ORTESE, Anna Maria

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 79 (2013)

ORTESE, Anna Maria

Monica Farnetti

ORTESE, Anna Maria. – Nacque a Roma il 13 giugno 1914 da Oreste, funzionario di Prefettura, e da Beatrice Vaccà.

Il padre, nato a Caltanissetta, vantava origini catalane e Ortese era l’esito dell’italianizzazione di un originario Ortez («il cognome era iberico, assai più breve del mio»: cfr. Ragazzo iberico, in La luna che trascorre, 1998, p. 96). La madre, nata a Napoli, era invece discendente per parte di padre da una famiglia di apprezzati scultori della Lunigiana noti a partire almeno dal Settecento. Bella, intensa e misericordiosa, compare più volte nelle opere della scrittrice a segnare l’origine del suo romanzo familiare e del suo destino di artista. La coppia ebbe, oltre ad Anna Maria, sei figli (una femmina e cinque maschi), verso i quali la scrittrice testimoniò sempre un profondo trasporto.

Nel 1915 il padre venne richiamato al fronte. La madre, i figli e la nonna materna, fonte di tenero affetto e di magici racconti, lasciata la capitale si trasferirono in Puglia e poi in Campania, a Portici. Terminata la guerra, nel 1919 la famiglia si ritrovò riunita a Potenza, sede del nuovo incarico governativo di Oreste, e vi soggiornò fino al 1924. Nel 1921 Anna Maria venne iscritta alla scuola elementare 18 agosto 1860, dove ripeté la terza classe. Le irrequietezze e le smanie geografiche del padre indussero quindi gli Ortese a un soggiorno triennale (1925-28) in Libia, colonia italiana.

Il periodo africano si fissò come un’esperienza capitale nella memoria dell’autrice: «Mi ha abituata allo spazio. Questa è la lezione dell’Africa. Essere dentro la natura anziché fuori» (Maraini, 1973, p. 25). Alla scuola italiana di Tripoli portò a compimento il ciclo elementare. In un terreno ai confini del deserto Oreste iniziò quindi a costruire una disgraziatissima nuova casa: «Mio padre la volle costruire con le pietre di una cava che aveva comprato assieme con il terreno. Ma non poté mai finirla […]. Sembrava la casa dei fantasmi. Senza porte, senza finestre, col tetto metà coperto e metà no, il pavimento mezzo di pietra e mezzo di terra. Da questo pavimento di terra sbucavano scorpioni, topi, scarafaggi. Dalle porte aperte entravano gli sciacalli. Era un inferno» (ibid., p. 29). Il tempo, dapprima felice e speranzoso, trapassò lentamente in eventi malinconici e d’improvviso si chiuse, sigillato dalla morte della nonna («Ella passò dal sonno alla morte. Sulle mie braccia la portai fuori, come pazza, e scavata una buca sulla spiaggia […] vi seppellii la mia compagna candida»: Lo sconosciuto, in Angelici dolori e altri racconti, 2006, p. 334).

Nel 1928 rientrarono in Italia e si stabilirono a Napoli, occupando la casa al numero 29 di via del Piliero (oggi Cristoforo Colombo), affacciata sul mare e sui cancelli del porto, che si sarebbe imposta fra i protagonisti del romanzo autobiografico Il porto di Toledo (1975). Anna Maria frequentò per qualche mese una scuola commerciale, ma ben presto agli studi subentrarono lunghe passeggiate e i libri di viaggio e di avventura («Leggevo moltissimo. Fantasticavo su grandi viaggi che avrei fatto. […]. I miei fratelli sono partiti. Erano maschi. Io no. Viaggiavo con la testa»: Maraini, 1973, p. 29). Alcune lezioni di pianoforte completarono il suo singolarissimo curriculum di autodidatta («Facevo i compiti per i miei fratelli. Così ho finito per fare lo stesso le scuole», ibid.). Tuttavia furono questi gli anni decisivi della sua crescita e il romanzo autobiografico, specie nelle sue prime pagine, ne è uno straordinario documento. Furono, peraltro, anni di relativa stanzialità, che segnarono una pausa nelle continue peregrinazioni della famiglia e consentirono alla scrittrice di maturare il suo nevralgico rapporto con la città.

