Angio

Enciclopedia Dantesca (1970)

Angiò

Enzo Petrucci

. La dinastia angioina regnò sull'Italia meridionale dal 1266 al 1435 (A.-Durazzo dal 1382), col titolo di re di Sicilia, anche se il possesso effettivo dell'isola, dopo l'insurrezione del Vespro (1282), fu sempre in mano aragonese. Al titolo di re di Sicilia gli A. aggiungevano quello di re di Gerusalemme e di conte di A.-Maine, di Provenza, di Forcalquier e di Piemonte.

Il primo rappresentante degli Angioini di Napoli, come comunemente si designa la dinastia per distinguerla dagli altri rami della famiglia, fu Carlo I d'A., secondogenito del re di Francia Luigi VIII, e dunque della stirpe dei Capetingi. Il fratello Luigi IX il Santo, in esecuzione del testamento paterno e in applicazione della politica degli appannaggi, gli assegnò le contee dell'Anjou e del Maine: di qui il nome suo e della sua dinastia.

A lui nel 1264 si rivolse la Santa Sede per contrapporlo a Manfredi; Carlo venne così in Italia e con le vittorie di Benevento (1266) e di Tagliacozzo (1268), riportate rispettivamente contro Manfredi e Corradino, conquistò il regno di Sicilia e risollevò le sorti del guelfismo battuto a Montaperti (1260). Si delineò allora il sistema guelfo basato sull'alleanza tra il papato, gli Angioini e l'alta banca fiorentina, il quale, rafforzatosi dopo il trasferimento della sede pontificia ad Avignone, durerà fino agli ultimi anni di Giovanni XXII e di Roberto d'A., quando i primi fallimenti dei banchieri fiorentini e le divergenze politiche tra gli alleati al tempo dell'avventura italiana di Giovanni di Boemia provocarono lo sfaldamento del sistema. Vedi le voci dedicate ai singoli personaggi e avvenimenti.

L'atteggiamento che D. assume nei confronti della dinastia angioina, considerata nel suo complesso e nei suoi singoli membri, è un giudizio severo di condanna. Si capisce che è un giudizio etico-politico, dettato dall'ansia di un profondo rinnovamento umano e religioso della società, che comportava, naturalmente, uno sconvolgimento della logica particolaristica delle forze in campo, guelfe e ghibelline, e che proponeva una soluzione, certo storicamente superata quanto all'organizzazione politica universalistica fondata sull'istituto imperiale, ma profondamente e largamente sentita, prima di D. e dopo, per secoli, quanto alla purezza della Chiesa e al suo distacco dal regno di questo mondo. Nel giudizio di D. non è dunque da vedere una valutazione più o meno storicamente esatta sulle capacità effettive dei singoli, o sulle possibilità reali di conseguire o meno questo o quel successo nella realtà storica concreta (come ha fatto ad es. il Caggese), dacché contestava un sistema politico e sociale che aveva la sua molla principale nella cupidigia e non nella ragione e nella fede, come egli andava ammonendo.

