BOEZIO, Anicio Manlio Torquato Severino

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 11 (1969)

BOEZIO, Anicio Manlio Torquato Severino

Claudio Leonardi

Nacque a Roma verso il 480. Suo padre, Flavio Narsete Manlio Boezio, console nel 487, morì quando il figlio non aveva ancora compiuto la sua formazione. B. fu allora accolto nella casa di Quinto Aurelio Memmio Simmaco, discendente del Simmaco che un secolo prima aveva capeggiato il Senato, in grande maggioranza ancora pagano, nel chiedere all'imperatore che venisse rimesso al suo posto l'altare della Vittoria. Di Simmaco (che aveva avuto il consolato nel 485) B. sposò la figlia Rusticiana, "ingenio modesta, pudicitia, pudore praccellens et, ut omnes eius dotes breviter includam, patri similis" (Cons., l. II, prosa 4); da essa ebbe i due figli Simmaco e Boezio.

Alcuni problemi fondamentali riguardanti la vita e le opere di B. sono tuttora oggetto di soluzioni ipotetiche, in particolare per quanto riguarda la sua formazione culturale.

B. si trovò a vivere, per nascita, per educazione e per interessi culturali e politici, nell'ambiente della più alta nobiltà senatoria, legato alla fazione politica che aveva in Simmaco il suo capo e che godeva vasto prestigio e sicura influenza di potere alla corte di Teodorico e a quella di Costantinopoli. Gli Anicii, di cui la famiglia di B. faceva parte, erano già da tempo cristiani, e già dall'inizio del sec. V avevano intesa come necessaria la collaborazione con i bobari, ma con la coscienza di appartenere, come afferma B., a questo "pretiosissimum propinquitatis genus" (Cons., l. II, prosa 3), a un ceto dirigente che trae l'ispirazione fondamentale della propria egemonia culturale e civile dalla tradizione romana. Questo gruppo trova in Teodorico, ormai padrone dell'Italia (ne è re dal 493), un punto di convergenza: è anzi la politica stessa di Teodorico a favorire questo avvicinamento e questo legame. In una situazione di contrasto tra l'imperatore Anastasio e il papato, che aveva determinato lo scisma acaciano, Teodorico può infatti realizzare una politica di equilibrio sia all'interno sia all'esterno, mediando e in qualche misura guidando le forze esistenti.

Egli, così, attua una politica di rapporti con gli altri potentati germani d'Occidente, in vista d'una alleanza antiorientale, e consolida in Italia la propria supremazia e la funzione politica e militare del popolo goto, ponendosi come forza determinante accanto al papato e all'aristocrazia romana, che egli cerca di inserire sempre più nel proprio sistema politico. Al dominio intellettuale, che è evidente, e alla forte posizione economica, questa crede di poter nuovamente far corrispondere il potere civile.

Il contributo che alla politica teodoriciana dà la nobiltà tradizionalista è certo anche culturale, e B. verrà più volte pregato da Teodorico di mettere a disposizione della corte le sue conoscenze relative al quadrivio delle arti liberali. Gli viene così chiesto, verso il 496 - quando è ancora giovanissimo, - di scegliere un citaredo da inviare al re dei Franchi Clodoveo (Variae, II, 40), e nel primo decennio del sec. VI, sempre su richiesta di Teodorico, presiederà alla costruzione di un orologio che il re goto intende regalare al re dei Burgundi Gundobaldo (Variae, I, 45); come esperto di aritmetica sorveglierà poi che la paga dei dipendenti del palazzo regio sia "integri ponderis" (Variae, I, 10). In questo tempo aveva già formulato un suo programma culturale e ne aveva iniziato la realizzazione: tradurre le maggiori opere greche relative ai problemi del quadrivio e a quelli del trivio che più fossero connessi a una considerazione filosofica, come i testi logici; tradurle e commentarle assieme ai testi latini dello stesso tipo. La sua intenzione era per altro più ampia, poiché desiderava tradurre tutto Platone e gran parte di Aristotele, e accompagnarli di suoi scritti. B. non aveva tenuto segreto il suo disegno, se Teodorico e per lui Cassiodoro, poteva dire in una delle lettere ricordate: "Hoc te multa eruditione saginatum ita nosse didicimus, ut artes, quas exercent vulgariter nescientes, in ipso disciplinarum fonte potaveris. Sic enim Atheniensium scholas longe positus introisti, sic palliatorum choris miscuisti togam, ut Graecorum dogmata doctrinam feceris esse Romanam... Translationibus enim tuis Pythagoras musicus, Ptolomaeus astronomus leguntur Itali: Nicomachus arithmeticus, geometricus Euclides audiuntur Ausonii: Plato theologus, Aristoteles logicus Quirinali voce disceptant: mechanicum etiam Archimedem Latialem Siculis reddidisti" (Variae, I, 45). B. sapeva dunque il greco, e di fatto la sua operazione culturale consiste soprattutto nel tentativo di non privare la latinità dei grandi risultati della cultura greca: cosciente dunque del venire meno, dopo Odoacre e con Teodorico, della possibilità di uno scambio permanente con l'Oriente, nel senso di un rapporto entro uno stesso ambito civile e culturale; cosciente cioè della novità della situazione politica occidentale, cerca di superarla fornendo ai Latini gli strumenti culturali del pensiero greco e ponendosi, forte di questo prestigio e di questa coscienza, come il migliore consigliere di Teodorico: B. tenta così, anche a livello culturale, di far rientrare la politica teodoriciana nella tradizione latina, di condizionarla, di farla strumento della romanità.

Egli cerca per questo di realizzare il suo programma anche sul piano politico, come ricorda e dichiara poi nella Consolatio: "Quod a te (Philosophia) inter secreta otia didiceram, transferre in actum publicae administrationis optavi" (Cons., I, prosa 4). Così B., presto senatore, ebbe giovanissimo incarichi e soprattutto titoli. Nel 510 era console, al vertice cioè di un prestigio che non dava ormai che scarso potere (Variae, VI, 1). Ma più tardi la posizione di B. diventa politicamente significativa, così che egli può tentare di mettere in atto il suo disegno di potenziamento della tradizione romana: quando Teodorico, che ha fin qui seguito una politica di prudente fiducia verso il Senato (ma ha anche cercato di immettervi elementi provinciali per poterlo meglio controllare, sminuendovi il peso delle grandi famiglie aristocratiche), ritiene di potersi giovare dell'opera di quei senatori, che B. rappresenta, più legati al desiderio di vedere l'affermazione di Roma e che sono per questo disposti a collaborare con lui. È il momento in cui Teodorico, arbitro di una situazione interna favorevole, crede di avere anche raggiunto buoni rapporti con l'Oriente, dove la nuova dinastia inaugurata da Giustino (518) gli sembra por fine ai lunghi contrasti avuti con Anastasio I. Così nel 522 B. è nominato magister officiorum, e nello stesso anno i suoi due giovani figli sono nominati dall'imperatore consoli: nel nome di B. sembra simboleggiato il ritrovato accordo tra l'Oriente, Roma e i Germani. B. del resto, anche se non era tra quei senatori che facevano del riavvicinamento a Bisanzio il problema principale del loro atteggiamento politico, poteva dare le migliori garanzie alla nuova dinastia imperiale. Legami con Bisanzio erano stati tenuti direttamente, con ambascerie e con amicizie, da Simmaco stesso e da Ennodio, poi vescovo di Pavia (513-521), che di B. era parente (e che povero, in confronto al ricchissimo B., gli aveva chiesto una casa, dopo avergli fatto grandi elogi ed averne esaltato il sapere e la cultura latina come greca, quando era stato fatto console: Epist., VIII, 1). Ma B. poteva vantare anche il merito, agli occhi di chi come Giustino e Giustiniano intendeva restaurare l'ortodossia contro ogni movimento eretico, in particolare contro l'arianesimo, di avere scritto alcuni trattati teologici che si richiamano alla problematica discussa in Oriente e danno soluzioni vicine a quelle appoggiate dalla corte bizantina.

Si è a lungo discusso sull'autenticità dei cinque trattati teologici di B., e particolarmente nell'ultimo secolo. Ma fin dall'inizio del Settecento G. Arnold ne aveva negato la paternità tradizionale, motivandola con il fondamentale paganesimo di B. (Schurr, p. 4). Questo giudizio non si sarebbe attenuato quando, dopo la metà del sec. XIX, si volle qualificare la religiosità cristiana di B. come puramente esteriore (F. Nitzsch, Das System des B. und die ihm zugeschriebenen theologischen Schriften, Berlin 1860): di fronte agli interessi logici e scientifici di B., come alla sua testimonianza estrema, la Consolatio philosophiae, che non presentano alcuna esplicita confessione cristiana né alcuna componente che esplicitamente si rifaccia al patrimonio culturale elaborato dai cristiani nei secoli precedenti, i trattati teologici apparivano indubbiamente sospetti. Senonché poco dopo (1877) la questione venne in gran parte chiusa dalla pubblicazione dell'Anecdoton Holderi, un frammento cronachistico che si è fatto con buon fondamento risalire agli anni 522-523 e alla paternità di Cassiodoro: "Boethius... scripsit librum de Sancta Trinitate et capita quaedam dogmatica et librum contra Nestorium. Condidit et carmen bucolicum. Sed in opere artis logicae id est dialecticae transferendo ac mathematicis disciplinis talis fuit ut antiquos auctores aut aequiperaret aut vinceret" (ediz. H. Usener, p. 4). Già R. Peiper, dandone nel 1871 la prima edizione critica, aveva tolto a B. solo i trattati IV-V (pp. XXII-XXIII), ma erano proprio questi a presentare una terminologia e una problematica direttamente cristiana. I cinque trattati sono stati tramandati con questi titoli: I, Quomodo Trinitas unus Deus ac non tres dii (o Liber de Trinitate); II, Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur; III, Quomodo substantiae in eo, quod sint, bonae sint (che la tradizione manoscritta iscrive spesso De hebdomadibus); IV, De fide catholica; V, Liber contra Eutychen et Nestorium (o Liber de persona et duabus naturis). Ora il passo cassiodoriano non sembrava riferirsi immediatamente al IV trattato, la cui autenticità è stata perciò nuovamente messa in dubbio (molto peso ha avuto in questo senso il giudizio del Rand, che lo Schurr, cui è dovuto il miglior lavoro complessivo sugli opuscula, non ha messo in discussione): ma si tende ora ad attribuirlo a B., e con plausibili motivi, poiché si ritiene di poterlo identificare con i "capita dogmatica" di cui parla Cassiodoro (mentre i trattati II e III sarebbero compresi con il I, data la vicinanza dell'argomento trattato, nella voce "liber de Sancta Trinitate"), e poiché nessun argomento contrario, interno od esterno, si è finora trovato contro le testimonianze delle soscrizioni manoscritte.

L'occasione per questi trattati è da riportarsi alla controversia teopaschita (Schurr), ripresa all'inizio del sec. VI per iniziativa di alcuni monaci sciti in un ambiente in cui, soprattutto in Oriente, le decisioni di Calcedonia non avevano cancellato vaste influenze di derivazione nestoriana e ancor più eutichiana. Il teopaschismo rientra in quest'ultima, dal momento che presuppone l'unità di natura in Cristo, Verbo incarnato, e da questa deduce la morte di Dio: lasciava almeno adito a derivazioni in tal senso la formula "unus de Trinitate crucifixus est". La diffusa insoddisfazione alle decisioni del concilio faceva spesso tutt'uno con un antinestorismo radicale: e la politica di compromesso dell'imperatore Anastasio aveva di fatto favorito i monofisiti dando luogo alla promulgazione nel 482 dell'Henoticon. L'opposizione che questo testo trovò a Roma fu netta, provocando lo scisma acaciano, che poté chiudersi solo nel 519-520 dopo che ad Anastasio era successo Giustino. I monaci sciti chiedevano l'approvazione di una formula corretta rispetto alla primitiva teopaschita: "unus de Trinitate passus est carne", che era già stata usata dagli eutichiani contro Nestorio e che figurava anche nell'Henoticon. Ma più che una mediazione con gli ambienti monofisiti in cui vivevano, essi davano voce ad una tradizione teologica, quale anche per l'influsso di Cirillo di Alessandria s'era configurata in Palestina (Schurr, p. 154), e desideravano vederla riconosciuta come ortodossa nel contesto dottrinale stabilito a Calcedonia. Per questo l'opera dei monaci sciti poté continuare anche dopo la chiusura dello scisma acaciano: proprio nel 519 essi vennero a Costantinopoli a proporre la loro formula ai legati papali e, non avendo avuto soddisfazione, proseguirono lo stesso anno per Roma.

Ma neppure papa Ormisda approvò la loro teologia. La formula infatti, se poteva non essere contraddittoria con quella di Calcedonia, solo in essa poteva giustificarsi e comprendersi: le stesse proposizioni di Cirillo, che era morto prima di Calcedonia, potevano ora sembrare equivoche nella loro incertezza terminologica. Con il problema monofisita appena chiuso, la formula non poteva non insospettire Roma. Anche se in quegli anni 519-521 (Schurr, p. 192), e proprio a Roma, il monaco scita Dionigi il Piccolo aveva tradotto dal greco alcuni testi che potevano giustificare la problematica teopaschita (Schurr, pp. 168185), quali le lettere 17, 45 e 46 di Cirillo e il Tomus ad Armenios di Proclo di Costantinopoli, e le esigenze dei conterranei aveva presentato in una lettera prefatoria al Tomus. Questa tematica riconduceva tra l'altro il problema dell'incarnazione del Verbo nelle dispute trinitarie, dal momento che il termine stesso di Trinità, nella formula teopaschita, era suscettibile di interpretazioni diverse.

I primi due trattati di Boezio affrontano esattamente il problema trinitario secondo la prospettiva che la controversia teopaschita e la formula dei monaci sciti avevano avanzato; e alla sua stessa professione di fede, costituita dal IV trattato, è premessa un'analoga considerazione trinitaria. È vero che B. non fa mai cenno diretto alla questione scita e non ne ricorda espressamente la formula, ma non poteva non tener conto della posizione negativa immediatamente assunta da papa Ormisda, e del favore che i monaci godevano invece a Bisanzio, dove Giustino aveva sì ristabilito l'ortodossia contro l'eresia acaciana, ma si era mostrato benevolo con i monaci sciti (e Giustiniano ne approverà nel 533 la formula). B. non manifesta dunque alcuna condanna né alcun appoggio ai monaci orientali, ma accetta la loro problematica e la svolge, sulla base di S. Agostino (e soprattutto del grande trattato De Trinitate), entro una preoccupazione di chiarimento terminologico (particolarmente dettagliato e documentato quello su persona nel V trattato) e di rigore logico, per cui sfrutta soprattutto Aristotele. I primi quattro trattati sono dunque databili agli anni 519-523 (l'anno a cui si data l'Anecdoton Holderi). Si noti che il primo trattato è rivolto in forma di lettera a Simmaco (morto nel 525 0 526), e altri tre (non il IV) a un diacono Giovanni non ancora sicuramente identificato (in cui spesso i commentatori medievali hanno visto papa Giovanni I: 523-526). Il V trattato postulerebbe invece, secondo lo Schurr (pp. 108-136), una diversa data se non un diverso contesto storico. Sarebbe infatti il primo in ordine di composizione, databile al 512-513, in quanto B. ambienta esplicitamente il suo scritto nelle discussioni originate a Roma, nel 512, da una lettera di alcuni vescovi orientali a papa Simmaco, che verteva sulle questioni cristologiche sollevate dallo scisma acaciano. Ma il trattato non fu scritto necessariamente in quell'anno: il Cappuyns (col. 372) lo porta agli stessi anni degli altri opuscoli, perché i problemi trinitari e cristologici esaminati denunciano un'impostazione particolare che loro proviene dalla controversia teopaschita; e il Nédoncelle (p. 236), analizzando il concetto di persona, lo ritiene l'ultimo scritto teologico di B., vicino ormai alla Consolatio.