Episodio capitale di quel periodo fu la morte del fratello Emanuele Carlo, detto Rassa, di professione marinaio, avvenuta il 6 gennaio 1933 al largo della Martinica. Per l’adolescente Anna Maria fu il primo, grandissimo dolore, nonché l’evento destinato a promuoverla d’un tratto scrittrice. Fu infatti per far fronte a quella pena alienante e senza riparo, propria e altrui (e segnatamente della madre, l’Apa del romanzo autobiografico), che prese in mano la penna e scrisse di getto il testo del suo ufficiale debutto letterario: «Un giorno, la luce fu piena, sebbene sempre assai luttuosa, e tornò sulle mie mani […]. Allora, sentendo dentro di me un gran vuoto e insieme affetto […], vedendo Apa starsene soletta al sole, come un’orfana, nella sua stanza, pietà e memoria mi vinsero, e scrissi la seguente espressività» (Il porto di Toledo, [1975] 1998, p. 43). Seguono, nel romanzo, citazione e parafrasi del testo poetico che, ospitato sulle colonne dell’Italia letteraria del 3 settembre di quell’anno sotto il titolo di Manuele, rivelò per la prima volta al pubblico italiano il nome di Anna Maria Ortese.

La collaborazione con L’Italia letteraria continuò e si rafforzò negli anni seguenti. Nel 1934 vi esordì anche come narratrice e il passaggio alla prosa si rivelò provvidenziale, giacché Pellirossa, racconto ambientato fra gli indiani d’America e precocemente rivelatore dell’elettiva hispanidad dell’autrice, segnò per lei, nonché per chi la lesse, un immediato e indubbio traguardo espressivo. Comparvero quindi fra le pagine della stessa rivista, nel 1936, altri cinque racconti (quattro dei quali pubblicati sotto lo pseudonimo di Franca Nicosi), radunati assieme al primo e ad altri sette inediti nella raccolta di esordio, Angelici dolori (Milano 1937), che uscì presso Bompiani e con il patrocinio di Massimo Bontempelli. Il libro, fatto oggetto di due leggendarie stroncature a firma di Enrico Falqui e di Giancarlo Vigorelli, rivelò tuttavia le straordinarie qualità della narratrice e la precoce saldezza della sua poetica.

Il 1937 fu l’anno della morte di Antonio, gemello di Anna Maria, anch’egli marinaio, ucciso in Albania. «Antonio ed Emanuele sono morti giovani, lontano da casa. E questo ha segnato la fine della adolescenza di tutti gli altri» (Maraini, 1973, p. 22). A far data dal 1938 Ortese iniziò a spostarsi da Napoli e a frequentare il Nord Italia. Firenze, Trieste, Venezia furono le tappe salienti. Nella città lagunare giunse nel 1939 e lavorò come correttrice di bozze nella redazione del Gazzettino, sulle cui colonne pubblicò anche alcune prose (fra cui Maestri spagnoli alla mostra di Ginevra del 22 luglio 1939, che rivelò il suo debito di creatività visionaria nei confronti della pittura di El Greco). Nello stesso anno si recò a Trieste dove partecipò ai Littoriali femminili e li vinse, ottenendo di conseguenza l’accesso a testate importanti (fra le quali Belvedere e L’Ateneo veneto, e a seguire Il Mattino, Il Messaggero e Il Corriere della sera). La pubblicistica divenne di lì in poi fonte di sostentamento e al pezzo di carattere narrativo iniziò ad accompagnare l’elzeviro e il giornalismo di cronaca. La sua famiglia, nel frattempo decimata dalle partenze di altri due fratelli marinai, negli anni di guerra prese a spostarsi con lei, fra Sud e Nord.

