singularia e un commento Super titulum de statutis et consuetudinibus contra libertatem Ecclesiae), talune opere non pervenuteci (il libellus De iure protomiseos e il tractatus Super Auth. Habita, Cod., ne filius pro patre), nonché talune glosse a titoli del Digestum e del Codex pubblicate da Eduard Maurits Meijers nel secolo scorso.

La data di morte di A. è da collocarsi fra il novembre del 1315 e l'ottobre del 1316. Infatti, sulla scorta della documentazione edita da Palumbo, il giurista risultava ancora vivo il 20 novembre del 1315, quando supplicava il sovrano di sollecitare il podestà, il capitano ed il consiglio del comune di Firenze affinché i suoi nipoti, figli di Roberto morto in combattimento in Toscana, ricevessero quanto il comune fiorentino doveva al loro genitore. Il suo nome è invece preceduto da un significativo "quondam" in un documento del 24 ottobre dell'anno successivo.

fonti e bibliografia 

Messina, Biblioteca del Dip. di storia e comparazione degli ordinamenti giuridici e politici, Andrea d'Isernia, De iure dohanarum, ms. 48. Id., Commentaria super usibus feudorum, Lugduni 1564. Id., Peregrina lectura super constitutionibus et glossis Regni Siciliae, in Constitutionum Regni Siciliarum libri III, I, sumptibus Antonii Cervonii, Neapoli 1773.

Per una ricostruzione delle vicende biografiche del giurista, a parte i repertori di B. Chioccarelli, De illustribus scriptoribus qui in civitate et regno Neapolis ab orbe condito ad annum usque MDCXXXXVI florentur, Neapoli 1780, pp. 33-37; L. Giustiniani, Memorie istoriche degli scrittori legali del Regno di Napoli, II, ivi 1787, pp. 161-168; C. Minieri Riccio, Memorie istoriche degli scrittori nati nel Regno di Napoli, ivi 1844, p. 20; v. L. Palumbo, Andrea d'Isernia. Studio storico-giuridico, ivi 1886; A. Prologo, Due grandi giureconsulti del sec. XIII: Andrea de Barulo e Andrea d'Isernia, Trani 1914; F. Calasso, Andrea d'Isernia, in Dizionario Biografico degli Italiani, III, Roma 1961, pp. 100-102.

Su A. doctor legens presso lo Studio napoletano, G. Origlia, Istoria dello Studio di Napoli, I, Napoli 1753, p. 170; G.M. Monti, L'età angioina, in Storia dell'Università di Napoli, ivi 1924, pp. 80, 91; E.M. Meijers, Iuris interpretes saec. XIII, ivi 1925, s.v.; E. Cortese, Legisti, canonisti e feudisti: la formazione di un ceto medievale, in Università e società nei secoli XII-XVI, Pistoia 1982, pp. 274-275 n. 280.

Sull'attività scientifico-esegetica di A., cf. B. Capasso, Sulla storia esterna delle Costituzioni del Regno di Sicilia promulgate da Federico II, "Atti dell'Accademia Pontaniana", 9, 1869, pp. 79 ss. (estr.); R. Trifone, La legislazione angioina, Napoli 1921; G.M. Monti, Andrea d'Isernia e la successione feudale, "Samnium", 1/1, 1928, pp. 1 ss. (estr.); Id., Le origini della Gran Corte della Vicaria e le codificazioni dei suoi riti, "Annali del Seminario Giuridico Economico della R. Università di Bari", 2/2, 1929, pp. 3-134 (estr.); Id., Sul testo dei Riti della Magna Curia dei Maestri razionali e su Andrea d'Isernia, ibid., 3/1, 1929, pp. 65-101; F. Calasso, Origine italiana della formula 'rex in regno suo est imperator', "Rivista di Storia del Diritto Italiano", 3, 1930, pp. 213-259; G.M. Monti, Nuovi studi angioini, Trani 1937; F. Calasso, I glossatori e la teoria della sovranità, Milano 19573, s.v.; E. Cortese, La norma giuridica. Spunti teorici nel diritto comune classico, I, ivi 1962, pp. 94 n., 130 n., 151, 151 n., 164, 164-165 n., 176 e n., 190, 270 ss., 271 n., 295 e n., 296, 299 ss., 300 n.; II, ivi 1964, p. 231 n.; P. Colliva, Ricerche sul principio di legalità nell'amministrazione del Regno di Sicilia al tempo di Federico II, I, Gli organi centrali e regionali, ivi 1964, pp. 75-85; E. Cortese, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medievale, Roma 1966, pp. 35-67; F. Martino, Federico II: il legislatore e gli interpreti, Milano 1988, pp. 138, 143; G. De Vergottini, Il diritto pubblico italiano nei secoli XII-XV, ivi 19933, in partic. pp. 351-374; R. Del Gratta, Feudum a fidelitate. Esperienze feudali e scienza giuridica dal Medioevo all'età moderna, Pisa 1994; M. Caravale, La monarchia meridionale. Istituzioni e dottrina giuridica dai normanni ai borboni, Roma 1998.

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