Il De Trinitate affronta direttamente un tema di derivazione ariana ("ut Arriam qui gradibus meritorum Trinitatem variantes distrahunt atque in pluralitatem diducunt": ediz. Peiper, p. 151), e l'intento di B. è con sufficente chiarezza denunciato in apertura e chiusura dell'opera: egli intende, illuminato dalla "lux divina" (p. 149) e "opitulante gratia divina" (p. 163), affrontare il problema dell'unità di Dio, che non sopporta dunque differenze, anche se è una vita di relazione fra tre persone (p. 151). La fonte è dichiarata, quando chiede "an ex beati Augustini scriptis semina rationum aliquos in nos venientia fructus extulerint" (p. 150), ma l'impianto non ha paragone con quello del De Trinitate agostiniano (capp. 2 e 4): la sua preoccupazione è volta ad approfondire i concetti che i termini trinitari contengono, così come poteva farsi nella problematica suscitata dalla controversia scita - e dunque a circoscriverli con i mezzi della comprensione dialettica. La sua argomentazione non si fonda perciò mai sulla Bibbia né ha riferimento diretto alla vita spirituale, ma elabora categorie concettuali: così il cap. 3 è un "de numeris", il 4 un "de praedicamentis", il 5 e il 6 un "de relativis". Aristotele non è mai esplicitamente richiamato, ma con Cicerone è sicuramente tra le fonti di B. (Schurr, pp. 78-86). B. stesso sembra del resto accennare a questa sua scelta di pensiero quando afferma di voler affrontare una "quaestionem... formatam rationibus" (p. 149), e che sarà felice "si sententiae fidei fundamentis sponte firmissimae... idonea argumentorum adiumenta praestitimus" (p. 163). Così la questione viene risolta, una volta affermata l'unità divina, in queste proposizioni: "Quocirca si Pater ac Filius ad aliquid dicuntur nihilque aliud... differunt nisi sola relatione, relatio vero non praedicatur ad id de quo praedicatur quasi ipsa sit et secundum rem de qua dicitur, non faciet alteritatem rerum de qua dicitur, sed, si dici potest, quo quidem modo id quod vix intellegi potuit interpretatum est, personarum" (p. 161).

Il secondo e brevissimo trattato, che secondo lo Schurr (pp. 97-104) costituirebbe il nucleo generante del I, rivela le stesse preoccupazioni. Il suo problema culturale è quello di una esposizione del dogma cristiano secondo ragione, se chiude la sua argomentazione chiedendo al diacono Giovanni: "Haec si se recte et ex fide habent, ut me instruas peto. Aut si aliqua re forte diversus es, diligentius intuere quae dicta sunt et fidem si poteris rationemque coniunge" (p. 167). La tematica e il suo svolgimento sono analoghi al primo trattato (Agostino è anche qui la fonte ultima della soluzione teologica), ma sono ora condotti senza alcuna osservazione metodologica, senza premesse e parentesi logiche, ma con assoluto rigore di argomentazione, per concludere: "Trinitas quidem in personarum pluralitate consistit, unitas vero in simplicitate substantiae" (p. 166).

Questo tentativo di una teologia predicata all'interno della tradizione del pensiero greco, che rende singolarmente unitarie queste opere teologiche con le traduzioni e le opere logiche di B., è evidente anche nel terzo trattato, che non riguarda la controversia trinitaria, ma affronta un problema eminentemente filosofico, quale la questione delle sostanze create, della loro bontà e del loro rapporto con il bene assoluto; l'esito è rigorosamente lineare: "idcirco enim licet in eo quod sint bona sint, non sunt tamen similia primo bono, quoniam non quoquo modo sint res ipsum esse earum bonum est, sed quoniam non potest esse ipsum esse rerum, nisi a primo esse defluxerit, id est bono" (pp. 172-173), come l'impostazione data al problema è esplicitamente dichiarata, e conferma la natura dello scritto: "ut igitur in mathematica fieri solet ceterisque etiam disciplinis, praeposui terminos regulasque quibus cuncta quae secuntur efficiam" (p. 168).

Diversa impostazione hanno i trattati IV e V, dove si parla esplicitamente in termini cristiani. Il IV è anzi, più che un'esposizione dogmatica della fede cattolica, una rimemorazione della storia della salvezza sulla traccia del Vecchio e del Nuovo Testamento, che trova i momenti più intensi nella narrazione dell'incarnazione del Verbo per la Vergine Maria (p. 182) e della ascensione del Cristo ai cieli, "ubi, in eo quod Dei filius est, numquam defuisse cognoscitur, ut assumpturn hominem, quem diabolus non permiserat ad superna conscendere, secum Dei filius caelesti habitationi sustolleret" (p. 183). Il prologo ricorda, con la sua messa a punto trinitaria e il suo andamento logico, i primi due trattati, ma nel testo è poi più direttamente manifesto l'insegnamento di Agostino: "Et hoc est principale religionis nostrae, ut credat non solum animas non perire, sed ipsa quoque corpora, quae mortis adventus resolverat, in statum pristinum futura de beatitudine reparari... Sola ergo nunc est fidelium expectatio qua credimus affuturum finem mundi omnia corruptibilia transitura resurrecturos homines ad examen futuri iudicii recepturos" (pp. 184-185). La narrazione è solo interrotta dalle condanne delle dottrine eretiche: dopo le iniziali considerazioni trinitarie quelle di Ario, dei sabelliani e dei manichei (p. 176), dopo il racconto della creazione quella di Pelagio (p. 179), e, dopo il racconto dell'incarnazione, la condanna di Nestorio ed Eutiche (p. 183).

È ai due eretici del sec. V che B. dedica il suo quinto e più vasto trattato, che s'apre con una lunga premessa sui termini e i concetti di natura e di persona, svolti secondo interessi filosofici (Aristotele, Platone e Cicerone vengono direttamente citati, assieme ai tragici greci: pp. 190, 192, 193, 195). Questa sezione è dunque più vicina ai tre primi trattati, ma con un linguaggio più vibrante e partecipato, e che lascia meglio intravvedere come sia una convinzione cristiana a reggere la sua argomentazione logico-filosofica e come in definitiva questa si muova all'interno della fede. Definita la natura come "earum rerum quae, cum sint, quoquo modo intellectu capi possunt" (p. 189), arriva con una ricca documentazione, in cui usa direttamente i termini greci, e con un più complesso argomentare, alla celebre definizione di persona come "naturae rationabilis individua substantia" (p. 193): si comprende come tutto il suo pensiero sia condotto, come risulterà poi nella Consolatio (un dialogo tra la Filosofia e B., che si rivela l'itinerario dell'anima umana nella pienezza divina), a sottolineare la centralità della persona nella vita umana. Da queste premesse discute e confuta le posizioni di Nestorio (pp. 197-202) e di Eutiche (pp. 202-206); più debolmente di quest'ultimo, in quanto è portato a sottolineare, come Eutiche, l'unità di persona, anche se respinge costantemente ogni forma espressa di monofisismo. Ma è questo che lo porta, qui come nel IV trattato, a risalire fino agli ariani quando vuole indicare il punto originante le opinioni erronee del suo tempo, perché Ario negava l'unità delle persone trinitarie e toglieva così ogni fondamento all'unità cristica nel Verbo. Ed è questo atteggiamento che lo conduce, quando considera nell'ultima parte del trattato i rapporti di οὐσία e ὑπόστασις nel Cristo, a soffermarsi sul problema, che la controversia teopaschita ripresa dai monaci sciti aveva richiamato, delle sofferenze e della peccabilità del Cristo (pp. 212, 214-217): qui è il ricordo meno indiretto della questione riproposta dagli sciti: "ut cum humanitas passa sit, Deus tamen passus esse dicatur, non quod ipsa deitas humanitas facta sit, sed quod a deitate fuerit assumpta" (p. 212).

Gli opuscoli teologici mostrano dunque la capacità di B. di inserirsi con originalità nel dibattito teologico del suo tempo: per il chiarimento - che non si può certo ridurre a un "prurit de définition" (Nédoncelle, p. 237) - che cerca di dare ad una questione così complessa come quella derivata dal teopaschismo, e particolarmente per la metodologia da lui impiegata, per cui applica gli strumenti della logica classica al patrimonio che gli viene dalla patristica e alle discussioni contemporanee; ciò lo porta a isolare da Agostino il centro della dottrina trinitaria nel quadro dei suoi interessi (nel II trattato) e a svilupparlo con argomentazioni di natura filosofica (nel I trattato). È anche questa particolare concezione teologica che rese celebri gli opuscoli nel Medioevo (numerosi i commenti dal sec. IX al XIII: da Remigio d'Auxerre a Teodorico di Chartres, da Gilberto Porretano e Clarembaldo di Arras a S. Tommaso d'Aquino). B., che scrive probabilmente questi trattati entro l'anno in cui assume l'incarico di magister officiorum (522), mostra anche così la coerenza della sua testimonianza di uomo di cultura, solidale dai trattati logici e scientifici alla Consolatio, attraverso questi opuscoli di teologia. Perché in lui non viene mai meno l'intento di comporre la tradizione romana e greca entro la fede cristiana. Così che se B. ha il merito indiscusso di avere contribuito direttamente, con i suoi scritti di logica, a far sì che alla paideia medievale non mancasse un fondamento logico, ha anche quello di avere mostrato come la coscienza cristiana fosse ormai giunta a poter usare la conoscenza filosofica in quanto capace di offrire argomenti paralleli alla fede. È questo che B. rende manifesto in sede teologica con i suoi cinque trattati, e che rivela con più scoperta e diretta umanità nella Consolatio, che può essere intesa, attraverso tutti gli echi pagani di cui è ricca, solo in questa prospettiva. Di fronte alla morte B. infatti non ritiene di dover smentire la sua scelta culturale e spirituale, anche se contro di lui sono uomini come Elpidio Rustico e Massimiano e in qualche misura anche Cassiodoro, quanto piuttosto di portarla alla sua ragione fondamentale, l'essere divino, a cui ogni esperienza va riferita. Nel concepire l'essere divino gli è presente la teologia naturale classica, che egli cerca - appunto - di inserire nella prospettiva cristiana, quando afferma che il vertice umano non sta nella conoscenza di Dio, ma nell'indiarsi stesso dell'uomo: "Sed qui beati sint, deos esse convenit. Est igitur praemium bonorum quod nullus deterat dies, nullius minuat potestas, nullius fuscet improbitas, deos fieri" (Cons., l. IV, prosa 3; vedi anche Cons., l. III, prosa 12).

Nell'anno 522 B. veniva chiamato da Teodorico a ricoprire un incarico di effettiva responsabilità politica, che non avrebbe tuttavia mantenuto per molto tempo. Secondo una ipotesi sostenuta negli ultimi anni dal Bark, B. sarebbe stato arrestato (nel 523) perché implicato in una congiura ordita contro Teodorico da Giustino, che aveva a questo scopo cercato e ottenuto l'appoggio di un gruppo di senatori. Da parte di altri (si veda più recentemente il Coster) si è creduto di poter dimostrare che l'opposizione tra Teodorico e Giustino, da cui dipese la sorte di B., non era solo di natura politica ma aveva la sua prima ragione nella lotta religiosa: i provvedimenti antiariani dell'imperatore, resi esecutivi nel 524, fecero precipitare la situazione, e la vittima più illustre, con B. e Simmaco, fu lo stesso papa Giovanni I. Nella prima prospettiva il processo contro Albino e B. si configura come un provvedimento pienamente giustificato sul piano dei fatti; nel secondo caso come un'ingiusta forzatura da parte del re goto per eliminare uno dei punti di forza della posizione politica e religiosa della romanità.

Le testimonianze che del fatto ci rimangono sono soprattutto due, quella di B. nella Consolatio philosophiae (l. I, prosa 4) e quella dell'Anonymus Valesianus (ediz. Cessi, pp. 19-20), più giuridica questa, più tesa ad una giustificazione spirituale e universale quella: due fonti in definitiva incomparabili. Ambedue riferiscono come l'occasione immediata del processo a B. fu l'accusa di lesa maestà e di tradimento nei confronti del senatore Albino, accusa che Cipriano, referendarius di Teodorico e molto legato al re e alla tradizione gota, sostenne anche perché pareva potersi clamorosamente provare con la corrispondenza che Albino avrebbe tenuto con l'imperatore d'Oriente: del resto la situazione appariva talmente tesa che ogni contatto con l'Oriente poteva sembrare un tradimento. Un'accusa di questo genere significava per Teodorico, se ad essa avesse dato seguito, come poi successe, la rinuncia a quella politica di equilibrio interno che aveva perseguito per lunghi anni, e di cui l'aristocrazia senatoria era una delle componenti indispensabili. In realtà il sistema politico costruito o vagheggiato da Teodorico si andava sgretolando. Le difficoltà dottrinali tra Roma e Bisanzio, che avevano anche riflessi politici, erano state finalmente appianate (519-520); a questo si era arrivati anche per la mediazione di Teodorico, che riteneva così di essere entrato definitivamente nel giro della grande politica mediterranea ed europea: ma egli aveva sottovalutato l'importanza che quelle difficoltà avevano avuto nel far convergere per qualche decennio gli interessi suoi e del papato. Ora anche la morte di Ormisda (523) sembrava segnare la fine di un periodo in cui un'intesa con i Goti era stata costantemente cercata dal papato, sia pure tra permanenti difficoltà e incertezze. E la morte, nello stesso anno, del re dei Vandali Trasamondo veniva a incrinare e poi a rompere i rapporti di politica estera che Teodorico aveva costruito. Ma la chiave di volta della politica teodoriciana passava per Costantinopoli. L'accordo di Giustino con Roma significava l'accentuarsi di quelle forze politiche e culturali, che gli Anicii sembravano incarnare, per cui la tradizione romana andava ricompresa all'interno della fede cristiana e resa così nuovamente il fondamento del vivere civile. La posizione di Teodorico, che aveva cercato di costituire l'elemento germanico quale mediatore tra romanità e cristianesimo, e dunque come il centro costitutivo di un diverso sistema sociale, ne era inevitabilmente indebolita.

Ma la reazione di Teodorico sembra determinarsi del tutto solo quando si vede direttamente minacciato da Bisanzio, cioè quando Giustino, all'accordo con Roma, fa seguire le misure antiariane (524): queste non potevano non essere fatte proprie dal papato, e avrebbero determinato un conflitto aperto con i Goti, fedeli all'arianesimo. In tal modo l'aspetto dottrinale e gli interessi religiosi vengono a coincidere, in Giustino come in Giovanni I, con una prospettiva politica. L'immediata conseguenza è l'isolamento in cui viene a trovarsi Teodorico. E questo lo spinge a mutare la sua politica di equilibrio in una politica di forza. Teodorico cerca così di far recedere Giustino dalle misure antiariane con la mediazione dello stesso papa Giovanni I, che viene inviato in oriente nel 525; e cerca di isolare a sua volta il papa, mettendo in stato di accusa l'aristocrazia romano-cristiana, ai cui vertici sono Simmaco e Boezio. Le due iniziative di Teodorico si concludono tragicamente. Giovanni I è accolto a Bisanzio con tutti gli onori, e può facilmente trovare con Giustino una più stretta intesa, anche perché mediare nel senso voluto da Teodorico gli era precluso da motivi religiosi: rinunciare alla dottrina ortodossa avrebbe poi anche portato a riaprire la lotta religiosa appena chiusa e a privarsi di un appoggio politico, lontano ma di grande prestigio. Al suo ritorno in Italia, nella primavera del 526, Teodorico si rese conto del fallimento dell'ambasciata: Giovanni I finì in carcere, dove morirà poco dopo, il 18 maggio 526. A questa data il processo istruito contro B. si è già chiuso: secondo la interpretazione consolidatasi fino in epoca moderna, nell'autunno dello stesso anno 524 (sulla base della testimonianza di Mario d'Avenches: morto nel 594); secondo una recente ricostruzione (Coster) solo da pochi mesi: B. sarebbe stato arrestato nell'autunno del 524 0 qualche tempo dopo (525), e giustiziato nella primavera del 526.