Nel giugno del 1945 rientrò a Napoli, con i genitori e la sorella Maria. La casa del Pilar, gravemente danneggiata, venne di lì a poco demolita e gli Ortese, dapprima ospitati in un edificio per sfollati simile a quello tristemente celebre del III e IV Granili (v. La città involontaria, in Il mare non bagna Napoli, 1953), nel 1946 si trasferirono nel misero ‘basso’ di via Palasciano alla Riviera (di Chiaia) n. 47 in cui fu ambientato Un paio di occhiali, il racconto più celebre de Il mare non bagna Napoli. Ortese iniziò una collaborazione più regolare a quotidiani e periodici, soprattutto napoletani (La Voce, Risorgimento, Sud), ai quali consegnò meno ‘favole’ e più prose d’inchiesta e di reportage.

In particolare Sud, la rivista fondata e diretta da Pasquale Prunas fra il novembre 1945 e il settembre 1947, importante polo di aggregazione degli intellettuali progressisti partenopei di origine o di adozione, costituì, oltre che un’occasione di sviluppo culturale e politico, un episodio affettivo di grande rilievo. L’avventura di Sud, che l’autrice poi ritrasse nella fase di declino degli entusiasmi e delle speranze all’interno del suo libro napoletano per eccellenza (cfr. Il silenzio della ragione, in Il mare non bagna Napoli), avrebbe avuto quindi un contraccolpo polemico e doloroso (gli amici infatti non le perdonarono quelle parole di verità che avevano messo spietatamente a nudo le loro contraddizioni), i cui strascichi si sarebbero protratti fino agli ultimi anni dell’autrice.

In quel periodo Ortese tentò di emigrare negli Stati Uniti ma il progetto di espatrio non ebbe successo e l’autrice si limitò a peregrinare per l’Italia, facendo regolarmente ritorno a Napoli. Come testimoniò molti anni dopo in La lente scura (1991), che raccoglie i suoi scritti di viaggio, fu per periodi più o meno lunghi a Bologna e Firenze, Milano, Palermo, Reggio Calabria e quindi a Roma, dove dall’inverno del 1946 frequentò saltuariamente il salotto di Maria e Goffredo Bellonci e avviò nuove collaborazioni letterarie e giornalistiche.

Fra il 1948 e il 1950, mentre sempre meglio si andava definendo come giornalista intraprendente e militante (nel 1950 il suo nome iniziò a comparire su l’Unità e l’anno seguente sul settimanale dell’Unione donne italiane [UDI] Noi donne), pubblicò su varie testate e soprattutto in Milano-sera gran parte dei racconti che, nello stesso 1950, confluirono nel volume L’Infanta sepolta, sua seconda raccolta, titolo inaugurale della collana «Narratori contemporanei» della casa editrice Milano-sera omonima del quotidiano. La città di Milano andò nel frattempo definendosi come possibile sede in cui iniziare una nuova stagione della vita.

Nel 1951 inaugurò la collaborazione con altre due testate importanti per la sua carriera giornalistica, Il Corriere di Napoli e Il Mondo, da dove si segnalò al grande pubblico con gli scritti su Napoli destinati a comporre, assieme ad altri, Il mare non bagna Napoli.

Il volume uscì nel 1953 come diciottesimo titolo della collana «I Gettoni» diretta da Elio Vittorini presso Einaudi, sollevando ardenti polemiche in ambiente napoletano e presso gli ex collaboratori di Sud. Fu insignito con il premio Viareggio, ex aequo con le Novelle dal Ducato in fiamme di Carlo Emilio Gadda, dopo che i singoli capitoli apparsi nel Mondo erano valsi all’autrice, nel 1952, il premio giornalistico Saint-Vincent: «Avevo mandato una serie di tre articoli, che riguardavano la miseria di Napoli, a un concorso giornalistico nazionale, ma non ci pensavo più […]. Ed ecco, una sera, squilla il telefono fortemente […]. Mi precipito in corridoio, prendo tremando il ricevitore, e subito una voce lontana mi dice che ho vinto duecentomila lire!» (cfr. Poveri e semplici [Firenze 1967] 1974, pp. 22 s.). A parlare qui è Bettina, alter ego della scrittrice in Poveri e semplici e in un altro libro autobiografico: Il cappello piumato (1979).