Non vi è alcun dubbio che per D. la stirpe dei Capetingi, nei due rami della casa di Francia e della casa angioina, che nell'invettiva di Ugo Capeto è un'unica mala pianta / che la terra cristiana tutta aduggia, / sì che buon frutto rado se ne schianta (Pg XX 43-45), era, nel suo complesso, uno dei maggiori responsabili del disordine civile e religioso del mondo, non solo per il tradizionale atteggiamento antimperiale, ma molto più, forse, perché a tale atteggiamento aveva unito la strumentalizzazione politica della Chiesa, madre comune dei cristiani. Il poeta aveva individuato nei capisaldi del sistema guelfo - papato, A., Firenze sotto l'alto patronato della casa di Francia - l'espressione più grave della cupidigia politica organizzata e, dunque, l'ostacolo maggiore che si opponeva al rinnovamento della società che egli andava proponendo. Ma proprio con l'inizio dell'ascesa di Carlo I d'A., a quanto pare (Mentre che la gran dota provenzale / al sangue mio non tolse la vergogna, / poco valea, ma pur non facea male. / Lì cominciò con forza e con menzogna / la sua rapina, Pg XX 61-65) D. fa cominciare la serie impressionante di usurpazioni e di delitti della stirpe dei Capetingi fino a giungere all'oltraggio di Anagni e a fare della Chiesa lo strumento della propria politica. Certo è che proprio con Carlo I, campione della Chiesa contro Manfredi, ebbe inizio quell'intima collaborazione della Curia con gli A., che se da un lato rafforzò la posizione politica del papato, liberandolo dall'accerchiamento svevo-ghibellino, dall'altro indusse la potenza pontificia, sempre più irretita nei negozi del mondo, a schierarsi quasi sempre a fianco dei Capetingi di Napoli e di Parigi, con tutto il peso del suo prestigio e delle sue armi spirituali. Così fu per l'eliminazione sveva, per la questione siciliana e la conseguente crociata franco-papale-angioina contro Pietro III d'Aragona (in cui però Filippo III l'Ardito morì fuggendo e disfiorando il giglio, Pg VII 105); così fu per la successione al trono d'Ungheria, per la questione imperiale, per il problema italiano. E i due papi che al predominio capetingioangioino si opposero - Niccolò III a Carlo I, Bonifacio VIII a Filippo il Bello -, lo fecero non secondo la logica evangelica, ma secondo quella della cupidigia, che in essi però, per la sacra dignità che rivestivano, si traduceva in peccato di simonia. D. formula aspri giudizi contro gli Angioini per la spedizione italiana di Carlo I, l'ingiusta condanna di Corradino, il presunto assassinio di s. Tommaso d'Aquino, il mercanteggiamento fatto da Carlo II per la dote di sua figlia Beatrice, la successione al trono di Roberto contro i diritti di Carlo Martello (Pd IX 1-3); ma in essi, per quanto severi possano apparire nella consequenzialità della concezione dantesca della società cristiana, e anzi proprio per questo, è assente qualsiasi accento di odio personale o di avversione di parte. D. infatti ha posto Carlo I in luogo di salvazione; e se l'ammirazione per lui risulta minore nel confronto col suo avversario Pietro III d'Aragona, marito della figlia di Manfredi, Costanza, non pare che, anche storicamente, sia una valutazione lontana dal vero. Come reale fu la mala segnoria di lui che provocò la rivolta palermitana del Vespro. Per altro i due nemici, affiancati nell'espiazione e nel canto della preghiera alla Vergine (Salve Regina), che sottintende la vanità della gloria di questo mondo, in cui si passa come pellegrini, lo sono anche nell'estimazione, sia pure su piani diversi, di fronte alla pochezza dei loro figli degeneri: Carlo II d'A. e Federico di Trinacria.

Già nel Convivio (IV VI 17-20), dopo aver dimostrato la somma utilità, per un buono e perfetto governo, dell'unione della filosofica autoritade con la imperiale, e osservato con accenti accorati, ritmati di citazioni bibliche, il miserrimo stato di principi e sudditi per l'assenza di quell'unione nei loro governi, D. esemplificando esclamava: Ponetevi mente, nemici di Dio, a' fianchi, voi che le verghe de' reggimenti d'Italia prese avete - e dico a voi, Carlo e Federigo regi, e a voi altri principi e tiranni -; e guardate chi a lato vi siede per consiglio, e annumerate quante volte lo die questo fine de l'umana vita [cioè la perfezione morale] per li vostri consiglieri v'è additato!

Su questa stessa linea di sviluppo del suo pensiero, D. istituisce nel De vulgari Eloquentia un rapporto di netta antitesi fra l'epoca di Federico II di Svevia e del suo bene genitus Manfredi (illustres heroes... nobilitatem ac rectitudinem suae formae pandentes... humana secuti sunt, brutalia dedignantes) e quella dei principi italiani del suo tempo, qui non heroico more, sed plebeio secuntur superbiam (I XII 4, 3). Allora, quando regnavano i due sovrani svevi, la Magna Curia di Sicilia fu il punto d'incontro e di raccolta di tutti i più nobili spiriti del tempo, al punto che tutto quanto gl'Italiani produssero in volgare fu detto siciliano. Ma poi? Racha, racha. Quid nunc personat tuba novissimi Frederici, quid tintinabulum secundi Karoli... nisi " Venite, carnifices; venite, altriplices; venite, avaritiae sectatores ? " (§ 5). La corte di Napoli, non meno di quella di Palermo e degli altri principi d'Italia, era diventata per il poeta un ricettacolo di carnefici, di ingannatori, di avari. Per quanto riguarda la corte angioina, nonostante le giustificazioni - non sempre centrate - del Caggese, e la recente difesa del Léonard, non è difficile vedere nel rigore di giudizio di D. la denuncia delle conseguenze di ambizioni, di soprusi, di compromessi che la sostituzione violenta di una dinastia e la disastrosa guerra del Vespro comportarono nell'antico regno normanno-svevo. Fenomeni come quelli che accompagnano e seguono un mutamento di regime sono di immediata e profonda incidenza nell'animo dei contemporanei, ma giungono sfumati alla ricostruzione storica, anche quando siano affidati - e non lo sono quasi mai precisamente - alla documentazione. Ma la corruzione e la debolezza della corte napoletana, scomparsa la figura di Carlo I, dové apparire, nonostante le apparenze e i programmi ambiziosi, in tutta la sua gravità a un osservatore attento e appassionato come Dante. E le torbide vicende che seguirono alla morte di Roberto dovevano confermare tragicamente il giudizio del poeta.

