DE MONTE, Andrea

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 38 (1990)

DE MONTE, Andrea

Fausto Parente

Nome cristiano di Josef Zarfati; altre grafie con cui il nome viene indicato (Del Monte; Dei Monti; Di Monte; Di Monti). anche in documenti contemporanei (ad esempio Di Monte in Vat. lat. 6792, I, f. 86v) sono inesatte: i documenti autografi ed ufficiali hanno sempre "De Monte".

Il cognome De Monte era stato assunto in onore di Giulio III, cui il D. indirizzò un'epistola latino-ebraica (Vat. lat. 3561) sul senso profetico del nome "Monte" (qui, in ebraico, il nome è min har ="aMonte" in latino). Il cognome ebraico (Ṣarfātī = Francese) è considerato dal Berliner (Geschichte, II, 2, p. 9) come un appellativo dovuto alla sua appartenenza alla sinagoga- francese di Roma. In realtà, il D. era originario di Fez: il Bartolocci (Biblioth., III, p. 818a) lo registra anche col nome di Alfasì ("il Fezzino"); nell'intestazione del testamento è detto "de Fessas"; nella lettera non firmata e non datata (Vat. lat. 6792, I, f. 85rv, pubblicata in Parente, Confronto, pp. 378 s.; cfr. p. 374) è detto "Moro da Fessa" e a Fez, intorno alla metà del sec. XVI, è documentata l'esistenza di una famiglia ebraica Ṣarfātī.

Non si conosce né la data di nascita, né quella della sua venuta a Roma. Il Bartolocci (Biblioth., III, p. 818a) data la sua conversione intorno al 1552, ma il battesimo del D. non è registrato nel primo registro di battesimo dei catecumeni che copre gli anni dal 1545 al 1563 (Roma, Arch. generale del Vicariato) ed i registri dei battezzati in S.Pietro non risultano tenuti (o conservati) per quegli anni.

In via congetturale, la sua nascita può essere posta intorno al 1510 ed egli potrebbe effettivamente aver lasciato il Marocco nel 1512 come riteneva il Berliner (Geschichte, II, 2, p. 9). La data della sua morte è stata determinata di recente da R. Le Déaut. Questi Jalons, pp. 518-521) ha rinvenuto nell'Archivio generale del Vicariato di Roma (Atti notarili 1586-1587 "rogati per notar Francesco Silli") il testamento del D. datato 19 sett. 1587 (ff.314r-316v) e l'inventario della biblioteca e degli oggetti di casa (ff. 413r-416v e 417r-419v). L'inventario ha permesso di determinare la data esatta della morte: "Die Martis 22 septembris 1587. Invent(ariu)m librorum M(agistri) D(omini) Andreae de Monte heri defuncti, in domo solitae habitationis ..." (f. 413r): la data della morte è, quindi, il 21 sett. 1587.

Dopo la conversione, il D. esercitò essenzialmente le funzioni di predicatore e di censore dei libri ebraici, ma le notizie sulla sua vita sono scarse e frammentarie.

Da un breve di Gregorio XIII datato 1º nov. 1578 (Arch. segr. Vaticano, A. A., Arm. 42, t- 36, ff. 135-137 [olim 130-132]) sappiamo che, in quell'anno, la Confraternita dell'Annunziata venne autorizzata a cedere in affitto vitalizio al D. ed alla moglie una casa situata presso il Collegio dei neofiti a condizione che egli si impegnasse ad impartire al neoconvertiti i primi rudimenti della fede cristiana. Da una lettera (non datata) indirizzata al cardinale G. Sirleto (Bibl. apost. Vaticana, Reg. lat. 2020, II, f.336r) risulta che il D. ricoprì la carica di "sotto maestro" della Casa dei catecumeni. Oltre che col Sirleto, il D. ebbe stretti rapporti anche con Filippo Neri. Il Ponnelle e il Bourdet (Saint Philippe, p. 232 e nota 5) citano due lettere di Carlo Borromeo a Filippo Neri di risposta (negativa) a sollecitazioni di quest'ultimo per una sovvenzione al De Monte. Da una (anonima) Raccolta di vari detti, e massime sprirituali di s. Filippo Neri, de suoi compagni e d'altri (Roma, Bibl. Vallicelliana, cod. O. 18) risulta la sua frequentazione della comunità di ecclesiastici riuniti intorno a Filippo Neri, dalla quale (nel 1575) nascera l'oratorio. Ibid., ff. 55v-57v si parla diffusamente di una sua predica sul salmo 144 tenuta nel 1572 alla presenza di Marc'Antonio Colonna desideroso di ascoltarlo "per la fama ch(e) hà di essere gran letterato nell'esporre' la sacra scrittura" (f. 55v).