Ortese, nel frattempo, perduti entrambi i genitori, si era stabilita a Milano, cambiando varie dimore e affezionandosi in particolare a quella situata entro la cerchia dei Navigli, di fronte alla chiesa di S. Maria presso S. Celso, che aveva occupato assieme a un gruppo di artisti, giornalisti e scrittori con i quali condivideva ardenti entusiasmi intellettuali e politici nonché una precaria esperienza di vita comunitaria («Eravamo […] veramente artisti? O semplicemente comunisti? O dei poveri sbandati? Chissà» (v. Poveri e semplici, ed. cit., p. 12). Una trepidante e malinconica vicenda sentimentale, narrata specularmene nei due romanzi milanesi, si svolse quindi fra Bettina e il sedicente Gilliat (il giornalista e scrittore Marcello Venturi), venerato con lo stesso ardore di cui sarebbe stato fatto oggetto nel Porto di Toledo il misterioso Lemano (lo storico Aldo Romano: cfr. Clerici, 2002, p. 75) amato nell’adolescenza. Se in Poveri e semplici è riportato con dovizia di particolari l’episodio della vittoria del Viareggio, nel Cappello piumato si racconta il problematico viaggio in Russia, risalente al settembre 1954, che Ortese compì con una delegazione dell’UDI composta di 15 donne di diversa professione. Il contrasto con queste donne, assieme alla cattiva accoglienza riservata ai reportage pubblicati, oltre che in Noi donne e su l’Unità, anche su L’Europeo, determinò l’uscita di Ortese dal Partito comunista italiano, al quale aveva aderito nel 1945 sopraffatta dal dolore della guerra («Ero terrorizzata e indignata. Sono andata in una sezione del Pci perché mi sembrava l’unica cosa da fare»: Maraini, 1973, p. 32). Quella scelta diffuse un’ombra di malinconia sul ricordo di tutti gli anni milanesi («Non ho avuto nessuna gioia a Milano. È una città austriaca, dura, crudele. Ho sofferto la miseria più nera. Ero sola. Poi sono uscita dal partito perché volevano che io non ragionassi con la mia testa ma con la loro»: ibid., p. 33). Con quegli stessi articoli l’autrice ottenne peraltro una seconda volta, nel 1955, il premio Saint-Vincent.

Anche questa stagione, alla quale corrispose grosso modo il decennio più attivo (1950-60) del giornalismo di Ortese, si chiuse con un libro, Silenzio a Milano (Bari 1958), che ne rappresentò il bilancio. Si tratta ancora d’una raccolta mista di prose giornalistiche e narrative, derivate quasi per intero dalle colonne dell’Unità e dalle pagine de L’Europeo degli anni 1955-57, «sulla Milano reale che si presentava ai miei occhi di immigrata. […] una città dove ogni cosa era in vendita, tutto aveva un cartellino, e per la famosa contemplazione o definizione del mondo (arte, scrittura) non vi era più speranza» (cfr. Corpo celeste, in Silenzio a Milano, 1958, p. 78). Dello stesso anno è I giorni del cielo, volume con il quale Ortese inaugurò il rapporto con la casa editrice Mondadori e nel quale antologizzò i racconti più amati delle due prime raccolte.