Le componenti religiose e politiche di questa vicenda difficilmente si possono separare: se quella politica è più appariscente, lo è anche perché Teodorico non poteva certo aprire un processo su problemi teologici: non avrebbe avuto allora alcuna speranza di rompere l'isolamento in cui si era venuto a trovare sia in Occidente sia in Oriente. Del resto le opere teologiche mostrano in B. una posizione ortodossa, ma rivolta con particolare attenzione alla problematica viva in Oriente, dove trova appoggio in Giustino; confermano cioè una incompatibilità anche su questo piano tra Teodorico e Boezio. Non è forse un caso che il re goto, secondo la testimonianza della Consolatio, abbia cercato di screditare B. non solo sul piano politico ma anche su quello spirituale, accusandolo al processo anche del delitto di magia. Il tentativo di coinvolgere B. è dunque netto e totale da parte di Teodorico. Si può comprendere perciò come la tradizione medievale abbia inteso B. come un testimone della fede cristiana, e lo abbia considerato un martire. Questa testimonianza è coerente con l'atteggiamento di tutta la sua vita: un tentativo di predicare la tradizione romana all'interno della fede cristiana, sia sul piano culturale sia su quello civile, così che la difesa e testimonianza della romanità comportavano nella sua coscienza anche quelle della fede. È questa coerenza che il culto cristiano ha raccolto, e questa esprime Dante quando colloca B. nel Paradiso tra i dottori maggiori della Chiesa (Par., X, 124-129). Ed è rifacendosi espressamente a questa tradizione che Leone XIII riconosceva nel 1893 il culto a B. relativamente alla diocesi di Pavia (la fondatezza storica del culto è stata più recentemente contestata, contro il Rand, dal Bark).

Il processo era stato dunque originato da una denuncia, contro il senatore Albino, di complotto con Bisanzio ai danni di Teodorico. B. si adoperò perché il caso non avesse seguito, ma incontrò subito l'opposizione del referendario Cipriano: due diverse mentalità, come due diverse posizioni religiose e politiche si trovavano di fronte. Cipriano che interpretava la politica più strettamente gotica di Teodorico, e vedeva perciò come fossero ridotti i margini per una proficua azione politica verso l'Oriente; B. che si crede imprudentemente troppo sicuro nella sua posizione di magister officiorum. Le forzature nell'accusa di Cipriano sono probabili: la situazione politica richiedeva che si mostrasse come la potenza di Teodorico non era venuta meno. E sono confermate anche dal fatto che dei tre testimoni a carico, che B. qualifica senza mezzi termini come delatori (l'Anonymus Valesianus, p. 20, li dice falsi) e che scredita rivelando che erano stati tutti coinvolti in procedimenti penali, due sono parenti di Cipriano; ed anche dalla procedura irregolare del processo, per cui B. non venne ascoltato in tribunale e il dibattimento non si svolse nell'ambito del consistorium regis, come si sarebbe dovuto, e la causa venne affidata al praefectum urbis. Nell'intento di difendere Albino, B. aveva chiamato in causa tutto il senato: "Falsa est insinuatio Cypriani, sed si Albinus fecit, et ego et cunctus senatus uno consilio fecimus; falsum est, domne rex" (ibid.). Non si trattava, per B., di un tradimento, ma della fedeltà alla tradizione romana, che comportava necessariamente un rapporto con Costantinopoli. Senonché B. si trovò vicino solo Simmaco: il resto dei senatori preferì non avere noie, mentre l'istruttoria poteva valersi di alcuni testimoni, quelli che B. chiama delatori (Basilio, Opilione, Gaudenzio), che confermarono le accuse.

B., condotto in prigione presso Pavia, "in agro Calventiano" (ibid.), nell'autunno del 525, vi scrisse la Consolatio philosophiae, dove è contenuta anche la sua difesa, che B. presenta come una contrapposizione tra l'"impunita barbarorum... avaritia" e la "libertas romana" (Cons., l. I, prosa 4), tra il disordine civile e un ordine di ragione, su cui lo Stato si fonda e che produce il diritto. In questa prospettiva di una tensione universale al bene, la classicità romana non appare più come "civitas hominum", ma come fonte di civiltà e di libertà. Di questa egli si configura l'eroe, e la sua azione politica illustra come una difesa degli interessi romani, considerati dunque come beni di tutta la comunità: egli cita così alcuni casi in cui aveva dovuto salvare i Romani dall'invadenza e dal sopruso dei goti Conigasto e Triguilla, come da quella dei funzionari stessi della certe regia a proposito di una coemptio disposta in Campania in un momento di crisi annonaria. B. perciò non si riconosce alcuna colpa: "At cuius criminis arguimur summam quaeris? Senatum dicimur salvum esse voluisse. Modum desideras? Delatorem ne documenta deferret quibus senatum maiestatis reum faceret, impedisse criminamur. Quid igitur o magistra censes?" (ibid.). Egli ha tuttavia il senso che la sua causa è ormai perduta: "quae sperari reliqua libertas potest?" (ibid.). B. si era illuso sulla possibilità che fosse giunto il momento in cui il prestigio e la tradizione romana avessero trovato un punto di incontro con i popoli germani. Anche per questo la sua amarezza trova pace solo nel lungo colloquio con la "Filosofia", in un interiore dialogo con la verità che ha al suo centro la considerazione della persona umana e della sua dignità.

B. fu ucciso a Pavia, forse dopo la tortura (vedi l'Anonymus Valesianus, p. 20), tra la primavera e l'estate del 526, dopo il ritorno del papa dalla missione in oriente (così il Coster), nell'autunno del 524 secondo la tradizione. Alla morte di B. sarebbe presto seguita quella di Simmaco, che Gregorio Magno associa al martirio di Giovanni I in un racconto dei Dialogi (IV, 31). Poco dopo Teodorico stesso veniva a morte (30 ag. 526).

Gli scritti di logica di B. sono di tre tipi: traduzioni dal greco, commenti a testi greci e latini, trattati indipendenti o adattati dal greco. Di questi tre gruppi si conservano i seguenti testi: 1) traduzioni: a) da Porfirio: Isagoge; b) da Aristotele: Categorie, De Interpretatione (Periermeneias), Primi Analitici, Topici, Elenchi Sofistici; probabilmente c) da autore o autori ignoti: ampia collezione di glosse ai Primi Analitici; 2) commenti: a) all'Isagoge di Porfirio secondo la traduzione di Mario Vittorino, in forma di dialogo, in due libri; b) all'Isagoge, secondo la sua traduzione propria, in cinque libri; c) alle Categorie d'Aristotele, secondo la sua traduzione, in quattro libri; d-e) al De Interpretatione d'Aristotele, secondo la sua traduzione: commento minore in due libri, commento maggiore in sei libri; f) ai Topica di Cicerone, del quale commento rimangono i primi cinque libri e parte del sesto; 3) trattati: a) De Divisione; b) Prolegomena (= Antepraedicamenta nei manoscritti e nelle prime edizioni = Introductio ad Syllogismos Categoricos nelle edizioni dal 1491-92 in poi); c) Introductio in Categoricos Syllogismos (= De Syllogismo Categorico nelle edizioni); d) De Hypotheticis Syllogismis; e) De Differentiis Topicis.

Era già perduta in parte nel sec. XII, e completamente da allora in poi, la traduzione dei SecondiAnalitici. Solo dalle affermazioni di B. si sa che egli compose anche un commento ai Topici d'Aristotele. Da poco dopo il 1500 fino a un secolo fa (e da alcuni anche più recentemente) venne attribuita a B. la traduzione dei Secondi Analitici fatta da Giacomo Veneto nel sec. XII. Almeno dal sec. XI fino a tempi recenti gli fu anche attribuito il De Definitionibus di Mario Vittorino. Da qualcuno nel Medioevo gli fu attribuito il Liber Sex Principiorum, di un anonimo del sec. XII (ascritto da Alberto Magno, ma erroneamente, a Gilberto Porretano). Angelo Mai pubblicò a Roma nel 1831 (Classicorum auctorum e Vaticanis codicibus editorum..., III, pp. 315-31), come opuscoli fino allora inediti di B., due testi che sono in realtà estratti dal De Differentiis Topicis: a) Speculatio de Rhetoricae Cognatione = De Diff. Top. 1207A3-1209A7, 1210C1-2, C9-1212A7; b) Locorum Rhetoricorum Distinctio = De Diff. Top. 1212B10-1213B7, 1213C1-1214C12 (con omissioni e alterazioni). Altri due frammenti non ancora identificati, ma forse estratti da opere note di B., il De multifaria praedicatione ed il Quomodo argumentorum…, si trovano in parecchi manoscritti assieme alla Speculatio ed alla Locorum Distinctio. Non c'è alcuna testimonianza per un secondo commento alle Categorie: un frammento che è stato pubblicato come parte di quest'opera può ben appartenere ad un altro autore.

L'unico dato quasi preciso per la cronologia delle opere logiche è l'anno 510, della composizione del commento, o parte del commento, alle Categorie. A parte le traduzioni, che forse hanno la precedenza su quasi tutto il resto, l'ordine più probabile di composizione sembra essere quello dato dal De Rijk: Primo Commento su Porfirio, De Categoricis Syllogismis, Secondo Commento su Porfirio, De Divisione, Commento sulle Categorie, Primo e Secondo Commento sul De Interpretatione, De Hypotheticis Syllogismis, Commento sui Topici di Cicerone, De Differentiis Topicis (gli Antepraedicamenta sono certamente posteriori al De Categoricis Syllogismis).

B. si era proposto di tradurre quante opere di Aristotele e di Platone gli fossero accessibili, di commentare le opere così tradotte, di mostrare nei commenti l'accordo tra Platone ed Aristotele. Non c'è ragione sufficiente per pensare che, a parte riassunti e frammenti citati da altri autori, B. avesse diretta conoscenza di opere aristoteliche oltre a quelle che, assieme all'Isagoge di Porfirio, costituirono almeno dal sec. V il corpus a cui dal 1495 in poi fu dato il nome di Organon. Tutti questi scritti egli tradusse, e forse solo questi; probabilmente non possedette in realtà che un solo codice aristotelico, simile a quello, tipico, che fu trascritto quattrocento anni più tardi per Areta (Vat. Urb. gr. 35), contenente quei testi con gran quantità di estratti da commenti del V e del VI sec. Forse servendosi soltanto di questo materiale commentò le singole opere (tranne gli Analitici e gli Elenchi); forse di lì trasse, a preparazione di commento mai composto, la collezione di scolii ai Primi Analitici conservata in traduzione latina.

L'attività di B. nel campo della logica costituisce, in parte, una continuazione o una rinascita - basata probabilmente su tradizioni e biblioteca di famiglia (attraverso i Simmaci) - delle attività culturali latine del sec. IV, di influenza temistiana, rappresentate per esempio da Agorio Pretestato e da uno deg!i Albini, ed a quelle di influenza porfiriana, rappresentate per esempio da Mario Vittorino. Tali interessi si rinnovarono coi rapporti inevitabili fra mondo latino e mondo greco. Che B. fosse alle scuole di Atene è leggenda tardiva (del sec. XIII); che fosse ad Alessandria alla scuola di Ammonio è supposizione di studiosi moderni; i rapporti sicuri sono quelli indicati da Cassiodoro, che di B. sapeva più di noi: B. fu scolaro di Atene "longe positus".

L'autenticità boeziana dei trattati e dei commenti è assicurata da attribuzioni nei manoscritti (almeno per i trattati si risale ad un archetipo costantinopolitano di poco posteriore, se non anteriore, alla morte di B.) e da riferimenti interni; testimonianze singole nelle Institutiones di Cassiodoro sono in parte viziate dalla duplicità della tradizione manoscritta di quest'opera. Per le traduzioni non accompagnate da commenti, cioè per quelle dei Primi Analitici, dei Topici, degli Elenchi, sulle quali sono stati elevati dubbi, e che si pensò dover essere attribuite a Giacomo Veneto, l'attribuzione è basata su analisi linguistiche, su paragoni con le traduzioni accompagnate da commenti, e su qualche elemento esterno (presenza di due fogli dei Topici in un codice del sec. X, se non del VI; attribuzione a B. dei Topici e degli Elenchi nel XII secolo, ecc.).

Tutte le traduzioni sono conservate, almeno in parte, in redazioni diverse (due o anche tre per ogni opera). Le differenze sono notevolissime, quasi radicali, per le Categorie, i Primi Analitici e i Topici; molto limitate per l'Isagoge e il De Interpretatione; non ancora sufficientemente esaminate per gli Elenchi. Nel caso dell'Isagoge e del De Interpretatione le differenze a noi note sono probabilmente dovute ai rimaneggiamenti inevitabilmente introdotti nel corso della composizione dei commenti. Per le Categorie rimangono, in rari manoscritti, e come lemmi incompleti nel commento, una redazione "definitiva", e, in centinaia di manoscritti, una edizione "composita" alla cui base stanno un testo forse primitivo e, per altre parti, il testo "definitivo" (la maggior parte dei codici presentano forme contaminate varie fra le due redazioni-tipo). Qualche cosa di molto analogo si ha per i Primi Analitici (la redazione "definitiva" fu chiamata "Fiorentina", quella "composita" fu detta "Carnutense" dai due codici più puri che le contengono). Per i Topici la documentazione finora raccolta suggerisce una situazione molto simile, in cui la redazione "definitiva" sarebbe rappresentata dal doppio foglio incluso per errore nell'antica collezione dei trattati. Questa varietà di redazioni, e il fatto che segni di lavorio editoriale si riscontrano nelle altre opere logiche di B., propongono il problema se le redazioni migliori e "definitive" non siano dovute a editori, forse di Costantinopoli, che avrebbero rimaneggiato, a scopo letterario, scolastico, apologetico, i testi boeziani. È a questo riguardo significativo che il manoscritto più puro delle Categorie in redazione "definitiva" porta segni di origine greca, e che il frammento "definitivo" dei Topici si trova nel corpus costantinopolitano dei trattati. Un'analisi delle traduzioni, specialmente nella forma originaria, mostra come la conoscenza che B. possedeva del greco fosse tutt'altro che perfetta. Il suo metodo di traduzione sembra essere diventato di più in più letterale ed uniforme, se la sequenza delle traduzioni è, come è da presumere, parallela all'ordine delle varie parti dell'Organon: la necessità di tener fede al valore tecnico, o possibilmente tecnico, di ogni parola, soprattutto per lo scopo del commento letterale o quasi, non poteva che acuire il senso che ogni parola greca dovesse avere la sua equivalente parola latina, in forma quanto possibile costante. Egli stesso mostra come l'Isagoge richiedesse, a questi scopi, una traduzione più letterale che non quella datane da Vittorino; e qua e là, nei commenti, lamenta l'inadeguatezza del vocabolario latino a rendere quello greco.

La fortuna delle traduzioni boeziane ancora conservate fu enorme nel Medioevo ed oltre. Isagoge, Categorie, De Interpretatione sono presenti in circa trecento codici, dal IX al XV sec.; Primi Analitici, Topici, Elenchi in circa duecentocinquanta. Tutte rimasero in uso, per lo più con leggere revisioni (notevole quella di Jacques Lefèvre d'Etaples), fino a tutto il sec. XVI. Su di esse si basarono in parte quasi tutti i nuovi traduttori dell'Umanesimo e del Rinascimento. Numerosi dei termini fondamentali per il linguaggio tecnico e non tecnico della logica e per l'uso comune delle lingue specialmente, ma non solo, neolatine, si imposero in conseguenza dello studio continuo, quasi universale di alcune di queste traduzioni. Esse costituiscono inoltre, specialmente in virtù della loro letteralità, uno dei documenti più importanti per la storia della tradizione del testo greco d'Aristotele e di Porfirio: sono testimoni autorevoli di almeno tre secoli più antichi dei più antichi codici greci, e sono più antichi di tutti o quasi tutti i testi aristotelici in altre lingue.

