Anfiarao

Enciclopedia Dantesca (1970)

Anfiarao

Giorgio Padoan

Figlio di Oecleo e di Ipermnestra; poeta e indovino, sposò Erifile, sorella di Adrasto re d'Argo, avendone due figli, Alcmeone e Anfiloco. Fu uno degli Argonauti. Non volendo partecipare alla guerra contro Tebe (detta " dei Sette re ", di cui A. fu appunto uno) poiché per le sue virtù divinatorie sapeva che vi sarebbe morto, si nascose in luogo noto soltanto a Erifile. Ma questa lo rivelò a Polinice, corrotta dal dono della famosa collana di Armonia (apportatrice di sventure a chi la possedesse: v. ALMEONE), allora di proprietà di Argia, moglie di Polinice. A., scoperto, dovette perciò recarsi alla guerra (ricordata in If XIV 68-69). Dopo vari combattimenti, in cui ebbe modo di mostrare il proprio valore militare, finì inghiottito dalla terra, improvvisamente apertasi in una profondissima crepa, pervenendo ancor vivo e armato nelle sedi inferne. Il figlio Alcmeone poi lo vendicò macchiandosi di matricidio. Il mito di A. e di Erifile ha goduto di larga fortuna, specie tra i tragediografi greci, ed è ripetutamente ricordato dai poeti latini.

D. conosce A. soprattutto dalla Tebaide di Stazio, di cui è uno dei personaggi principali. Per la sua arte di augure (cui ripetutamente si allude nel poema staziano: cfr. IV 187-188, 216-218, e passim; e v. anche Ovid. Met. IX 406-407), è dannato tra gli indovini della quarta bolgia del cerchio ottavo (If XX 31-39). D. ne ricorda la tragica fine, seguendo da presso la narrazione staziana, come risulta evidente dall'accenno all'incontro con Minòs (cfr. Theb. VII 690-823 e vile 21-126); tuttavia rispetto alla Tebaide D. anticipa al momento in cui A. sprofonda nella voragine gli scherni che i Tebani assediati gli indirizzarono in occasione della cerimonia funebre (cfr. Theb. VIII 225-226: il rapporto con questi versi è già ravvisato da Benvenuto), mentre le espressioni ironiche ricordano piuttosto quelle indirizzate ad A. da Plutone (VIII 84-85). Alla vendetta che ne fece il figlio Alcmeone uccidendo la madre Erifile allude poi il poeta in Pg XII 50-51 e in Pd IV 103-105, dove si aggiunge che Alcmeone fu di ciò pregato / dal padre suo; evidente - ma invero non propriamente esatto - rinvio alle ultime parole di A. (Theb. VII 787-788 " tibi, Phoebe... / pulchrum nati commendo furorem ").

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