Con la fine degli anni Cinquanta iniziarono lentamente a diradarsi le collaborazioni giornalistiche e vennero perseguiti con maggior concentrazione, sebbene in condizioni economiche e materiali sempre estremamente precarie, gli obiettivi della scrittura romanzesca. Ne sortì L’Iguana, i cui primi otto capitoli apparvero nel Mondo fra l’ottobre e il novembre 1963 e che venne poi pubblicato da Vallecchi (1965), iniziando il percorso di un’assai contrastata fortuna. Fin dall’origine tuttavia il progetto fu investito di un significato particolare e si configurò come operazione di assoluto rilievo. Fu, per Ortese, l’improvvisa e subito sicura individuazione delle coordinate su cui si sarebbe fondata la sua grande maturità di scrittrice, oltre che l’approdo decisivo alla forma del romanzo. Fatto tesoro delle competenze acquisite negli anni giovanili, che l’avevano educata a cogliere da un lato i ‘prodigi’ del reale (come testimoniano le due prime raccolte), dall’altro l’estrema durezza del vivere sociale e umano in genere (ciò di cui danno riscontro i due libri-inchiesta su Napoli e Milano), si mostrò d’un tratto capace di rendere conto della terribile evidenza della realtà e, simultaneamente, di nutrire una fiducia incondizionata nella sua esistenza, iniziando ad assumere la misericordia e la solidarietà verso le creature più indifese e umili quali presupposti stessi del suo pensare e del suo narrare. La stessa casa editrice fiorentina accolse di lì a poco Poveri e semplici. Quindi l’autrice, approdata nel frattempo da Milano a Roma e poi a Firenze per lavorare a stretto contatto col suo nuovo editore, lo abbandonò per Rizzoli (fecero ancora in tempo a uscire presso Vallecchi le raccolte di racconti La luna sul muro, 1968, e L’alone grigio, 1969, al solito composte di pochi inediti e di molte riscritture di testi editi). La necessità di guadagnare e il bisogno di riposo incalzavano, come sempre. E fu per una dichiarata «necessità di sopravvivere» (v. Corpo celeste, ed. cit., p. 83), non per altro, che Ortese si dispose a scrivere per l’editore milanese quello che poi risultò il suo libro più importante.

La prima metà degli anni Settanta trascorse quasi interamente all’insegna della difficile gestazione e della sofferta stesura del Porto di Toledo. Il progetto iniziale («scrivere una libera e allegra “introduzione” ai miei primi racconti, quell’Angelici dolori che mi proponevo di offrire all’editore di Firenze», ibid.) si modificò in corso d’opera, giacché il rievocare il tempo in cui quei racconti erano stati pensati e scritti indusse l’autrice a rivivere, con tumultuoso slancio, quegli anni cupi e splendenti, e a raccontarli in una sorta di ‘cornice’ entro cui incastonare i racconti stessi. Avvenimenti funesti costellarono l’intero iter del lavoro, portato avanti fra terribili disturbi acustici provocati da imprese edili (nella palazzina milanese di via Molino delle Armi, dove il lavoro prese avvio) e da vicini rissosi (nella casa romana di piazza Ennio, occupata in seguito, dove a nulla valse l’ingegnosa costruzione di una cella di isolamento sonoro al centro della stanza), in uno stato di grande «dolore mentale» (ibid., p. 85: Ortese soffrì, come è clinicamente documentato, di disturbi neurologici, stati di assenza ed episodi convulsivi). Nonostante tutto, l’opera venne portata a termine e nel 1974 il libro fu pronto per la stampa. L’autrice lo aveva ripetutamente concepito come l’ultimo, e anche se i fatti poi la smentirono («Il mio ultimo libro, tuttavia, non fu questo»: ibid., p. 50), si trattò di una smentita solo parziale, poiché quel libro dovette di fatto impegnarla a più riprese e fino alla morte, rivelandosi davvero l’ultimo.

Il porto di Toledo (Milano 1975) inaugurò il rapporto con Rizzoli destinato tuttavia, fin da subito, a rivelarsi problematico. L’autrice non ne ebbe soddisfazione sul piano umano (che sempre cercava di coltivare, avendo fatto fin dall’inizio irruzione nella società letteraria con un’incongrua e fortissima domanda d’amore) né, tantomeno, su quello economico. Oltremodo avvilita e depressa, e in perduranti difficoltà finanziarie, meditò e realizzò l’ultimo trasferimento, approdando nello stesso 1975 nella cittadina ligure di Rapallo con la sorella Maria. Iniziò un penoso decennio, denso di progetti abortiti e rifiuti editoriali, durante il quale le sorelle vissero stentatamente (con la modesta pensione di impiegata postale di Maria) e le condizioni dell’autrice peggiorarono, fra disturbi nervosi e deperimento organico.