Le opere logiche di B., alcune delle quali erano evidentemente già nella biblioteca cassiodoriana del Vivarium, furono forse tutte raccolte, riordinate, probabilmente rimaneggiate, come abbiamo visto, a Costantinopoli nella prima metà del sec. VI. Tranne poche citazioni (in Cassiodoro ed Isidoro di Siviglia) tratte dall'Isagoge, dalle Categorie e dal De Interpretatione, e qualche estratto dal De Differentiis Topicis (talvolta sotto il titolo di Topica Themistii), non cominciarono ad avere decisiva influenza sulla cultura filosofica e non filosofica che dall'età carolina in poi; e questo avvenne in vari stadi. Il primo stadio è rappresentato dalla parte "boeziana" del piccolo corpus logico alcuiniano, cioè dall'Isagoge e dal commento minore al De Interpretatione, includente circa due terzi del testo aristotelico (mentre le Categorie erano presenti nella parafrasi pseudoagostiniana d'origine temistiana); Alcuino stesso nella Dialectica e le scuole di Auxerre e di Corbie del sec. IX nelle loro glosse si servirono di questi testi. Un primo arrivo delle Categorie e del De Interpretatione interi nella versione boeziana, testimoniato a Corbie, Reichenau, Vercelli, fin dal principio del sec. IX, non ha forse avuto molta influenza. Ma verso la fine del sec. X anche il testo delle Categorie (che si sostituì nella scuola alla parafrasi pseudo-agostiniana), solo e accompagnato dal commento boeziano, i commenti a Porfirio, il commento maggiore al De Interpretatione col testo completo aristotelico, e il gruppo dei trattati, cominciarono a imporsi attraverso le scuole di Gerberto, di Abbone di Fleury, di Fulberto di Chartres e di Notkero di San Gallo. Nel secondo quarto del sec. XII fu la volta degli Elenchi e, solo in minima parte, dei Primi Analitici e dei Topici. Fu solo nel sec. XIII che anche queste traduzioni aristoteliche di B. presero piede definitivamente come testi di studio. Col diffondersi degli Analitici scomparvero quasi dalla circolazione i trattati boeziani sui sillogismi, e col diffondersi dei Topici divenne più raro, specialmente in Italia, l'uso del De Differentiis Topicis e del De Divisione.

L'opera di B. quale commentatore di Porfirio e di Aristotele sembra essersi limitata a una traduzione, in parte letterale, in parte parafrastica, del materiale contenuto in commenti greci. Per le Categorie quasi tutto proviene dal commento di Porfirio in forma di dialogo (conservato in greco solo parzialmente); il resto risale probabilmente tutto al perduto commento di Giamblico. I riferimenti ad altri autori greci provengono con ogni probabilità sempre da questi due commenti greci: non c'è dunque ragione di credere che B. abbia conosciuto altri commenti. Analoga è la situazione per il De Interpretatione: tutti e due i commenti sono basati sullo stesso materiale greco: B. stesso dice che si è principalmente basato su Porfirio; e tutto converge a indicare commenti ateniesi (procliani e postprocliani) come la fonte di quanto B. scrive. I commenti all'Isagoge non mostrano particolare somiglianza col commento di Ammonio, se non, come per le altre opere, quello che viene ai due da fonti comuni; non è escluso che ci fosse già, ad opera di Vittorino o di altri, materiale di commento in latino, di cui B. si sarebbe servito; i due commenti suoi attingono alle medesime fonti, che sono con tutta probabilità della medesima origine dei commenti alle due opere aristoteliche. E, come detto sopra, non è improbabile che tutto questo materiale fosse costituito da ampi estratti di commenti, scritti ai margini intorno ai testi di Porfirio e d'Aristotele. Ci si può anche domandare se questo materiale non fosse assente dai Secondi Analitici, e dagli Elenchi, e che questo spieghi come manchino i commenti di B. su questi libri. A questo si conformerebbe quanto abbiamo da B. (se è di B.) per i Primi Analitici: una raccolta di scolii, che coprono buona parte, ma non tutta l'opera. In questo caso, tranne un paio di note esplicative, B. non passò alla elaborazione del materiale.

Da simili fonti greche sembrano provenire anche le dottrine esposte nel De Divisione, nei Prolegomena, nel De CategoricisSyllogismis e nel De Hypotheticis Syllogismis, che potrebbero ben essere ampliamenti espositivi di succinti trattati o schemi accompagnanti i testi di Porfirio e d'Aristotele; i Prolegomena, termine forse latinizzato da qualche editore in Antedicta o Praedicta, da cui proverrebbe "Antepraedic[amen]ta", sono rielaborazione, per opera forse di B. stesso, della prima parte del De Categoricis Syllogismis forse porfiriano, (trattato introduttivo agli Analitici Primi). Ma, perduti gli originali greci, quei trattati rimasero per molto tempo i testi base per lo studio di quei problemi logici e filosofici. Ancora ad annotazioni greche ai Topici risalgono probabilmente alcune delle parti non aristoteliche e non ciceroniane del De Differentiis Topicis, in particolare lo schema dei loci temistiani; e di lì doveva derivare il materiale del commento perduto di B. ai Topici. Da fonti in parte latine (Vittorino aveva commentato la prima parte), in parte greche d'Aristotele ed altre viene il materiale fuso nel commento incompleto ai Topici di Cicerone. Di speciale importanza, perché le dottrine in essi esposte non trovavano parallelo in altre opere accessibili o d'Aristotele o d'altri, furono il De Divisione, dove si discutono vari tipi di classificazione di significati, e il De Hypotheticis Syllogismis, che, aggiunto a tratti del commento a Cicerone, tramandò la doppia tradizione, aristotelica e stoica, della teoria del ragionamento ipotetico.

Il primo libro e la prima parte del secondo del De Differentiis Topicis consistono principalmente di un'analisi e classificazione dei concetti di "propositio", "quaestio", "argumentum", "locus" (tipo di argomento - formulabile in una "maxima propositio" o in una od altra varietà, "differentia", di "maxima propositio" - con cui risolvere le "quaestiones" singole). Nel resto del secondo e del terzo si distinguono i loci, sia quelli usati in dialettica sia quelli usati in retorica, secondo le classificazioni di Temistio (note solo attraverso quest'opera di B.) e di Cicerone. Nel quarto si espongono le somiglianze e le differenze fra loci dialettici e loci retorici.

Nel De Divisione vengono distinti quattro tipi di divisione: del genere in specie, del tutto in parti, delle singole parole nei vari loro significati, dei caratteri accidentali secondo i "subiecta" cui ineriscono o viceversa o in rapporti reciproci. Dopo una discussione delle differenze tra genere e parola individuale ("vox"), tra genere e "totum", tra "vox" e "totum", vengono trattate particolarmente le divisioni di genere in specie (con discussione del criterio di "opposizione" fra le sezioni in cui il genere va diviso, e dei rapporti tra divisione e definizione), e di "vox" in significati; poco è detto della divisione di "totum", quasi nulla (se pure il De Divisione ci è giunto completo) della divisione di "accidens".

Nei commenti all'Isagoge fu di particolare importanza la soluzione, provenuta indirettamente da Alessandro d'Afrodisia, al problema sulla validità (realtà, veracità) dei generi e delle specie (più tardi gli "universali"): "haec similitudo, cum in singularibus est, fit sensibilis, cum in universalibus, fit intelligibilis; subsistunt ergo (genera et species) circa sensibilia, intelliguntur autem praeter corpora". Nei commenti al De Interpretatione, particolarmente nel secondo, è di speciale interesse la discussione del problema dei "futuri contingenti" in relazione alla libertà dell'arbitrio ed al caso, problema da B. ampiamente discusso anche nel De Consolatione Philosophiae.

Nei Prolegomena (Antepraedicamenta) e nella prima parte del De Categoricis Syllogismis vengono trattati argomenti analoghi a quelli trattati da Aristotele (e da B. nei commenti) nel De Interpretatione, quali le definizioni di "nome", "verbo" e "oratio"; si sviluppa ampiamente la trattazione dei rapporti fra proposizioni universali e particolari, affermative e negative, finite ed "infinite" (del tipo "non-homo est..."), e dei rapporti di convertibilità tra soggetto e predicato. Nella seconda parte del De Categoricis Syllogismis viene dato un sommario delle forme aristoteliche del sillogismo e delle regole per la riduzione delle varie forme fra loro.

Il De Hypotheticis Syllogismis, dopo una trattazione delle proposizioni ipotetiche e disgiuntive, comprendente una classificazione di "consequentiae" e un breve studio delle proposizioni modali, contiene un'esposizione sistematica di sillogismi della forma "se A (non) è, B (non) è; ma A (o B) è (non è); quindi B (o A) è (non è)", o di forme analoghe ma più complesse.

L. Minio-Paluello

L'attività di scrittore di B. inizia col progetto, esplicitamente enunciato nella lettera a Simmaco che fa da introduzione al Deinstitutione arithmetica, di esporre, sulla scorta di testi greci, le quattro discipline della mathesis - aritmetica, musica, geometria e astronomia - costituenti il quadrivium (termine testimoniato per la prima volta da B. e passato alle scuole medievali), cioè le quattro vie preparatorie allo studio della filosofia.

B. esordisce col De institutione arithmetica in due libri, che è anche la sua prima opera e che si possiede nella sua integrità; suo intento non è ovviamente quello di fornire un lavoro originale: si accontenterà di parafrasare un'opera oramai affermata e consacrata, l'Introduzione aritmetica di Nicomaco di Gerasa, pure in due libri, che, fra l'altro, era già stata tradotta da Apuleio. È B. stesso ad informarci sul metodo seguito in questa nuova opera di adattamento: pur professando la massima fedeltà al suo modello, si dice "paululum liberius evagatus" per aver ora compendiato ora ampliato la sua fonte. In realtà ad una attenta analisi comparativa tali ampliamenti si riducono, al più, all'aggiunta di qualche più dettagliata tavola esplicativa. Solo nel De institutione arithmetica, II, 33, leggiamo un corollario non dedotto direttamente da Nicomaco, ma presente in Giamblico (E. Pistelli, Iamblichi in Nicomachi arithmeticam introductionem Liber, Lipsiae 1894, p. 84, ll. 27 ss.): tutto lascia però pensare che tale corollario già comparisse, magari a mo' di scolio, nel testo nicomacheo utilizzato da Boezio. Nessun altro dei numerosi ampliamenti introdotti da Giamblico nella sua expositio dell'opera matematica del geraseno è infatti riscontrabile in Boezio.

Fra i numerosi argomenti trattati nell'opera ricorderemo le complesse speculazioni sui numeri pari e dispari, semplici o primi e composti, sulla riduzione dei numeri a figure geometriche, sui vari tipi di rapporti (aequales e inaequales distinti a loro volta in multiplices,superparticulares e superpartientes), sulle medie (aritmetica, geometrica ed armonica), ecc.

La seconda sezione del boeziano quadrivium è occupata dai cinque libri De institutione musica. Essi presuppongono logicamente e cronologicamente il De institutione arithmetica, cui fanno immediatamente seguito in molti manoscritti, ma ragioni di carattere stilistico spingono a collocare la composizione del trattato musicale in una fase notevolmente più avanzata dell'attività boeziana (McKinlay, pp. 123-156). Del resto anche una lettura cursoria dei due trattati è sufficiente a mettere in luce il nitore stilistico e la chiarezza espressiva del secondo rispetto al procedere artificioso, lambiccato e spesso quasi impacciato del primo. Col De institutionemusica ci si trova evidentemente di fronte ad un'opera notevolmente più matura, come risulta anche dalla maggiore disinvoltura nell'uso delle fonti, pur nei limiti di una compilazione.

L'opera non è giunta completa. Tutti i manoscritti di cui si abbia notizia si arrestano a metà del cap. 19 del libro V e terminano con le parole "in diatonicis generibus nusquam una" che lasciano una frase a mezzo.

Di questo quinto libro è però giunto per intero l'indice dei capitoli premesso nei manoscritti al libro stesso e che permette con molta approssimazione di ricostruirne il contenuto, o meglio assicura che nei capitoli successivi a quelli giunti sino a noi continuava la puntuale, pedissequa parafrasi del primo libro degli Harmonica di Claudio Tolemeo. Tuttavia le inesattezze e le ingenuità che gli indici dei vari libri contengono accertano che essi furono compilati in epoca posteriore a B. insieme o subito dopo la divisione in capitoli, dovuta verosimilmente ad uno scriba che aveva dinanzi l'opera completa. Il titolo di proemio dato all'attuale primo capitolo del I libro è, infatti, errato, poiché in realtà esso doveva estendersi fino a quello che presentemente costituisce il secondo capitolo; altrettanto errato è, nel libro IV, il titolo del terzo capitolo che sembra promettere un sistema di notazione fondato sulle lettere dell'alfabeto latino, mentre il capitolo contiene solo la versione latina dei nomi greci delle note musicali.

Che il quinto libro fosse l'ultimo dell'opera risulta con una certa evidenza dal proemio, dove B. dice di dover intraprendere la trattazione di ciò che resta perché l'intento dell'opera possa dirsi compiutamente realizzato.

Non contrasta con questa conclusione quanto si legge nel De institutione musica, I, 2, dove B. manifesta l'intento di trattare in un secondo momento anche della "musica mundana", dell'armoniosa corrispondenza cioè dei fenomeni celesti e naturali in genere e della "musica humana", che mirabilmente armonizza fra loro le varie parti dell'anima e del corpo dell'uomo. È evidente che in preannunci siffatti si cela la progettazione di opere diverse dal De institutione musica (presumibilmente il De institutione astronomica ed un'opera espressamente dedicata all'uomo), e ciò risulta dal fatto che verso la fine del capitolo B. circoscrive chiaramente nell'ambito della "musica quae in quibusdam constituta est instrumentis" l'argomento del suo trattato ("de hac igitur instrumentorum musica - della musica cioè in senso proprio - primo hoc opere disputandum videtur").

Il trattato boeziano ha carattere meramente dottrinale e speculativo e sarebbe vano cercare in esso la benché minima traccia di quella che era la pratica musicale del suo tempo. Per B. il vero "musicus" non è colui che esercita praticamente l'arte dei suoni mediante il canto o l'uso di qualche strumento, bensì chi si sforza di dare un'interpretazione razionale dei fatti musicali (I, 34), interpretazione che però non dev'essere fine a se stessa. La musica infatti, a differenza delle altre arti, unisce all'interesse speculativo un interesse squisitamente etico, dato l'influsso che essa può esercitare sull'animo e, di conseguenza, sul comportamento e sui costumi dell'uomo. Tale principio, enunciato nel proemio, sembra illuminare tutta l'opera di una luce nuova: la traduzione in termini matematici dei rapporti fra i suoni dovrebbe in sostanza provare che esiste una perfetta corrispondenza fra le proporzioni sulle quali è fondata l'arte dei suoni e quelle che informano la complessa natura fisica e spirituale dell'uomo (caratteristico, per esempio, l'accenno al carattere ritmico e, quindi, musicale del battito cardiaco). In realtà, se si eccettui qualche spunto isolato (si confronti l'esposizione del meccanismo delle sensazioni auditive in I, 14 e la dottrina psicologica delle consonanze in I, 30-31), tutta la trattazione si sviluppa in senso rigidamente matematico e l'impostazione iniziale data nel proemio sembra del tutto obliata.

In verità B., anche in questa seconda opera del suo quadrivium, si rivela pur sempre un compilatore, anche se non si limita più, come nel trattato aritmetico, a tradurre un'unica opera greca, ma ricorre a più d'una fonte e tenta anche qua e là - e in ciò è la riprova di una maggiore maturità - qualche personale, timida rielaborazione di spunti isolati.

Tutta una serie di probanti indizi concorre a far ritenere che alla base dei primi tre libri del De institutione musica vi fosse un'unica fonte identificabile, con quasi assoluta certezza, con un grosso trattato musicale dovuto a quel medesimo Nicomaco di Gerasa cui B. era già ricorso nella stesura del suo precedente trattato matematico.