Forse anche per tale notorietà, nel 1576, Gregorio XIII lo nomino predicatore degli ebrei ed egli svolse tale attività nell'oratorio della Confraternita della Trinità presso ponte Sisto (Bartolocci, Biblioth., III, p. 819a). Verosimilmente si dovette alla sua iniziativa se la pratica venne istituzionalizzata e disciplinata da Gregorio XIII. Nell'esercizio di tale funzione incontrò l'ostilità aperta e dichiarata della comunità ebraica. Di ciò è testimonianza la lettera anonima e non datata (resa nota in traduzione francese dal Dejob, Documents, pp. 87 s. e pubblicata in Parente, Confronto, pp. 378 s.) con la quale si avvertiva il D. dell'atteggiamento degli ebrei nei suoi confronti. Il D. cessò spontaneamente l'attività di predicatore, stante l'estrema ostilità degli ebrei, nel 1582. Fu, quindi, predicatore degli ebrei soltanto per sei anni.

Per quanto riguarda l'altra sua attività, quella di censore di libri ebraici, il D. la esercitò a Roma e a Spoleto. La circostanza che egli abbia trascorso alcuni anni a Spoleto ci è nota da una lettera in ebraico (pubblicata da S.M. Margulies nel 1903) indirizzatagli da Ferrara da Mosè Alatino nel 1580. Gregorio XIII preparava una nuova proibizione dei libri ebraici (bolla Antiqua Judaeorum improbitas del 1º giugno 1581) e Alatino si rivolge al D. ricordandogli la loro amicizia durante gli anni trascorsi insieme a Spoleto e chiedendogli di intercedere presso il papa. Poiché, verosimilmente, l'Alatino deve aver lasciato Spoleto nel 1569 a seguito della cacciata degli ebrei dallo Stato della Chiesa ordinato da Pio V (bolla Hebraeorum gens del 26 febbr. 1569), il soggiorno spoletino del D. va posto nel corso degli anni Sessanta, ma non è possibile precisare ulteriormente.

Come censore, il D. fu soprattutto in rapporto col cardinale Guglielmo Sirleto, protettore del Collegio dei neofiti dal 1577 al 1585 ed uomo di larga cultura interessato alle cose ebraiche. Per il Sirleto, il D. redasse, in italiano, una lista di libri ebraici classificati per genere letterario (Vat. lat. 6207, ff. 186r-187v) che si ritrova nel Vat. lat. 6236, ff. 47r-50v (in realtà, 50v-47r perché rilegata a rovescio) in ebraico quasi certamente autográfa. Nel Vat. lat. 6207, ff. 188r-189v vi è poi un elenco di censure relative a questi libri.

È probabile che il D. non sia stato estraneo al rogo di libri ebraici avvenuto a campo de' Fiori il 9 sett. 1553 per iniziativa di Giulio III e, insieme con Marco Marino da Brescia e a Giovanni Paolo Eustachio, fu uno dei principali consiglieri e collaboratori del Sirleto nella istituzione di una sistematica censura dei libri ebraici. In quest'ufficio, per il quale riceveva un compenso dalla comunità ebraica obbligata a provvedere all'autocensura, si mostrò zelantissimo e, nel 1557, nonostante che l'ordine di confisca escludesse i libri diversi dal Talmud, denunciò la presenza nella sinagoga tedesca di Roma di una copia del commento di Abrāhām Ibn ‛Ezrā al Pentateuco facendo imprigionare diversi ebrei e facendo comminare a quella comunità una multa di 1.000 scudi.