Proseguì nel frattempo, malgrado tutto, il lavoro letterario. Il cappello piumato, steso tanti anni prima, nel 1979 trovò finalmente una collocazione presso Mondadori («Riuscii a pubblicarlo solo dopo vent’anni. È che adesso lo si considerava, in qualche modo, politico»: Corpo celeste, ed. cit., p. 79). Nuovi editori accolsero quindi brevi raccolte dei suoi scritti di viaggio, da Pellicanolibri (Il treno russo, Catania 1983; Estivi terrori, Roma 1987) a Theoria (Il mormorio di Parigi, Roma-Napoli 1986), e la sua firma tornò a comparire sulla stampa periodica iniziando a contrassegnare lettere aperte, prose di denuncia e di riflessione morale. Ma l’avvenimento più importante fu la pubblicazione de L’Iguana (nel frattempo già ristampato da Rizzoli, nel 1978, e passato di nuovo inosservato) presso Adelphi (Milano 1986), su segnalazione di Pietro Citati. Nel giro di un anno uscì presso lo stesso editore, che già nel 1984 aveva ristampato Il mare non bagna Napoli, anche la raccolta In sonno e in veglia (ibid. 1987, mentre il racconto La morte del folletto, appartenente alla raccolta, usciva autonomamente presso la casa editrice romana Empirìa), e si rafforzò per la scrittrice uno dei rapporti più importanti della sua carriera professionale: «Sì, ho incontrato l’Adelphi: hanno creduto nei miei libri, li hanno pubblicati con riguardo, è stato un miracolo» (Polese, 1996, p. 65).

Con i 25 milioni di lire del premio Fiuggi alla cultura, assegnato alla scrittrice nel 1986, e con il vitalizio della legge Bacchelli (ottenuto per tramite dell’amico Dario Bellezza, cui si coniugò l’appello di un folto gruppo di intellettuali), che mensilmente iniziò a ricevere a partire dallo stesso 1986, le sorelle Ortese poterono acquistare un appartamento, al numero 170 di via Goffredo Mameli («Ho cambiato trentasei case, dieci città», avrebbe detto poi, riepilogando: Polla-Mattiot, 1996, p. 94).

Iniziò così un periodo di tardiva, e relativa, tranquillità, nel quale si dedicò assiduamente alla scrittura. Oltre alla nutrita raccolta di scritti di viaggio edita da Marcos y Marcos (La lente scura, Milano 1991), grazie all’impegno di Luca Clerici uscirono per i tipi di Adelphi, via via più attesi e in un clima di adeguata attenzione di critica e pubblico, i grandi romanzi della maturità dal respiro cosmologico, Il cardillo addolorato (ibid. 1993), e Alonso e i visionari (ibid. 1996), scortati dal formidabile libretto di prose «di meditazione e di memoria» Corpo celeste (ibid. 1997), mentre la casa editrice Empirìa, diretta dall’amica Marisa di Jorio, pubblicò le due raccolte poetiche Il mio paese è la notte (Roma 1996) e La luna che trascorre (ibid. 1998).

Si tratta complessivamente di libri che testimoniano dell’atmosfera di bilancio in cui l’autrice lavorò in quest’ultima sua stagione, rivisitando i generi letterari nei quali nel corso della vita si era cimentata e in ciascuno di essi mirabilmente perfezionandosi. Soprattutto i romanzi contribuirono al definitivo consolidarsi della sua statura e fama di scrittrice. Lettori e lettrici si moltiplicarono, così come traduzioni, premi e onorificenze (fra i quali l’Elsa Morante-Isola di Arturo nel 1986 per In sonno e in veglia e il Betocchi nel 1997 per Il mio paese è la notte, mentre la giuria del Campiello le assegnò nel 1997 il premio alla carriera).