Di Nicomaco di Gerasa si possiede, in realtà, un breve e sommario Manuale harmonicum (pubblicato da C. von Jan nei suoi Musici Scriptores Graeci, Lipsiae 1895, pp. 211-282), in cui egli preannunciava più volte di voler riprendere in un'opera in più libri i medesimi temi del manuale ed esprime altresì il proposito di non limitarsi più alla pura e semplice esposizione dei singoli argomenti, ma di fornire di ogni singolo punto una compiuta dimostrazione razionale, costruita, ovviamente, su basi matematiche. È ciò che accade appunto nel De institutione musica, dove ad un primo libro di carattere meramente espositivo seguono due libri che riprendono in esame i singoli punti trattati nel primo, fornendone ampie e circostanziate explicationes fondate sui numeri. Se a ciò si aggiunge che B. dichiara assai spesso esplicitamente di attingere a Nicomaco, che il primo libro del suo trattato musicale si configura come una redazione ampliata del Manuale nicomacheo, che estesi brani del secondo libro del trattato latino ricalcano ben definiti passi di Giamblico (sulla cui derivazione dal trattato musicale del geraseno non si ha ragione di dubitare), che infine almeno una testimonianza antica (Eutocio, Commentarii in Archimedislibros De sphaera et cylindro, II, 4, a cura di J. L. Heiberg, Lipsiae 1915, p. 120) conferma che Nicomaco condusse effettivamente a termine il suo opus maius sulla musica, la riprova che Nicomaco è la fonte diretta dei primi tre libri del De institutione musica può dirsi pienamente raggiunta.

Del tutto accidentale e marginale andrà pertanto considerato il ricorso da parte di B. all'opera del musicologo latino Albino citato in I, 12 ed in I, 26: lo dimostrano, se non altro, le parole con le quali si conclude il secondo dei due luoghi citati: "sed nobis in alieno opere non erit immorandum". Né molta importanza ha la comparsa nel proemio - ma solo nel proemio - di citazioni tratte da autori latini (Cicerone, Papinio Stazio): il carattere tutto peculiare della parte introduttiva di questo non meno di qualsiasi altro trattato erudito, anche se di tipo strettamente compilatorio, autorizza e giustifica l'eccezionale ricorso a fonti letterarie diverse da quella di base adottata. Il primo libro, di trentaquattro capitoli, contiene quasi esclusivamente definizioni di concetti essenziali (suoni, intervallo, consonanza, dissonanza, "synaphe", "diazeuxis") ed enunciazioni di principi di carattere generale. Un posto a parte meritano i capitoli dedicati al noto episodio delle incudini che avrebbero fatto scoprire a Pitagora le leggi matematiche regolanti i rapporti fra i suoni (capp. 10-11), al calzante paragone fra il fenomeno sonoro e le onde di uno stagno colpito da una pietra (cap. 14), alla storia dell'evoluzione della lira dall'originario tetracordo al cosiddetto sistema perfetto.

In fedele conformità al metodo pitagorico esposto al cap. 33, metodo secondo il quale l'esposizione dogmatica dei fatti, nella fattispecie quelli musicali, deve precedere la loro ordinata giustificazione razionale, nei due libri successivi al primo si passa alla approfondita e puntuale dimostrazione matematica di quanto precedentemente esposto. I primi diciassette capitoli del secondo libro costituiscono una vera e propria Introductio mathematica: in essa troviamo enunciata e dimostrata tutta una serie di proposizioni matematiche utili ad una più compiuta comprensione dell'interpretazione dei fatti musicali, che occupa la seconda parte del libro interamente dedicata all'analisi della struttura matematica dei vari tipi di consonanza.

Notevolmente più breve (comprendente solo sedici capitoli), ma assai più complesso nella sostanza, il terzo libro. In polemica col sistema temperato di Aristosseno, che sosteneva la divisibilità del tono in due sentitoni perfettamente uguali, viene ribadita la tesi pitagorica che contrapponeva un "semitonium minus" ad un "semitonium maius" e vengono introdotti i complessi concetti di comma e di apotome.

Se nei primi tre libri B. si è limitato a riprodurre - salvo le marginali eccezioni di cui s'è detto - un'unica fonte greca, ben diversa si presenta la situazione per il quarto libro, il più problematico e il più discutibile dell'intera opera. Già nel sec. IX Ermanno Contratto (Opuscula musica, in M. Gerbert, Scriptores ecclesiastici de musica sacra, II, S. Blasii in Silva Nigra 1784, p. 143) aveva rilevato in De inst. mus. IV, 14 una imperdonabile confusione fra tritono e quinta giusta. Inoltre agli ultimi capitoli di questo medesimo libro viene di regola imputata la plurisecolare confusione fra modi e tropi. Si aggiungano altri patenti errori e fraintendimenti che contrastano con la impeccabile coerenza logica dei libri precedenti. Ci troviamo evidentemente di fronte al tentativo non sempre riuscito di amalgamare fra loro fonti diverse.

Nella prima parte del libro è analizzato un procedimento caro a molti musicologi greci, quello della cosiddetta sectio canonis, la divisione cioè di una corda musicale a tensione costante in tanti segmenti di lunghezza diseguale realizzanti fra loro proporzioni tali che ciascuno di essi, se fatto risuonare, emetta uno dei suoni costitutivi del sistema perfetto. Ma anche nella trattazione di questo tema unitario B. è palesemente ricorso a fonti diverse. Ai due capitoletti introduttivi, esemplati sui primi otto paragrafi della sectio canonis di Euclide, fa seguito una sorta di excursus enucleante i simboli letterari del sistema greco di notazione limitatamente al tono lidio e distribuiti nei tre generi diatonico, cromatico ed enarmonico. La fonte non è più Euclide: i numerosi riscontri che l'excursus offre con la Harmonica introductio di Gaudenzio e l'introduzione in questa parte, e solo in questa parte, dell'opera boeziana dei nomi latini delle note musicali inducono a pensare che B. sia qui ricorso alla versione latina dell'opera di Gaudenzio dovuta a un certo Muciano e menzionata da Cassiodoro nelle sue Institutiones. Al singolare excursus tien dietro la sectio canonis vera e propria, ricca di diagrammi e di schemi illustrativi. Che in questa parte B. abbia del tutto abbandonato il menzionato opuscolo euclideo già risulta dal diverso procedimento seguito nel determinare i segmenti di corda corrispondenti ai suoni del genere diatonico. La divergenza diviene, però, incolmabile quando si passa ai generi cromatico ed enarmonico. Qui B. non solo sembra del tutto obliare la proclamata indivisibilità del tono in due semitoni perfettamente uguali, ma confonde il concetto di rapporto con quello di differenza e ci fornisce dei diagrammi inaccettabili e non riscontrabili in nessun altro testo musicologico d'età antica.

La confusione aumenta negli ultimi sei capitoli del libro, dove la trattazione della teoria dei modi, tratta dal secondo libro degli Harmonica di Claudio Tolemeo, è viziata da tutta una serie di palesi quanto insanabili contraddizioni e fraintendimenti del testo greco.

Il quinto libro non presenta grossi problemi. Come s'è già detto esso è una fedele parafrasi del primo libro della citata opera di Tolemeo, parafrasi che continuava anche nella parte perduta, come risulta dall'indice dei capitoli premesso al libro. Non ci sembra infine da passare sotto silenzio il tentativo di B. di dissimulare questa sua fedeltà ad un solo modello mediante l'affermazione (cap. I) ch'egli tratterà dei punti di discordanza fra gli antichi musicologi, quasi che ne abbia direttamente compulsato gli scritti, mentre in realtà non fa che esporre la polemica di Tolemeo contro Aristosseno ed altri teorici pitagorici sugli intervalli, sulla consonanza e sulla struttura dei tetracordi.

Pure, il De institutione musica resta ancora per noi un significativo documento di un modo di intendere la cultura ed una fonte preziosa di dati per la ricostruzione delle teorie musicali degli antichi.

Frutto della grande fortuna toccata al trattato di B., durante tutto il Medioevo, è la cospicua massa di scolii che ancora si leggono in molti manoscritti, alcuni dei quali dovuti a personalità eminenti quali il celebre Gerberto d'Aurillac (il futuro Silvestro II). Di essi tuttavia non esiste ancora un'edizione sistematica.

Quelli di Gerberto furono pubblicati dal Bubnov fra le opere matematiche del grande erudito medievale. Una glossa isolata fu pure pubblicata da R. Bragard, L'Harmonie des sphères selon B., in Speculum, IV (1929), pp. 206-213. Il Pizzani, infine, ha identificato nella cosiddetta Musica theorica, pubblicata dallo Herwagen fra le opere del Venerabile Beda nel 1563 a Basilea, null'altro che una massa di scolii al De institutione musica, molti dei quali rintracciabili in margine a manoscritti che tuttora si possiedono (Uno pseudo-trattatodello pseudo-Beda, in Maia, n.s., IX [1957], pp. 36-48).

Quanto all'influsso esercitato dal De institutione musica sulla trattatistica medievale, esso fu decisamente grandissimo. Una rapida scorsa agli indices delle fondamentali collezioni degli scritti dei musicologi medievali del Gerbert, del Coussemaker e del Waesberghe è sufficiente a fornircene una eloquente, inequivocabile riprova.

Col De institutione musica termina la parte giunta fino a noi del boeziano Quadrivium. Si hanno però sicure prove che B. condusse effettivamente a termine il piano prospettato nella menzionata lettera a Simmaco introduttiva al De instit. arithm. La prima di tali prove è fornita da un passo (già sopra citato) della nota lettera indirizzata dal re Teodorico a B. e conservata da Cassiodoro (Variae, I, 45, 4), dal qual passo si ricava non solo che B. compose effettivamente un trattato geometrico ed uno astronomico, ma anche che fonte del primo furono gli Elementi di Euclide e che per il secondo fu utilizzata l'opera astronomica di Tolemeo (limitatamente al trattato geometrico, vedi anche Cassiodoro, Inst., II, VI, 3: "Euclidem translatum in Romanam linguam idem vir magnificus Boetius dedit").

Oggi gli studiosi sono concordi nel ritenere non autentica la Geometria in due libri trasmessaci sotto il nome di B. da tutta una serie di manoscritti, dei quali il più antico (Erlang. 288) risale al sec. XI, e pubblicata dal Friedlein in appendice alla sua edizione teubneriana (1867) dell'opera matematica e musicale di Boezio. La presenza in essa dei numeri arabi e di un abaco fa pensare ad una falsificazione non anteriore al sec. XI, anche se nell'operetta dovettero confluire, alterati e deturpati da patenti errori, tratti dell'opera autentica. Frammenti autentici della versione boeziana degli Elementi di Euclide sono stati invece identificati nel terzo e nel quarto libro dell'Ars geometriae et arithmeticae in cinque libri trasmessaci, pure sotto il nome di B., da manoscritti dei secc. X-XIV e contenente nei libri I e V del materiale gromatico e nel IV dei semplici excerpta dal boeziano De institutione arithmetica. Alla Geometria di B., che comprendeva almeno la versione dei primi cinque libri di Euclide se non l'intera opera, attinsero a piene mani Cassiodoro e i gromatici del Medioevo.

Da una lettera del 983 (Gerberti Epist., 8, ediz. Bubnov, pp. 99 ss.) risulterebbe che in quell'anno esistevano in Mantova "VIII volumina Boetii de astrologia praeclarissima quoque figurarum geometriae, aliaque non minus admiranda". Un'altra riprova che B. condusse effettivamente a termine anche l'opera astronomica è ricavata dal Courcelle (Les lettres grecques..., p. 263, n. 1) dalla Cons., II, 7 dove l'autore nel rimandare a un passo astronomico di Tolemeo (Synt. mag., II, 1, ediz. Heiberg, p. 88, 3) usa un'espressione ("Ptolemaeo probante didicisti") analoga a quella usata in Cons., III, 12 ("cum Platone sanciente didiceris") per rimandare ad un suo precedente commentario.

U. Pizzani

La Consolatio Philosophiae fu scritta da B. mentre era prigioniero di Teodorico, in residenza forzata, lontano dalla sua biblioteca, come una sorta di testamento filosofico e spirituale.

Essa, dunque, si differenzia di molto dalle Consolazioni tradizionali. In primo luogo, per la forma immaginaria. Una donna appare a B. e lo consola, non della morte prossima, ma della vita; poiché il suo rovescio di fortuna appariva a B. prigioniero il segno che il male regna nel mondo. L'opera di consolazione consisterà dunque nel dimostrare come questo male apparente non contraddice l'esistenza di un dio provvidenziale. Questa Consolatio è in primo luogo un protreptico, ossia una esortazione alla divinità, ma la messa in scena richiama le apocalissi gnostiche, quali il Poimandres ermetico, in cui un personaggio di statura sovrumana appare all'improvviso e fa una rivelazione sui segreti divini. B., da parte sua, ha cura di precisare che l'apparizione è "ambigua": la donna è di statura mutevole: ora tocca il cielo, ora si riduce alla misura umana; ella appare antica, ma ha contemporaneamente un'aria di giovinezza; la sua veste è lacerata, ma gli occhi sono ardenti. Questo personaggio allegorico rappresenta in realtà la ragione umana, capace di condurre, per gradi, dalla filosofia pratica, politica (ella porta, difatti, uno scettro), alla contemplazione (così, con la sinistra ella regge libri, che simboleggiano il contenuto del suo messaggio sull'aldilà).

Questa messa in scena richiama da vicino altre opere letterarie della tarda latinità: anche nel De Nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella il messaggio è rivelato, secondo le leggi della "satura" antica, in forma di alternanza di prosa e versi, e riguarda le discipline liberali. Nelle Mitologiae di Fulgenzio, vicine cronologicamente alla Consolatio, la rivelazione è compito di Calliope che desidera insegnare il vero significato dei miti e consiglia a Fulgenzio di seguire Filosofia e Urania che, ella dice, lo eleveranno al cielo facendogli conoscere le ragioni mistiche di Platone. Anche in B. Filosofia è in rapporto con le Muse: conformemente al precetto della Repubblica di Platone (548b e 607b) ella apostrofa come Sirene e discaccia le Muse poetiche, ma viene scortata dalle Muse filosofiche.

Questa allegoria del personaggio di Filosofia, accostata a partire dal sec. IX a quella di Marziano Capella riguardante le arti liberali, ha goduto di notevole fortuna. La si ritrova in autori di ogni genere. Alcuni ne conservano solo l'immagine o l'idea della scala di gradi che conducono dalla filosofia pratica a quella teoretica; altri presentano il loro insegnamento sotto forma di rivelazione compiuta da una donna, facilmente riconoscibile come ricalcata sulla Filosofia di B., ma di volta in volta con qualche tratto nuovo. Per esempio Gualtiero di Spira nel suo Libellus scholasticus, sviluppando i passaggi in cui Filosofia dice B. nutrito del suo latte, la dipinge in atto di allattare tre figlie - allusione alla divisione tripartita della filosofia - accompagnate a loro volta da sei sorelle che sono presumibilmente le arti liberali meno la dialettica: poiché la filosofia è talora identificata, a quell'epoca, con la sola dialettica. Bernardo Silvestre nel De mundi universitate sostituisce Filosofia con Physis, che siede fra le due figliole Theorica e Practica. Adelardo di Bath immagina una controversia fra Filosofia e Filocosmia; la prima è accompagnata da sette vergini, che pur essendo distinte si presentano alla vista in tale combinazione da formare un unico insieme, poiché le arti liberali si compenetrano strettamente; la seconda equivale al personaggio boeziano di Fortuna, e le cinque ancelle che la scortano simbolizzano i beni eterocliti di Fortuna. Pietro di Compostella, nel suo De consolatione rationis, e Abelardo interpretano rettamente la Filosofia di B. come rappresentante la ragione; in Pietro di Compostella ella non ha più che tre figlie, corrispondenti alle tre arti del trivio: grammatica, retorica, dialettica. Alano di Lilla nel De Planctu Naturae sostituisce Natura al personaggio boeziano di Filosofia; nell'Anticlaudianus lo sdoppia in due donne: Prudenza, che corrisponde alla ragione pratica, e Teologia, che corrisponde alla filosofia contemplativa; ed ha cura di subordinare la prima alla seconda. Nel sec. XIV Dante si ricorderà ancora di "questa donna gentilissima Philosophia", che qualifica come figlia di Dio, mentre Giovanni di Dambach redigerà, sul modello della Consolatio Philosophiae, una Consolatio Theologiae.