Oltre che di vere e proprie revisioni di libri ebraici, il D. veniva incaricato dal Sirleto di consulenze che richiedessero conoscenze specifiche nel campo della letteratura rabbinica. Così, nel Vat. lat. 6792 I, f. 75rv, si trova una nota autografa del D. a proposito del termine ebraico korban (offerta, oblazione) richiestagli dal Sirleto per illustrare un passo del NuovoTestamento. Dello stesso tipo è un commento al cap. 53 di Isaia (Vat. lat. 6236, ff. 1r-13v) pubblicato da R. Le Déaut nel 1967. Anch'esso è stato "comandato" al D. dal suo protettore; deliberatamente egli si limita, nel suo commento, alla Bibbia ebraica ed agli autori rabbinici: "Humilmente dico secondo la verità ebraica. Rimettomi in tutto per tutto à quel che li sagri Dottori della Santa Madre Chiesia Catholicá et Romana dicono" (f. 1r = ediz. Le Déaut, p. 196). Questa espressione e le numerose correzioni di carattere dogmatico nei manoscritti delle opere principali fanno pensare che egli abbia incontrato qualche difficoltà in questo senso.

Le opere del D. che si sono conservate sono tre: Libro chiamato confusione de' Giudei, e delle lor false opinioni;una epistola o orazione a Giulio III e Della uerità della uenuta del Messia alli Ebrei. Trattato intitolato Lettera di pace.

Il Libro chiamato confusione de' Giudei, e delle lor false opinioni è contenuto nel Vat. lat. 14627, già Neofiti 38 della stessa Biblioteca. In f. Iv vi è la dedica "al S(antissi)mo e B(eatissi)mo Padre Pio Quinto [1566-1572]" con la sottoscrizione (non autografa) "Andrea de Mo(n)te già Rabbino Hebreo"; in IIr vi è un sonetto ai lettori e, più in basso, si legge: "La sottoscritione del presente libro, fatta al tempo di Paolo Papa 4. sta nell'originale donde si è copiato il presente volume ...". L'opera risulta, quindi, composta tra il 1552 (anno della conversione del D.) e il 1559 (anno della morte di Paolo IV), ma la data può essere ulteriormente precisata. Nell'epistola a Giulio III (Vat. lat. 3161, f. 5 rv) il D. scrive: "sed ut latius contra eos scripsi in libro qui dicitur Victoria contra Judaeos ..."; il titolo è diverso, ma l'opera cui qui si allude sembrerebbe doversi identificare con la Confusione o, almeno, con una prima stesura di essa. In effetti, "victoria" traduce niṣaḥon in titoli di scritti polemici ebraici e la prima stesura dell'opera potrebbe anche esser stata redatta in ebraico: nell'inventario delta biblioteca compare "Un libro di annotationi contra Hebrei, scritto di mano di m(esser) Andrea in hebraico" (f. 41 5v). Di conseguenza, lo scritto doveva essere gia redatto prima dell'inizio del 1555, data cui l'epistola a Giulio III è sicuramente assegnabile. La Confusione (o una sua prima redazione) è, quindi, databile agli anni 1552-1554 e la redazione che si legge in Vat. lat. 14627 non è, in ogni caso, posteriore al 1559.

L'opera si divide in due libri di diseguale lunghezza: il primo consta di 12 capitoli e il secondo di 21, ma il cap. XXI (Come nel Talmud si contiene o co(n)teneua Dottrina fauolosa, uana, inutile, scelerata, stolta, bestiale e Diabolica) è una sorta di appendice ove sono riunite un gran numero di haggadot tradizionali presentate come empie e blasferne. Al cap. XXI segue un'appendice vera e propria di risposta alle obiezioni mosse dagli ebrei a concezioni cristiane. Il primo libro è dedicato specificatamente al messia; il secondo affronta i temi della Trinità e dell'incarnazione, ma non in chiave cabbalistica. Nel cap. V è citato Pietro Alfonsi e, a proposito del tetragramma, "Rabbenu haccados nel libro galerazaia" (una copia del falso di Pablo de Heredia [Roma, probabilmente 14871 si trovava nella sua biblioteca: "Un lib(r)o senza titolo latino in quarto (di) fogli 43 petitioni di Antonino pio fatte à Rabino Accadoscie", f. 414v). Le sue fonti sembrerebbero, quindi da ricercarsi nel filone spagnolo passato, forse, attraverso Pietro Galatino, ma nella prima parte (f. 33v) è citato anche il Flagellum di Fino Fini.