La sua presenza sui giornali si manifestò, oltre che nelle numerose interviste cui si sottopose all’uscita dei nuovi libri, in scritti di riflessione e di discussione sui grandi problemi (la difesa degli animali, la pena di morte, i diritti umani) che sempre più esclusivamente la interessarono.

Nel 1995, la morte della sorella Maria fu una perdita dolorosissima («Mia sorella è stata la mia patria; non ne ho avuta un’altra di patria, io»: Polese, 1996, p. 64). Nello stesso anno rientrò in Italia il fratello Francesco, residente in Canada, che subentrò a Maria nell’accudire la scrittrice, gravemente disturbata da un difetto cardio-circolatorio e sempre meno in grado di vivere in modo autosufficiente. Segnarono alcune felici interruzioni della sua abituale residenza a Rapallo i periodi trascorsi, fra il 1997 e il 1998, a Milano, dove si recò per lavorare alla nuova edizione adelphiana del Porto di Toledo alloggiando presso il residence Anni azzurri (situato nella stessa zona della città di cui parla con affetto nei romanzi milanesi), e potendo contare sull’affettuoso appoggio e aiuto di alcuni redattori della casa editrice. Il lavoro di correzione, e in parte di riscrittura, che svolse sulla prima edizione del romanzo la impegnò in sommo grado, rivelando la sua predilezione per quel libro che, fra tutti i suoi, più a lungo l’accompagnò nel corso della vita.

Morì il 10 marzo 1998, all’ospedale di Rapallo, in seguito a un collasso cardio-circolatorio e, secondo le sue volontà, venne seppellita nel cimitero genovese di Staglieno.

La nuova edizione del Porto di Toledo, che porta il «finito di stampare» in quello stesso mese e anno, uscì di poche settimane postuma. Assidue ricerche bibliografiche e d’archivio, svolte soprattutto sulle carte (le uniche sopravvissute ai numerosissimi e insistiti traslochi) rinvenute nella casa di Rapallo e custodite ora presso l’Archivio di Stato di Napoli, hanno consentito di arricchire il profilo e l’edizione del romanzo con tutti i materiali preparatori (fra i quali un fascicolo, risalente addirittura al 1928-29, rivelatosi l’illuminante diario di un’Ortese quattordicenne) che ne documentano e ne arricchiscono la lunga vicenda, e ne confermano al contempo la definizione di libro capitale (cfr. Romanzi I). Le carte liguri-napoletane hanno rivelato che anche Il cardillo addolorato ebbe una sua primitiva, mirabile versione, consistente nel racconto Mistero doloroso pubblicato postumo da Adelphi nel 2010 (per cui cfr. anche Romanzi II) e hanno svelato altresì l’insospettata inclinazione di Ortese, oltre che al romanzo breve (come testimonia il dittico Il Monaciello di Napoli - Il fantasma, comparso sempre presso Adelphi nel 2001), alla scrittura teatrale: ciò di cui dà riscontro un disordinato faldone contenente un dramma in cinque atti, Il vento passa, rimasto incompiuto e pubblicato da Empirìa (Roma 2008) in una lezione necessariamente provvisoria, che consente tuttavia di apprezzarne l’imperfetto incanto. Ulteriori ricerche hanno consentito infine di pubblicare una raccolta di scritti sulla letteratura e sull’arte, Da Moby Dick all’Orsa Bianca (a cura di M. Farnetti), che Adelphi ha dato alle stampe nel 2011.

Resta da indagare l’immenso ambito della corrispondenza epistolare, del quale alcune importanti sezioni sono già state individuate e rese disponibili editorialmente da Rosellina Archinto (Alla luce del Sud. Lettere a Pasquale Prunas, a cura di R. Prunas - G. Di Costanzo, Milano 2006; nonché Bellezza, addio. Lettere di A.M. Ortese a Dario Bellezza 1972/1992, a cura di A. Battista, ibid. 2011). Mentre tutt’intorno all’opera di Ortese si è concentrata finalmente, e in molte forme quell’amorosa attenzione che la scrittrice desiderò per sé tutta la vita, e che seppe dal canto suo magistralmente riservare alle creature e alle cose del mondo.