B. ha inoltre profondamente modificato l'iconografia della Fortuna quale la mostrano i testi e i monumenti antichi. La dea Tiche ha acquistato importanza all'epoca ellenistica - a detrimento di Giove e degli dei dell'Olimpo - in ragione degli sconvolgimenti politici conseguenti alla morte di Alessandro Magno. La si rappresenta allora ritta su una sfera, o con il piede su una ruota, simbolo della sua instabilità. I retori e filosofi di epoca imperiale amano identificare questa divinità con Nemesi, dea vendicatrice, e spiegano che la ruota indica la vicenda dei mortali, cioè la caduta dell'anima nel mondo della generazione e il ciclo dei tempi e delle metensomatosi. Fra i Latini, Pacuvio, Cicerone, Tibullo, Orazio, e più tardi Frontone e Ammiano Marcellino, amano rappresentare Fortuna sulla sua ruota. Ma l'immagine tende talvolta a cambiare, all'epoca imperiale, come se Fortuna, anziché ruotare lei stessa coinvolgendo gli altri nel suo moto, giocasse deliberatamente a far ruotare gli altri. Seneca nelle sue tragedie, poi Ausonio la immaginano nell'atto di rovesciare i re ai piedi del loro trono. Claudiano, per celebrare la disfatta di Alarico a Pollenza, descrive Fortuna che gira la sua ruota con malevolenza per precipitare nell'abisso i Visigoti, saccheggiatori dei tesori greci e romani. B. conferisce a questa nuova iconografia tutta la sua orchestrazione. Egli ci mostra Fortuna che mette in moto la sua ruota, e l'uomo che cerca invano di arrestare quel moto. Il gioco di Fortuna consiste, secondo lui, nel volgere continuamente la sua ruota per provocare catastrofi.

Grazie alla Consolazione, questa immagine si sostituì alle rappresentazioni antiche sia nei testi che nell'iconografia medievale. Nel sec. XII Onorio d'Augustodunum fa riferimento a B. quando menziona i filosofi che descrivono Fortuna e la sua ruota. Ottone di Frisinga dichiara che la caratteristica del saggio è di non lasciarsi travolgere da questa ruota. Arrigo da Settimello, nel suo De diversitate Fortunae et Philosophiae consolatione - il cui titolo è tutto un programma -, descrive l'apparizione di Phronesis (termine mutuato da Marziano Capella) sul modello dell'apparizione di Filosofia a Boezio; anch'egli conferisce a Fortuna una prosopopea, rappresentandone la ruota come quella di un mulino ad acqua che macina i poveri esseri umani. Diversi autori tedeschi, francesi e italiani fino al sec. XV, compresi i più illustri (Adam le Bossu, Jean de Meung, Christine de Pisan, Boccaccio, Petrarca) riprendono questa immagine.

In effetti, il testo della Consolatio era spesso accompagnato, nei manoscritti, da una illustrazione rappresentante, sia sul frontespizio, sia all'inizio del II libro, la ruota di Fortuna. Lo schema si ritrova a partire dal sec. XI in un manoscritto di Monte Cassino: una ruota gira da sinistra a destra, con quattro personaggi attaccati, o che si attaccano, ad essa: a sinistra, un giovane è trascinato verso l'alto; alla sommità, è divenuto re; a destra, precipita perdendo la corona; in basso, è nudo, cioè morto. Attraverso il Glossario di Salomone di Costanza e un manoscritto di Heiligenkreuz, si può seguire il primo emergere e formarsi di questa iconografia. Alcuni si richiamano, in rapporto alla ruota, alla improvvisa catastrofe di Creso menzionata da Boezio. Altri dipingono la dea malefica come una folle. Fortuna mette la ruota in moto talvolta appoggiandosi con le due mani ai raggi, talvolta girando una manovella; i più inventivi collegano la volubilità della ruota alle immagini del mare incostante e delle Sirene; i più maldestri hanno tentato di dipingere in una sola immagine questa ruota ed i beni di Fortuna descritti da B. all'inizio del III libro: per esempio, dispongono sulla ruota diversi personaggi che corrispondono ai diversi stati di vita e alle diverse condizioni sociali. Altri ancora preferiscono sdoppiare la scena e dipingono la ruota all'inizio del II libro, i beni di Fortuna all'inizio del III. Per rappresentare la duplicità di Fortuna, la si dipinge con un abito per metà scuro, per metà splendente. O, ancora, si mettono a riscontro una famiglia indigente ed una famiglia ricca; poi si rappresenta un signore potente e dissoluto, con tutti i suoi tesori messi in mostra; infine, in una terza immagine, gli uomini delle diverse condizioni sociali si ritrovano subitamente uguali nella morte.

Mentre il I libro della Consolatio aveva soprattutto la funzione di stabilire un legame fra le circostanze storiche della sua redazione e l'allegoria di Filosofia, i libri successivi rispettano un piano di portata nettamente dottrinale. Tale piano è esposto nel I libro, alla prosa VI: "È perché sei confuso dall'oblio di te stesso, che ti sei lamentato di essere esiliato e spogliato dei tuoi beni; è perché ignori quale sia il fine delle cose, che ritieni potenti e felici gli uomini empi e sacrileghi; è perché hai dimenticato quale timone governa il mondo, che tu credi che le vicissitudini di Fortuna ondeggino senza direzione". Si tratta dunque di una duplice conversione in tre tappe: presa di coscienza di sé medesimo in opposizione ai beni esteriori apportati da Fortuna (libro II); conoscenza del fine supremo e del Sommo Bene (libro III-IV, prosa 5); conoscenza delle leggi che reggono il mondo (fine del libro IV e libro V). Tutta la trattazione su Fortuna ha per scopo principale di invitare l'uomo a distinguersi dai beni esteriori, anche se il tema attraversa tutta l'opera, dall'inizio del I libro, dove B. lamenta il suo rovescio di fortuna, fino al V libro, dove è trattato il problema filosofico del caso.

La Quellenforschung del sec. XIX concepiva l'opera di B. come un semplice plagio di più opere successive, e la smembrava in "sezioni" corrispondenti. L'Usener proponeva il Protreptico di Aristotele come fonte unica a partire dal II libro, prosa 4, fino al IV libro, prosa 6, almeno attraverso la mediazione dell'Hortensius. Il Rand attaccò questa tesi mostrando che l'imitazione di B. non era servile fino a tal punto, e che all'interno di questa trattazione si incontravano spunti originali e idee romane. Il Müller restrinse l'estensione dei passaggi mutuati da Aristotele dal libro II, prosa 5, al libro III, prosa 8; ciò che precede sarebbe mutuato dalla Consolatio ad Apollonium, apocrifo di Plutarco, e quello che segue da Platone. Il Klingner invece vede nel II libro una diatriba cinico-stoica e nel III libro un pezzo platonico nell'ispirazione e nello stile. Ai nostri giorni tuttavia, in seguito agli studi su Aristotele giovane, L. Alfonsi ritorna, seguendo l'Usener, all'idea di un'influenza preponderante della tradizione protreptica su tutta la Consolatio. Ma la maggioranza degli studiosi è d'accordo nel ritenere che i libri IV e V siano profondamente impregnati di influenza platonica.

A ben vedere, B. è invece molto più originale di quanto non si sia ritenuto; non è legittimo tagliare, nella sua opera, "sezioni" eterogenee, anche se vi sono delle svolte nel suo pensiero. Se si mette da parte ciò che è ricordo autobiografico, o al contrario finzione letteraria (i due personaggi allegorici di Filosofia e Fortuna), il suo pensiero è nell'insieme di origine platonica, e più precisamente neoplatonica, il che non esclude minimamente l'inserirsi in questa trama di metafore cinico-stoiche (per esempio, nelle trattazioni su Fortuna, quelle dell'ancora e dell'uncino); queste metafore, d'altronde, possono essere pervenute a B. mediante i declamatori.

Fra i discorsi sui falsi beni di Fortuna, un caso tipico è costituito dal discorso sulla gloria, che a lungo si è ritenuto derivato dall'Hortensius perché non coincide esattamente con quello del Somnium Scipionis. Ma tutto si chiarisce se si tien conto del fatto che B. ha letto il Somnium Scipionis nell'esemplare riveduto dal suocero Simmaco e accompagnato dai Commentari di Macrobio: B. segue esattamente l'interpretazione del passo ciceroniano, da parte del neoplatonico Macrobio. Anche se egli scriveva lontano dalla sua biblioteca, bisogna ammettere, tanto la derivazione è letterale e continua, che nella sua residenza forzata - che non rassomigliava certo ad una cella di prigione - B. avesse a propria disposizione alcuni libri che gli erano molto cari; e si servì non soltanto di questo, ma anche di diversi dei suoi commentari logici su Aristotele. È anche probabile che avesse sotto mano un corpus plutarcheum, forse sotto forma di estratti, da cui deriva un detto del filosofo Giulio Canio falsamente accusato da Caligola. Questo detto non è noto da nessun altro testo, ma un frammento riportato da Giorgio Sincello ci fa sapere che in un protreptico, attribuito a torto o a ragione a Plutarco, si leggeva una frase sull'immortalità dell'anima pronunciata da questo filosofo al momento della sua uccisione.

Per quanto riguarda il III libro, il Klingner ha molto insistito sul suo carattere propriamente socratico, in opposizione al II libro che egli ritiene stoico. Ma questo carattere socratico consiste soprattutto nella forma dialogata, e il Müller ha giustamente mostrato che B. espone a più riprese le sue concezioni platonizzanti per mezzo della dialettica aristotelica, quale l'aveva applicata nel suo commentario all'Isagoge di Porfirio e al De interpretatione. Il culmine di questo III libro è la preghiera del canto 9 che riassume il Timeo secondo Proclo, come il Klingner e il Theiler hanno giustamente mostrato; le tre parti di questo inno corrispondono alle tre tappe della "conversione" neoplatonica culminante nel ritorno a Dio. Non vi è alcun motivo per riportare questa interpretazione a Calcidio o al commentario di Porfirio sul Timeo, come fa il Sulowski. Al contrario, vi è ragione di credere che B. ha seguito Proclo anche se non direttamente. In ogni caso, a giudicare dal bagaglio dei versi che B. cita in greco, ci si accorge che questi versi di Omero o di Parmenide o degli Oracoli Caldei erano frequentemente citati nell'ambito della scuola di Proclo, in particolare da Ammonio. Alcuni discorsi della Consolatio sul Sommo Bene hanno fatto pensare ai Dialogi di Agostino a Cassiciaco; ma si tratta in tal caso non di derivazione diretta di B. da Agostino, ma di una fonte comune, ciceroniana o neoplatonica, per quanto riguarda l'unità fondamentale di ogni essere. Così anche per ciò che concerne il male; se è vero che lo sviluppo dell'argomentazione segue molto da vicino il movimento di pensiero del Gorgia di Platone, alcuni particolari derivano da un commentatore anteriore a Olimpiodoro. Così tutta la parte sul Sommo Bene e il male segue successivamente il Timeo e il Gorgia attraverso l'interpretazione di Proclo e probabilmente di Ammonio.

L'ultima parte della Consolatio tratta tre problemi principali: provvidenza e destino, prescienza e libero arbitrio, perpetuità del mondo. Secondo l'esposizione di Filosofia, la Provvidenza è l'atto semplice mediante il quale la divinità abbraccia d'un solo sguardo l'infinità degli esseri, fuori dallo spazio e dal tempo: il destino, al contrario, dipende dalla Provvidenza e regola nei particolari tutto ciò che si muove attraverso lo spazio e il tempo; è un semplice agente esecutivo, ma alcuni esseri "fissati in maniera stabile nei pressi della divinità prima, sorpassano l'ordine di ciò che è mosso dal destino". Sugli agenti della Provvidenza, possibilità di ogni sorta sono evocate da B.: gli spiriti divini, l'anima del mondo, i movimenti degli astri nel cielo, l'azione degli angeli, l'industria dei demoni possono montare la catena del destino. Anche qui il pensiero segue da vicino le concezioni espresse da Proclo nei suoi trattati De Providentia et fato, De decem dubitationibus circa Providentiam,De malorum subsistentia. La metafora con cui B. dice che, più un essere si allontana dall'intelletto primo, più si trova catturato nei lacci del destino, così come una circonferenza tanto più si avvicina all'indivisibilità quanto più è prossima al punto centrale, non proviene da Plotino, come è stato detto, ma si ritrova tale e quale nel De decem dubitationibus di Proclo.

Per ciò che riguarda la prescienza e il libero arbitrio, B. tratta questo problema non sotto l'aspetto morale, ma essenzialmente sotto l'aspetto logico, nel quadro delle esposizioni di Aristotele sul necessario e il contingente. L'antinomia apparente è risolta mediante la distinzione che Filosofia pone fra due tipi di necessità. Questo era appunto il soggetto della terza parte del commentario di B. sul De interpretatione di Aristotele, nella sua seconda edizione: la definizione del caso e l'esempio dell'uomo che trova un vaso d'oro senza averlo cercato; la distinzione fra due ordini di necessità: il Sole che sorge e l'uomo che cammina: nel momento in cui questi fatti si producono, essi non possono non aver luogo; tuttavia, l'uomo agisce liberamente, il Sole no. Tutto il ragionamento è parzialmente anche nel commentario di Ammonio De interpretatione.

Infine, il terzo problema affrontato, ma trattato sotto forma di digressione, è quello della perpetuità del mondo. B. si adopera a distinguere l'eternità divina dall'infinitezza temporale. La prima è il possesso totale di una vita senza limite; ben altrimenti per le cose temporali; così, a torto certi filosofi. quando sentono dire che, secondo Platone, questo mondo non ha inizio nel tempo e non avrà fine, pensano che questo sia rendere il mondo coeterno alla divinità: "Dunque, se vogliamo usare parole convenienti al loro oggetto, diremo con Platone che dio è eterno ma che il mondo è perpetuo". Questa distinzione è nuova nella letteratura latina, poiché Calcidio e Macrobio usavano come sinonimi le parole eternità e perpetuità. Lo stesso B., nei suoi primi trattati, aveva una terminologia oscillante. Proclo distingueva già esplicitamente tra l'eternità e la durata continua nel tempo. Sembra che B. abbia ancora un intermediario rispetto a Proclo, molto probabilmente un commentario alla Fisica di Aristotele. Ora, il cristiano Zaccaria di Mitilene ci fa sapere di aver provocato una controversia alle lezioni di Ammonio, nel 486, mentre questi spiegava la Fisica di Aristotele. Ammonio, seguendo Proclo, sosteneva contro i cristiani la tesi della perpetuità del mondo. Zaccaria, in nome del cristianesimo, si oppose a questa tesi. I Commentarii di Simplicio, discepolo di Ammonio, trattano proprio del passo della Fisica in cui Aristotele critica Platone per aver scritto che il cielo e il mondo erano generati; Simplicio si sforza di dimostrare che Aristotele e Platone, se differiscono nei termini, sono in fondo d'accordo nel pensare che il mondo ha un principio di causa, non un principio di tempo; egli sostiene a sua volta la distinzione fra eternità e perpetuità. B., come Ammonio e Simplicio, insorge contro coloro che accusano i seguaci di questa teoria di fare il mondo coeterno a Dio. Così il V libro della Consolatio sembra ispirarsi interamente ai commenti di Ammonio al De interpretatione e alla Fisica; potrebbe invece ricordare il cristiano Calcidio la tesi della creazione ex nihilo.

L'audacia di vedute della Consolatio ha fatto sì che gli eruditi moderni, intorno all'anno 1860, si accordassero nel giudicare B. pagano, rifiutando di conseguenza come apocrifi i suoi opuscoli teologici. Ma l'Anecdoton Holderi, che - come si è visto più sopra - assicura l'autenticità degli opuscoli teologici di B., rovesciò nel 1877 l'opinione accreditata. Dopo di che, gli eruditi del sec. XX hanno seguito la tendenza a scrutare nella Consolatio gli elementi cristiani (citazioni scritturali, per esempio); alcuni anche, come R. Carton e E. T. Silk, hanno creduto di scoprire in B. un agostiniano.

In effetti, questo problema del cristianesimo di B. è un problema secolare, che fu oggetto di infinite controversie nelle scuole medievali, come risulta dall'esame delle citazioni da parte degli autori letterari, e soprattutto dai numerosi commenti. Questi commenti vertono ora sull'insieme dei cinque libri, ora sul solo canto 9 del III libro, la preghiera derivante dal Timeo. Troviamo così dodici commentari carolingi nei secc. IX e X; nessuno nel sec. XI, periodo in cui ci si limita a copiare la Consolatio senza commentarla; di nuovo, quattro commenti nel sec. XII, ricchi di sostanza poiché siamo all'epoca della rinascenza del platonismo; nel sec. XIII, quando la voga passa all'aristotelismo, nessuno commenta la Consolatio; ma nei secc. XIV e XV appaiono una quindicina di commentari: sono ormai opere molto prolisse ma scolastiche e senza vigore filosofico.