Carlo II d'A. e Federico di Trinacria sono infine accomunati, con rigorosa coerenza, nella condanna che per due volte pronuncia contro di loro la mistica aguglia del cielo di Giove. Innanzitutto l'Aquila, intessuta di spiriti beati, nella rassegna senza distinzione di imperiali o antimperiali, preannuncia per l'uno e per l'altro il conto pesante delle loro colpe che sarà scritto nel libro della Giustizia divina (Pd XIX 127-135); e poi quando, indicando in Guglielmo II il Buono, re di Sicilia e di Puglia, il quarto dei cinque spiriti beati che ne formano l'arco del ciglio, l'Aquila sottolinea ancora una volta per contrasto il malgoverno dell'angioino e dell'aragonese, lamentato dagli abitanti dell'Italia meridionale e della Sicilia, che rimpiangono ancora la memoria del buon re normanno (XX 61-63).

Una menzione significativa di Carlo II è fatta anche in Pd VI 106-111, dove l'angioino è rappresentato come il principale nemico dell'Impero, anzi il capo del partito antimperiale dei guelfi. Questo ricordo polemico di Carlo II - e non per esempio di Roberto - nei due canti che sono un'esaltazione in chiave teologica dell'Aquila (il pubblico, il sacrosanto segno), fa pensare che proprio nel secondo angioino D. abbia visto il campione dell'idea antimperiale rappresentata dalla dinastia. E questo potrebbe essere, forse, un argomento a sostegno della datazione della Monarchia agli anni 1307-1308, proposta dal Nardi (op cit. in bibl., pp. 34-36, 121, 133, 175, 316).

L'aspirazione profonda di D. era il superamento dei due partiti contrapposti, il guelfo e il ghibellino, entrambi colpevoli perché L'uno al pubblico segno i gigli gialli / oppone, e l'altro appropria quello a parte, / sì ch'è forte a veder chi più si falli (Pd VI 100-102). E quel superamento egli l'aveva sperato proprio da un principe della casa d'A., Carlo Martello (v.). Tra gli A. il poeta ricorda anche, sia pure senza farne il nome, il figlio di Carlo Martello, Caroberto, come defraudato della successione al trono di Napoli (IX 1-3) e nell'augurio dell'Aquila al regno d'Ungheria sotto il suo scettro (XIX 142-143).

Bibl. - Per tutti gli aspetti della storia degli A. si veda l'ampia bibliografia critica (sono enumerati 568 lavori) allegata allo studio di G.M. Monti, Gli Angioini di Napoli negli studi dell'ultimo cinquantennio, in Nuovi Studi Angioini, Trani 1937; questa bibliografia era già apparsa in francese, ma in una versione meno completa, nella " Revue des questions historiques " CXIX (1934) 419-456; inoltre si veda, del Monti, Gli studi italiani di storia medioevale e moderna nel quinquennio 1936-1940, Napoli 1942; Id., La dottrina anti-imperiale degli A. di Napoli, i loro vicariati imperiali e Bartolomeo da Capua, in Studi in onore di Arrigo Solmi, II, Milano 1940, 13-54. Un'informazione sulla storiografia fondamentale sull'argomento si può trarre dalla ricca bibliografia allegata al volume di E.G. Léonard, Les Angevins de Naples, Parigi 1954 (trad. ital. a c. di R. Liguori, Varese 1967). Per D. e gli Angioini, si veda in particolare: I. Del Lungo, La figurazione storica del Medio Evo italiano nel poema di D., in Dal secolo e dal poema di D., Bologna 1898, 149-308, (particolarm. 245-248); H. Finke, D. als Historiker, in " Historische Zeitschrift " CIV (1910) 473-503; F. Torraca, Il regno di Sicilia nelle opere di D., in Studi Danteschi, Napoli 1912, 347-381, (particolarm. 370-374); R. Caggese, D. e Roberto d'A., in A. Solmi, G. Mazzoni e altri, Studi per D. (Conferenze dantesche tenute a cura della Soc. Dant. Ital., III), Milano 1935, 67-97 (esamina l'atteggiamento di D. nei riguardi di tutti gli A., più di quanto non lasci intendere il titolo, ma con una dimenticanza totale dei motivi ispiratori del pensiero e dell'arte del poeta); P. Brezzi, D. e gli A., in D. e l'Italia Meridionale, Firenze 1966, 149-162.

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