L'epistola latino-ebraica a Giulio III è contenuta nel Vat. lat. 3161. È calligrafato e sicuramente si tratta della copia presentata al pontefice: "Sanctissimo Patri at(que) Optimo Principi Domino n(ost)ro Domino Julio diuina prouidentia Papae Tertio. Andreas de'Monte', S(anc)titatis sue' humilis et deuotus seruus felicitatem". Secondo il Bartolocci essa sarebbe stata stampata: "Excusa est, sed loco, "anno non notato, in 4", ma di questa edizione a stampa non si trova traccia. L'inventario della biblioteca (f. 415r) registra, comunque, "Orationi di m(esser) Andrea di Monti [sic] fatte a Papa Giulio stampate e sciolte in quarto", ma questa indicazione sembrerebbe riferirsi a più di uno scritto. Nella biblioteca era conservato un esemplare manoscritto dell'opera: "Una epistola scritta a papa Giulio terzo in hebreo, e latino a mano" (f. 416v). Si tratta in realtà di una orazione, recitata dal D. a Giulio III in una qualche occasione, nella quale, con cortigianesca raffinatezza, l'interpretazione cristologica di Isaia, 2.2-3 è applicata alla persona stessa del pontefice. Lo scritto è databile con sufficiente precisione, nel f. 4v si legge: "Iam iam [sic] uerborum ho" prophetię [Isaia, 2.3] impleri incipiet in Anglia insula quae' varijs hęresum venenis per multos iam elapsos annos infecta, te' iam agnoscet verum pastorem, et adorabit ipsissimum Christi Vicarium", il che non può che riferirsi alla riconciliazione dell'Inghilterra col Papato ad opera del cardinale R. Pole nella sua veste di legato pontificio. L'obbedienza a Roma fu ristabilita con atto del Parlamento del 4 genn. 1555 e Giulio III morì il 23 marzo dello stesso anno; di conseguenza, lo scritto non può essere stato composto che tra queste due date.

La Lettera di pace è contenuto nel Neofiti 37 dalla Bibl. apost. Vaticana. Il titolo completo suona: Della uerità della uenuta del Messia alli Hebrei. Trattato di Andrea de Monte già rabbino et predicatore hebreo in Roma, intitolato Lettera di pace cui segue il titolo in ebraico. Il manoscritto è mutilo all'inizio: dopo il foglio di guardia, il f. 1 reca il titolo sul retto e la dedica e l'inizio del testo ebraico sul verso; vi e poi una lacuna di 15 fogli e il f. 17 reca, sul retto, la p. 16 italiana e, sul verso, la p. 17 ebraica. Alla fine presenta una lacuna di dimensioni non valutabili e almeno un foglio manca dopo il f. 97 e dopo il f. 113. Sia l'italiano sia l'ebraico presentano correzioni di carattere stilistico, ma anche dogmatico, di mano diversa, in particolare, il retto dei ff. 144, 145 e 146 è coperto da un foglio incollato ove una mano ancora diversa rispetto a quella che ha apportato le altre correzioni ha riscritto tutto l'italiano; l'ebraico è cancellato e riscritto da una mano diversa. Una frase ... noi Christiani che sendo già anni 1582 ... f.151r) sembrerebbe permettere una precisa datazione dello scritto, ma l'anno non può riferirsi che alla copiatura del manoscritto. Il Bartolocci (Biblioth., III, p. 819a) afferma, infatti, che quest'opera fu inviata a diverse sinagoghe, "sed praecipue ad Romanam"; di essa dovevano, di conseguenza, esistere più copie e, certamente, egli si riferisce ad un manoscritto diverso dal Vat. Neofiti 37. Il manoscritto cui il Bartolocci si riferisce era, forse ("ut puto"), l'autografo e recava la data del 21 genn. 1581, "ut in fine codicis notatur": di conseguenza, il Vat. Neofiti 37 potrebbe esserne un apografo. Quest'ultimo manca, infatti, dell'epistola dedicatoria al cardinale Giulio Antonio Santord, protettore del Collegio dei neofiti (morto nel 1602), nella quale erano contenute diverse importanti indicazioni (v. Parente, Note, pp. 124 e 132) circa l'attività di predicatore del D. e che il Bartolocci afferma esser presente nel manoscritto da lui utilizzato, mentre il Vat. Neofiti 37 reca, sul verso del primo foglio, una dedica ebraica al Sirleto che sembra, comunque, aggiunta successivamente. Il manoscritto descritto dal Bartolocci era, secondo le sue indicazioni, conservato nella biblioteca del Nuovo Collegio apostolico dei penitenzieri di S. Maria Maggiore, dei domenicani, messa insieme da Gregorio Boncompagni degli Scarinci che ne era il superiore e che era stato predicatore degli ebrei. Molto verosimilmente sia l'originale sia la copia dovevano trovarsi nella biblioteca del De Monte. Al f. 416r, dell'inventario, infatti, si legge: "Un lib(r)o à mano in hebraico et uolgare composto da m(esser) Andrea Monti [sic] indirizzato all'Ill(ustrissi)mo Car(dina)le S(an)ta Seucrina [Santoro], della uerità della uenuta del Missia" (Le Déaut, Jalons, p. 528, nota 2) e al f. 41 5r si legge: "ep(isto)la alli Hebrei composta p(er) m(esser) Andrea di Monte, in Hebreo et in uolgare, in un libro non ligato".