All'origine del successo della Consolatio bisogna porre il prologo (intitolato talvolta Disputatio de vera philosophia) redatto da Alcuino per i suoi trattati sulle discipline, prima dell'anno 800. Alcuino trae dalla Consolatio l'essenziale della sua dottrina sull'aiuto morale che procura la Filosofia e sul valore intrinseco delle discipline che conducono alla contemplazione. Seguendo B., egli ritiene necessaria per il discepolo una purificazione preliminare, di modo che non cerchi l'istruzione ai fini di acquistare la gloria o gli altri beni di Fortuna: la Consolatio insegna altresì al maestro a graduare il suo insegnamento.

Ma per Alcuino il personaggio boeziano di Filosofia non è la ragione umana, ma la sapienza di Dio personificata. Questa interpretazione assicurò il successo della Consolatio nei secoli successivi, non solamente per i gradi delle discipline, ma per l'interpretazione cristianizzante. A partire dal sec. IX, Ubaldo di St. Amand, sotto l'influenza diretta dell'interpretazione di Alcuino, copia il capitolo in cui B. dipingeva l'apparizione di Filosofia, ma applica questo capitolo all'apparizione di Dio a s. Lebuino. Remigio d'Auxerre scrive il primo commento completo alla Consolatio; egli tira ad un senso cristiano, spesso senza sfumature e senza ritegno, delle concezioni puramente platoniche, e accoglie, sotto l'influenza dell'eriugenismo, dottrine nettamente contrarie all'ortodossia. Non si esita, a prezzo di cento controsensi, ad attenuare il pensiero di B. che avrebbe usato, si pretende, il linguaggio platonico sia a modo di artificio poetico sia per esprimere in termini filosofici un pensiero fondamentalmente cristiano; questo tipo di soluzione equivoca, così apprezzata nelle scuole, presenta molte difficoltà, anche ad Arnoul Greban nel sec. XV.

Gli illustratori contribuiscono ad accreditare questa interpretazione cristianizzante, rappresentando volentieri B. come un personaggio celestiale, o ancora in una prigione a colloquio con Filosofia, che essi vedono come una figura di statura sovrumana, toccante il cielo, direttamente ispirata sia da Sapienza sia dal Cristo. Oppure si fa di Filosofia la regina delle arti liberali che la circondano. Ben inteso la divinità a cui B. e Filosofia rivolgono la loro preghiera non è il demiurgo di Platone, anche se il canto 9 è tutto platonizzante, ma o il Padre eterno, o il Cristo, o la Trinità. Solo alcuni artisti, innamorati di umanesimo antico dipingono, per questo canto 9, B. e Filosofia in riva alla Fonte del Bene, e altrove l'ascesa platonica dell'anima, o anche l'inferno pagano o una scena di metensomatosi.

L'anonimo del Bruxellensis si spinge più oltre di Remigio nella via eriugeniana, al punto che lo scopritore di questo commento lo credette dapprima dello stesso Giovanni Scoto. Né più prudente è Adalboldo d'Utrecht, verso l'anno 1000. Nel sec. XII Guglielmo di Conches si dimostra di un'incredibile arditezza nelle sue opinioni sulla natura e sull'anima del mondo; egli trae dal cristianesimo della Consolatio argomenti per coprire le sue teorie più originali e più audaci.

Un tale entusiasmo suscita reazioni e diffidenze nei riguardi di Platone e nei riguardi di B., nonostante la sua reputazione di martire della vera fede. A partire dal sec. XI, l'anonimo del Sangallensis si mostra ben lucido sui passi della Consolatio sospetti di platonismo. Nel secolo X Bovo II di Corvey denuncia in termini veementi il veleno che questi passaggi nascondono. Più tardi, l'anonimo del Vat. lat. 919, poi Dionigi il Certosino, si pongono sulla stessa linea. Rari sono i commentatori che si limitano a sottolineare i prestiti da Platone astenendosi dall'approvare o dal condannare (anonimi dell'Einsiedlensis 302 e del Monacensis 14689).

Come in definitiva chiarire l'enigma che il "caso psicologico" di B. rappresenta? Se è certamente per abuso che gli sono state attribuite dottrine cristiane, quali, per esempio, quella del purgatorio, non vi è d'altra parte motivo alcuno di trarre dalla Consolatio argomenti per negare che egli fosse cristiano.

P. Courcelle

Fonti e Bibl.: Le fonti cui ricorrere per la vita di B. sono, tra quelle contemporanee: M. F. Ennodii Opera, a cura di F. Vogel, in Mon. Germ. Histor., Auct. Antiquiss., VII, Berolini 1885, pp. 217 s. (Epist. VI, 6), 236 (Epist. VII, 13), 268, 286, 288, 289-291 (Epist. VIII, 1, 31, 36, 37, 40), 310 ss. (opusc. 6: Paraenesis didascalica), forse p. 238 n. 339 (carm. 2, 132); Cassiodori Variarum libriXII, a cura di T. Mommsen, ibid., XII, Berolini 1894, I, pp. 10, 45; II, p. 40; Anecdoton Holderi, in H. Usener, Anecdoton Holderi,ein Beitrag zur Geschichte Roms in ostgothischer Zeit, Bonn 1877, pp. 3-4 (anche in Mon. Germ. Hist., Auct. Antiquiss., XII, pp. V s.); Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, p. 276; Procopius Caesariensis De bello Gothico, a cura di J. Haury, I, 1, Lipsiae 1905, II, pp. 9 s.; Anonymus Valesianus, a cura di R. Cessi, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XXIV, 4, pp. 19 s.

Sulla vita cfr. le bibliografie nell'ediz. della Consolatio, a cura di A. a Forti Scuto (Fortescue), Londimi 1925, pp. 188-190, e nella voce Boèce di M. Cappuyns, in Dictionnaire d'Histoire et de Géographie Ecclés., IX, coll. 377-378. Cfr. inoltre, ai fini del profilo sopra tracciato, tra la bibliografia più recente, G. Semeria, Il cristianesimo di Severino B. rivendicato, in Studi e documenti di storia e diritto, XXI (1900), pp. 61-178; C. Cipolla, Per la storia del processo di B., ibid, pp. 335-346; R. Cessi, prefazione all'Anonymus Valesianus; G. B. Picotti, Il Senato Romano e il processo di B., in Arch. stor. ital., s. 7, XV (1930), pp. 205-228; H. R. Patch, The tradition of B.: a study of his importance in mediaeval culture, New York 1935; M. Cappuyns, Boèce, coll. 348-380; C. H. Coster, The Iudicium Quinquevirale, Cambridge, Mass., 1935, pp. 40-64, 78-81; A. van de Vyver, Clovis et la politique méditerranéenne, in Etudes d'hist. dediées à la mémoire de Henri Pirenne, Bruxelles 1937, pp. 367-387; W. Bark, Theoderic vs. B., in American historical review, XLIX (1944), pp. 410-426; L. Alfonsi, Studii boeziani, in Aevum, XIX (1945), pp. 142-157; W. Bark, The legend of B.' martyrdom, in Speculum, XXI (1946), pp. 312-317; H. R. Patch, The beginnings of the legend of B., in Speculum, XXII (1947), pp. 443-445; R. Anastasi, Sul processo di B., in Miscellanea di studi di letteratura cristiana antica, I (1947), pp. 21-39; E. Rapisarda, La crisi spirituale di B., Firenze 1947; C. H. Coster-H. R. Patch, Procopius and B., in Speculum, XXIII (1948), pp. 284-287; P. Lamma, Teoderico, Brescia 1951, passim; L. Alfonsi, Studi boeziani, in Aevum, XXV (1951), pp. 210-229; A. Degrassi, I fasti consolari dell'Impero Romano dal 30 a.C. al 613 d.C., Roma 1952, p. 97; C. H. Coster, The fall of B.: his character, in Annuaire de l'Institut de Phil. et d'Hist. Orientales et Slaves de l'Université libre de Bruxelles, XII (1952), pp. 45-81; L. Alfonsi, Romanità e barbarie nell'"Apologia" di B., in Studi romani, I (1953), pp. 605-616; E. Rapisarda, Poetica e poesia di B., in Orpheus, III (1956), pp. 23-40; L. Alfonsi, Note ad Elpidio Rustico, in Vigiliae christianae, X (I 956), pp. 33-42; A. Momigliano, Gli Anicii et la storiografia latina del VI sec. dopo Cristo, in Histoire et historiens dans l'antiquité, Vandoeuvres-Genève 1956, pp. 249-276.

L'editio princeps dell'Opera omnia di B. è quella uscita per i tipi di Giovanni e Gregorio de' Gregori (da Forlì) a Venezia nel 1491-92 (Gesamtkatalog der Wiegendrucke [= GKW], n. 4511; replicata nel 1497-99: ibid., n. 4512). Importante è l'edizione del Glareano (Heinrich Lorit), uscita a Basilea nel 1546 (e ripetuta nel 1570, con l'aggiunta del commentario del Murmellio alla Consolatio, e di quello di Gilberto Porretano agli opuscoli teologici), a cui principalmente si rifà quella del Migne, Patr. Lat., LXIII-LXIV (ma la Consolatio è riprodotta dall'edizione "ad usum Delphini" del Cally [Petrus Callyus], Lutetiae Paris. 1680; e gli Opuscola sacra dall'edizione di R. Vallinus, Lugd. Batav. 1656: cfr. V. Schurr, Die Trinitätslehre des B. im Lichte der "skytischen Kontroversen", Paderborn 1935, pp. XII s.).

Dei trattati teologici, i primi tre furono stampati per la prima volta a Venezia, per i tipi di Paganino de' Paganini, con ogni probabilità insieme al De Trinitate di S. Agostino del 1489 (GKW, n. 4588: cfr. n. 2927). Negli Opera Omnia del 1491-92 il IV trattato manca, come pure nell'edizione del Glareano. Compare invece nell'edizione di R. Vallinus, Lugduni Batav. 1656. Cfr. la bibliografia in Schurr, pp. XII-XXX. La prima edizione critica è di R. Peiper, insieme con la Consolatio Philosophiae, Lipsiae 1871; migliore è quella di H. F. Stewart e E. K. Rand, Boethius,the theological tractates, with an English translation..., London-New York 1926; una edizione, secondo la tradizione dei commenti di Gilb. Porret., è stata curata da N. M. Häring, The Commentaries on B. by Gilbert of Poitiers, Toronto 1966, pp. 369-400. Una traduzione italiana recente è in Boezio. Gli opuscoli teologici, a cura di E. Rapisarda, Catania 1947. Cfr. in particolare E. K. Rand, Der dem B. zugeschriebene Traktat "de fide catholica", in Jahrbücher für classische Philologie, XXVI, Supplementband, Leipzig 1901, pp. 401-461; M. Grabmann, Die scholastische Methode in den Opuscola sacra des B., in Die Geschichte der scholastischen Methode, I, Freiburg i. Br. 1909, pp. 163-177; F. Di Capua, Il "cursus" nel De consolatione e nei trattati teologici di Severino Boezio, in Didaskaleion, III (1914), pp. 269-303; L. Cooper, A concordance of B. The five theological tractates and the Consolation of Philosophy, Cambridge, Mass., 1928; K. Bruder, Die philosophischen Elemente in den Opuscula sacra des B., Leipzig 1928; H. J. Brosch, Der Seinsbegriff bei B., Innsbruck 1931; A. Becker-Freyseng, Die Vorgeschichte des philosophischen Terminus "contingens" bei B. und ihr Verhältnis zu den aristotelischen Möglichkeitsbegriffen, Heidelberg 1938; M. Degl'Innocenti, Nota al "De Hebdomadibus" di B., in Divus Thomas, XLII (1939), pp. 397-399; W. Bark, Boethius' Fourth Tractate,theso-called 'de fide catholica' in Harvard Theological Review, XXXIX (1946), pp. 55-69, dove si trova uno status quaestionis; M. H. Marshall, Boethius' definition of Persona and Mediaeval understanding of the Roman theatre, in Speculum, XXV (1950), pp. 471-482; E. Gutwenger, Zur Ontologie der hypostatischen Union, in Zeitschrift für katholische Theologie, LXXVI (1954), pp. 385-410; M. Nédoncelle, Les variations de B. sur la personne, in Revue des Sciences Religieuses, XXIX (1955), pp. 201-238.

C. Leonardi

La collezione più completa delle opere logiche di B. è quella contenuta negli Opera omnia di Basilea, 1546 (ristampati nel 1570 e poi nel Migne, Patr. Lat., LXIV). Essa comprende l'edizione del Rota e i testi editi dal Lefèvre d'Etaples, di cui vedi sotto.

Collezione dei commenti (inclusi, in forma di lemmi, i testi commentati) e dei trattati indipendenti: due sole edizioni veramente indipendenti (la seconda però in parte basata sulla prima): 1) Venezia 1492, a cura, almeno parzialmente, di Nicola Iudeco (ristampata nel 1497-1499); 2) a cura di G. Marziano Rota, Venezia 1543 (ristampata con revisioni, ibid. 1547; poi spesso a Venezia, Parigi, Lione, Basilea): fino al 1503 almeno non si erano riconosciute come boeziane le traduzioni degli Anal., Top., Elenchi, e il Rota seguì questa tradizione. In ambedue queste edizioni si accoglie come boeziano il vittoriniano De Definitionibus, e mancano le ultime pagine ora note del Commento a Cicerone.

Collezione di tutte le traduzioni senza commenti, senza attribuzione di traduttore fino al 1501-1503 (un testo solo, sempre di forma contaminata, per ogni opera; manca naturalmente la traduzione degli scolii ai Primi Anal.): 1) Augusta 1479 (Keller: in varie opere e cataloghi degli ultimi due secoli le traduzioni di quest'edizione sono erroneamente attribuite all'Argiropulo); 2) Venezia 1481 (Filippo di Pietro); 3) Parigi 1484 circa (Gering); ecc. ecc. Nel 1501-1503, con attribuzione a B. Per Isag., Categ., De interpr. (estesa forse per errore alle altre opere), prima edizione (Parigi) dei testi rivisti e notevolmente alterati da Jacques Lefèvre d'Etaples (ristampata poi spessissimo). Tutte queste edizioni comprendono anche (attribuita a B., quando attribuzione c'è) la versione di Giacomo Veneto dei Secondi Analitici.

Edizioni principi di opere singole (a parte le edizioni scientifiche moderne): Secondo Commento a Porfirio e Commento alle Categorie (con testi completi in lemmi), Napoli 1475-1478 circa (Riessinger); Primi Anal., Lovanio 1475 (Braem); In Top. Cicer., Roma 1484 (Oliv. Servio).

Edizioni scientifiche recenti: Frammento prima ignoto del libro VI dell'In Top. Cicer., a cura di C. B. Hase in appendice a J. Laurentii Lydi De Ostentis, Parisiis 1823; In Top. Cicer., a cura di I. G. Baiter-I. C. Orelli, V, 1, delle Opere di Cicerone, Zurigo 1833; Due Commenti al De Interpr., a cura di C. Meiser (all'inizio edizione semicritica del testo aristotelico), Lipsiae 1877-1880; Due commenti a Porfirio, a cura di G. Schepss-S. Brandt, Vindobonae-Lipsiae 1906; Categorie (le due redazioni), ed. L. Minio-Paluello, in "Aristoteles Latinus", I, 1-5, Bruges-Paris 1961; Primi Anal. (le due redazioni) e Scolii ai Primi Anal., ibid., III, 1-3, ibid. 1962; De interpr. (con varietà di redazioni), ibid., II, 1-2, ibid. 1965; Isagoge (con varietà di recensioni), ibid., I, 6-7, ibid. 1966; Topici,ibid., V, 1-3, ibid., 1969. Il frammento attribuito da P. Hadot al Secondo Commento sulle Categorie, già edito senza tale ascrizione da C. Halm, in Rhetores Latini Minores, Lipsiae 1863, pp. 590-592, fu riedito dallo Hadot in Archives d'hist. doctr. et littér. du moyen âge, XXVI (1959), pp. 12-14.

Cronologia delle opere logiche. Fondamentale ora: L. M. De Rijk, On the chronology of Boethius' works on logic, in Vivarium, II (1964), pp. 1-61, 125-162. Ancora utili: S. Brandt, Entstehungszeit und zeitliche Folge der Werke von B., in Philologus, LXII (1903), pp. 141-154, 234-275; A. P. McKinlay, Stylistic tests and the chronology of the works of B., in Harvard Studies in Class. Philol., XVIII (1907), pp. 123-156; Id., De Sillogismo Categorico and Introductio ad Syllogismos Categoricos of B., in Classical and Mediaev. Studies in honour of E. K. Rand, New York 1938, pp. 209-219; A. Kappelmacher, Der schriftstellerische Plan des B., in Wiener Studien, XLVI (1929), pp. 215-225.

Fonti. Fondamentale la tesi di dottorato dattiloscritta (presso la Biblioteca Bodleiana di Oxford) di J. Shiel, Boethius' Commentaries on Aristotle in relation to the Greek commentaries, Oxford 1953, i cui risultati principali sono contenuti nell'articolo dello stesso, Boethius' Commentaries on Aristotle, in Mediaeval and Renaissance Studies, IV (1958), pp. 217-244; vi si confutano fra l'altro le tesi di P. Courcelle (in Les lettres grecques en Occident de Macrobe à Cassiodore, Paris 1943, pp. 273 ss.). Vedi anche J. Bidez, Boèce et Porphyre, in Revue Belge de Philol. et d'Hist., II (1923), pp. 189-201.

Dottrina. C. Prantl, Geschichte der Logik im Abendland, I, Leipzig 1855, pp. 679-722; I. M. Bocheński, Formale Logik, Freiburg 1956, passim (trad. con revis. di I. Thomas, A hist. of formal logic, Notre Dame, Ind., 1961); W. e M. Kneale, The Develop. of Logic, Oxford 1962, pp. 188-198; K. Dürr, The propositional Logic of B., Amsterdam 1951; A. N. Prior, The Logic of negative terms, in Franciscan Studies, XIII (1953), pp. 1-6; R. van den Driessche, Sur le 'De Syllogismo Hypotetico'…, in Methodos, I (1949), pp. 293-307.

Storia del testo e della trasmissione delle opere logiche. Oltre alle introduzioni alle edizioni critiche sopra elencate: G. F. Pagallo, Per una edizione critica del 'De Hypotheticis Syllogismis' di B., in Italia Mediev. e Umanistica, I (1958), pp. 69-101, fondamentale per l'antica tradizione del corpus di trattati; A. Van de Vyver, Les étapes du développement philosophique du Haut Moyen Age, in Revue Belge de Philol. et d'Hist., VIII (1929), pp. 425 ss.; L. Minio-Paluello, The genuine text of Boethius' Translation of Aristotle's Categories, in Mediaeval and Renaissance Studies, I (1943), pp. 151-177; Id., The text of the Categories: the Latin tradition, in The Classical Quarterly, XXXIX (1945), pp. 63-74; Id., Note sull'Aristotele Latino Medievale (VI e IX sugli Elenchi; VIII e XI-XIII sui Primi Anal.; X e XIII sui Topici; XV sulle Categ.), in Riv. di Filosofia Neoscolastica, XLIV-LIV (1952-1962); Id., The text of Aristotle's Topics and Elenchi:the Latin tradition, in The Classical Quarterly, XLIX (1955), pp. 108-118; Id., Il testo deiPrimi Analitici:le tradizioni siriaca e latina, in Riv. degli Studi Orientali, XXXII (1957), pp. 567-84; G. Lacombe-E. Franceschini-A. Birkenmaier-M. Dulong-L. Minio-Paluello, Aristoteles Latinus, Codices, Roma, Cambridge, Bruges-Paris 1939-1961.

Autenticità delle traduzioni: L. Minio-Paluello, Iacobus Veneticus Grecus, in Traditio, VIII (1952), pp. 265-304; Id., Les traductions et les commentaires aristotéliciens de B., in Studia Patristica, II (Texte und Untersuchungen zur Gesch. der altchristl. Literatur, LXIV), Berlin 1957, pp. 358-365; Id., A Latin commentary (? translated by Boethius) on the 'Prior Analytics' and its Greek sources, in The Journal of Hellenic Studies, LXXVII (1957), pp. 93-102.

L. Minio-Paluello

I due libri De institutione arithmetica ebbero una editio princeps a parte, Augsburg 1488 (Erhard Ratdolt: GKW, n. 4586). Il De institutione musica compare invece per la prima volta negli Opera omnia di Venezia, 1491-92. Unica edizione critica è quella, ormai invecchiata, di G. Friedlein: Deinstit. arith.; De inst. musica; acceditGeometria quae fertur Boetii, Lipsiae 1867. Una versione italiana dei cinque libri sulla musica, tuttora inedita, a cura del cinquecentista Ercole Bottrigari (1531-1612), si conserva nella biblioteca del conservatorio di Bologna (v. G. Gaspari, Catalogo dellaBibliot. delLiceo musicale di Bologna, I, Bologna 1890, pp. 197 s.). Una raccolta di passi scelti in versione italiana, con testo a fronte, è quella curata da A. Damerini e pubblicata nel volumetto: Boezio, Pensieri sulla musica, Firenze 1949. Un vero e proprio commento al De inst. musica con versione in lingua tedesca è costituito dal volume di O. Paul, B. und die griechische Harmonik, Leipzig 1872. Una nuova edizione critica con apparato delle fonti e delle testimonianze è in preparazione a cura di U. Pizzani, per conto del Corpus Christianorum.

Fondamentale per i rapporti fra il De inst. arithm. di B. e l'originale nicomacheo: Nicomachus of Gerasa, Introduction to arithmetic, a cura di M. L. D'Ooge, F. E. Robbins e L. C. Karpinski, New York 1926, specie pp. 132-137.

Sulla tradizione manoscritta cfr. G. Goetz-G.Loewe, Mittheilungen aus italienischen Handschriften, in Leipziger Studien, I (1878), pp. 379 s.; F. Gustafsson, De codicibus Boetii de institutione arithmetica librorum bernensibus, in Acta Societatis Scientificae Fennicae, XI (1880), pp. 341-344; H. Dilker, Der Liber mathematicalis des hl. Bernward im Domschatz zu Hildesheim, Hildesheim 1875; J. Paulson, De fragmento Lundensi Boetii de inst. arith. librorum, in Acta Universitatis Lundensis, 1884-85; G. Schepss, Subscriptionen in Boethius-Handschriften, in Blätter für das Bayerische Gymnasialschulwesen, XXIV (1888), p. 28; R. Beer, Die Handschriften des Klosters Santa Maria de Ripoll, I, in Sitzungsber. der K. Akad. der Wissensch. in Wien, Philos-histor. Kl., CLV (1907), 3, p. 98. Sull'opera in generale si veda anche M. Cantor, Vorlesungen über Gesch. der Mathem., I, Leipzig 1907, pp. 573 ss.; J. Thirion, L'histoire de l'arithm., Bruxelles 1885, c. VIII: Boèce.

Per una consistente nota bibliografica relativa al De inst. musica v. la voce Boethius a cura di R. Wagner nella grande enciclopedia musicale Die Musik in Geschichte und Gegenwart, II, Kassel und Basel 1952, coll. 49-57. Sul trattato in generale cfr. H. Potiron, B. théoricien de la musique grecque, Paris 1961 (di carattere espositivo); U. Pizzani, Studi sulle fonti del De inst. mus. di B., in Sacris erudiri, XVI (1965), pp. 5-164.

Sulla tradizione manoscritta e su questioni e problemi particolari, cfr. Boeti Musicae libri IV cap. III cum vetusto Ms. Jos. Seldini collatum,additum var. lect., in M. Meibomii Antiquae musicae auctores, II, Amstelodami 1652; G. Schepss, Zu den mathematisch-musikalischen Werken des B., in Abhandl. aus dem Gebiet der klassischen Altertumswissensch. für W. v. Christ, München 1891, pp. 107-113; Id., Zu Boethius, in Commentationes Woelfflinianae, Leipzig 1891, p. 278; W. Fröner, Das Spart. Decret gegen Timotheus, in Philologus, XIX (1863), pp. 308-310; J. Klein, Zu Boetius de musica (I,2), in Rheinisches Museum, XXIII (1868), pp. 703 s.; E. Ruelle, Le musicographe Alypius corrigé par B., in Académie des Inscriptions et Belles-Lettres,Comptes-Rendus, XXII (1894), pp. 458-68; G. Miekley, De Boethii libri de musica primi fontibus, Jena 1898; M. G. Montico, Il valore psicagogico ed anagogico della musica nel pensiero di s. Agostino e di altri filos. cristiani, in Miscell. Francesc., XXXVII (1938), pp. 398-410; L. Kunz, Die Tonartenlehre des B., in Kirchenmusikalisches Jahrbuch, XXXI (1936), pp. 13-20; L. Schrade, Das propädeutische Ethos in der Musikanschauung des B., in Zeitschrift für Gesch. der Erziehung und des Unterrichts, XX (1930), pp. 179-215; Id., Die Stellung der Musik in der Philosophie des B., in Archiv für Gesch. der Philosophie, XLI (1932), pp. 360-400; Id., Music in the Philosophy of B., in The Musical Quarterly, XXXIII (1947), pp. 188-200; R. Bragard, L'harmonie des sphères selonB., in Speculum, IV (1929), pp. 206-213; J. Chailley, L'hexatonique grecque d'après Nicomaque, in Revue des Etudes Grecques, LXIX (1956), pp. 73-100; M. Vogel, B. und die Herkunft der modernen Tonbuchstaben, in Kirchenmusicalisches Jahrbuch, XLVI (1962), pp. 1-19; J.-C. Margolin, Erasme, commentateur de Boèce. L'adage "double diapason", in Latomus, XXVI (1967), pp. 165-194.

Per la cosiddetta notazione boeziana, erroneamente ricavata dai teorici del Medioevo dal trattato boeziano, si veda J. Wolf, Handbuch der Notationskunde, I, Leipzig 1913, pp. 37 ss., e l'interessante nota comparsa nel numero di giugno del 1885 del Correspondent.

Per i complessi problemi relativi alla Geometria di B., resta fondamentale il già citato Gerberti... Opera mathematica, a cura di N. Bubnov, Berolini 1899. Cfr. anche G. Friedlein, Zur Frage über die Echtheit der Geometrie des B., in Jahrb. für class. Philol., LXXXVII (1863), pp. 425-427; Id., Die Zahlzeichen und das elementare Rechnen der Griechen und Römer, Erlangen 1869; H. Weissenborn, Die Entwickelung des Zifferrechnens, Progr. Eisenach 1877; Id., Zur Boetitisfrage,ibid., 1880; Id., Zur Geschichte der Mathematik, II, Die Boetiusfrage (Abhandl. zur Gesch. der Math., II, 1879), p. 185; Id., Zur Geschichte der Einführung der jetzigen Ziffern in Europa durch Gerbert, Berlin 1892; J. L. Heiberg, Beiträge zur Gesch. der Math. im Mittelalter, II, Euklids Elemente im Mittelalter, in Zeitschrift für Math. und Phys., Hist-litt. Abt., XXXV (1890), pp. 48-58, 81-98; P. Tannery, Notes sur la Pseudo-Géométrie de B., in Bibl. Mathem., III (1900), pp. 39 ss.; G. Ernst, De geometricis illis quae sub Boetii nomine nobis tradita sunt, Progr. Bayreuth 1903; C. Thulin, Zur Uberlieferungsgeschichte des Corpus agrimensorum, Göteborg 1911.

U. Pizzani

De consolatione Philosophiae. L'editio princeps è quella uscita intorno al 1471 dall'officina di Hans Glim (Savigliano: GKW, n. 4513). Per le numerosissime edizioni del sec. XV, cfr. GKW, nn. 4513-4574. Per le successive, cfr. l'introduzione all'ediz. a cura di G. Weinberger, in Corpus Script. Ecclesiast. Latin., LXVII, Vindobonae-Lipsiae 1934, pp. XXV ss.; e Fortescue, nell'ediz. già menzionata, pp. 192 ss. Altre edizioni moderne: R. Peiper, Lipsiae 1871; L. Bieler, in Corpus Christian. XCIV, Turnholti 1957.

Sulla composizione della Consolatio: E. K. Rand, On the composition of B.' 'Consolatio Philosophiae', in Harvard Studies, XV (1904), pp. 1-28; G. A. Müller, Die Trostschrift des B., Berlin 1912; F. Klingner, De Boetii Consolatione Philosophiae, Berlin 1921; R. Carton, Le christianisme et l'augustinisme de B., in Mélanges augustiniens, Paris 1931, pp. 243-329; E. T. Silk, B.'sConsolatio Philosophiae as a sequel to Augustine's Dialogues and Soliloquia, in Harvard Theological Review, XXXII (1939), pp. 19-39; L. Alfonsi, Sulla composizione della 'Philosophiae Consolatio' boeziana, in Atti del R. Ist. Veneto di scienze, lettere ed arti, CII, 2 (1942-43), pp. 707-727; P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident, 2 ed., Paris 1948, pp. 257-312; K. Büchner, Bemerkungen zum dritten Buche von des Boethius Trost der Philosophie, in Historisches Jahrbuch, LXII-LXIX (1949), pp. 31-42; K. Reichenberger, Untersuchungen zur literarischen Stellung der 'Consolatio Philosophiae', Köln 1954; W. Schmid, Philosophisches und Medizinischesinder 'Consolatio' des B., in Festschrift Bruno Snell, München 1956, pp. 113-144; F. J. Sulowski, The sources of B.' De Cons. Philos., in Sophia, XXIX (1961), pp. 67-94; W. Theiler, Antike und christliche Rückkehr zu Gott, in Mullus,Festschrift Th. Klauser, Münster 1964, pp. 356-361; P. Courcelle, Histoire littéraire des grandes invasions germaniques, 3 ed., Paris 1964, pp. 201-215, 365-378; V. Schmidt-Kohl, Die neuplatonische Seelénlehre in der "Consolatio Philos." des B., Meisenheim 1965; P. Courcelle, La 'Consolation de Philosophie ' dans la tradition littéraire, antécédents et postérité de B., Paris 1967.

Sui commentari: C. Jourdain, Des commentaires inédits de Guillaume de Conches et de Nicolas Traveth sur la ' Consolation ' de B., in Notices et extraits de manuscrits, XX (1862), 2, pp. 40-82; P. Courcelle, Etude critique sur les commentaires de la 'Consolation' de B. (IX-XV siècles), in Archives d'hist. doctrinale et littéraire du Moyen Age, XIV (1939), pp. 5-140; H. Silvestre, Le commentaire inédit de Jean Scot Erigène au mètre 9 du Livre III du 'De cons. Philos.' de B., in Revue d'hist. ecclésiastique, XLVII (1952), pp. 44-122; R. B. C. Huygens, Mittelalterliche Kommentare zum 'O qui perpetua...', in Sacris Erudiri, VI (1954), pp. 373-426; G. Mathon, Le commentaire du Pseudo-Erigène sur la 'Consolatio Philos.' de B., in Recherches de théol. ancienne et médiévale, XXII (1955), pp. 213-257; E. Jeauneau, Un commentaire inédit sur le chant 'O qui perpetua' de B., in Rivista critica di storia della filosofia, XIV (1959), pp. 60-80.

Sulle traduzioni: A. Thomas, Les traductions francaises de la 'Consol. Philos.' de B., in Histoire littéraire de la France, XXXVII, 2, 1938, pp. 419-488; A. van de Vyver, Les traductions du 'De cons. philos.' de B. en littérature comparée, in Humanisme et Renaissance, VI (1939), pp. 247-273.

P. Courcelle

CATEGORIE
TAG

De consolatione philosophiae

Jacques lefèvre d'etaples

Incarnazione del verbo

Cirillo di alessandria

Immortalità dell'anima