L'opera è divisa in tre parti. La prima ha una impostazione molto simile a quella data da Pablo Christiani alla disputa di Barcellona (1263): il messia è già venuto; le profezie veterotestamentarie relative al messia non possono che riferirsi a Gesù, il quale deve essere, di conseguenza, il vero messia. Nella seconda parte (che inizia ai ff. 118v-119r) si risponde alle obiezioni "che alcuni de uostri adducono in contrario", cioè che il messia deve ricondurre gli ebrei nella terra dei padri; deve riedificare il tempio; deve restaurare la legge e la sua osservanza (e qui, nella risposta alla quarta obiezione, si trovano i tre fogli riscritti interamente). La terza parte (che inizia ai ff. 178v-179r) è una esortazione alla conversione accompagnata da una enumerazione di profezie compiute con risposte ad altre obiezioni.

Dall'inventario della biblioteca può trarsi qualche indicazione su scritti dei D. non conservati. Al f. 415 v è registrato "Un libro scritto à mano in hebraico di mano di m(esser) Andrea, con molti suoi scritti di cose di sacra scrittura". Opere di carattere polemico genericamente indicate ("Un lib(r)o scritto a mano, contro hebrei in uolgare", f. 416r) non sembrano attribuibili al De Monte. "Una dottrina christiana scritta in hebreo" (f. 416r) è indicazione che documenta l'esistenza di una traduzione ebraica del catechismo precedente a quella di Giovan Battista Jona, ma non permette certo di attribuirla al De Monte.

Da tali scarse e disarticolate notizie, il D. appare, nella Roma della seconda metà del sec. XVI, una figura di secondo piano, legato al cardinal Sirleto e noto soprattutto come brillante predicatore. Purtuttavia, forse più di altri, e più noti, convertiti, egli deve aver avuto una parte di rilievo nell'organizzazione della politica ecclesiastica nei confronti degli ebrei durante il primo periodo della Controriforma. Al suo suggerimento si deve, verosimilmente, il ripristino della prassi medievale delle prediche coatte e, nella riorganizzazione della censura, egli deve aver avuto una parte maggiore di quanto non risulti dalla documentazione in nostro possesso. Benché conoscesse l'arabo (e diversi manoscritti arabi si trovano nella sua biblioteca) non sembra che abbia curato l'istruzione di convertiti dall'Islam (Levi Della Vida, Ricerche, pp.405 ss.). Le sue opere polemiche, segnatamente la Confusione, meriterebbero uno studio attento che ne individuasse le fonti al di là di quelle espressamente citate anche perché ciò permetterebbe in certa misura l'individuazione degli strumenti adoperati per l'istruzione impartita agli ebrei convertiti e, quindi, il funzionamento e la stessa rilevanza culturale del Collegio dei neofiti durante la prima fase della sua esistenza.

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