Opere: Angelici dolori (Milano 1937); L’Infanta sepolta (ibid. 1950; a cura di M. Farnetti, ibid. 2000); Il mare non bagna Napoli (Torino 1953; Firenze 1967; Milano 1975; Firenze 1979; Milano 1994); Silenzio a Milano (Bari 1958; Milano 1986 e 1998); I giorni del cielo (ibid. 1958); L’Iguana (Firenze 1965; Milano 1978 e 1986); Poveri e semplici (Firenze 1967; Milano 1974); La luna sul muro (Firenze 1968); L’alone grigio (ibid. 1969); Il porto di Toledo (Milano 1975, 1985 e 1998); Il cappello piumato (ibid. 1979); Il treno russo (Catania 1983; Roma 1987); Il mormorio di Parigi (Roma-Napoli 1986); La morte del folletto (Roma 1987); Estivi terrori (ibid. 1987); In sonno e in veglia (Milano 1987); La lente scura. Scritti di viaggio (a cura di L. Clerici, ibid. 1991 e 2004); Il cardillo addolorato (ibid. 1993); Le giacchette grigie della Nunziatella (dalla rist. anast. del giornale di cultura Sud (1945-1947), a cura di G. Di Costanzo, Bari 1994); Alonso e i visionari (ibid. 1996); Il mio paese è la notte (Roma 1996); Corpo celeste (Milano 1997); La luna che trascorre (a cura di G. Spagnoletti, Roma 1998); Il Monaciello di Napoli - Il fantasma (a cura di G. Iannaccone, Milano 2001); Romanzi I (a cura di M. Farnetti, ibid. 2002; comprende: Poveri e semplici, Il cappello piumato, Il porto di Toledo); Romanzi II (a cura di M. Farnetti, con la collaborazione di A. Baldi - F. Secchieri, ibid. 2005; comprende: L’Iguana, Il cardillo addolorato, Alonso e i visionari); Angelici dolori e altri racconti (a cura di L. Clerici, ibid. 2006; comprende: Angelici dolori, I giorni del cielo, La luna sul muro, in cui confluiscono anche i due racconti veri e propri contenuti in Silenzio a Milano, L’alone grigio, una scelta di racconti inediti in volume); Il vento passa (introduzione di G. Patrizi, con un saggio di G. Spagnoletti, Roma 2008); Mistero doloroso (a cura di M. Farnetti, Milano 2010).

Fonti e Bibl.: E tu chi eri? Ventisei interviste sull’infanzia, a cura di D. Maraini, Milano 1973, pp. 21-34; G. Borri, Invito alla lettura di A.M. O., Milano 1988; G. Fofi, A.M. O., in Id., Strade maestre. Ritratti di scrittori italiani, Roma 1996, pp. 201-212; R. Polese, Questa mia vita terremotata (intervista a A.M. O.), in Amica, 14 giugno 1996; N. Polla-Mattiot, «Il mio paradiso è il silenzio» (intervista a A.M. O.), in Grazia, 19 giugno 1996; M. Farnetti, A.M. O., Milano 1998; P. Azzolini, La donna Iguana, in Il cielo vuoto dell’eroina. Scrittura e identità femminile nel Novecento italiano, Roma 2001 [ma 2000], pp. 209-236; L. Clerici, Apparizione e visione. Vita e opere di A.M. O., Milano 2002; G. Fiori, A.M. O. o dell’indipendenza poetica, Torino 2002; M. Pieracci Harwell, A.M. O., in Humanitas, n.s., LVII (2002), 2, pp. 247-283; G. Iannaccone, La scrittrice reazionaria. Il giornalismo militante di A.M. O., Napoli 2003; A.M. O. Aggiungere qualcosa all’universo (video RAI), a cura di L. Rotondo e con la collab. di M. Morbidelli (programma «Vuoti di memoria») 2006; L’archivio di A.M. O., inventario a cura di R. Spadaccini - L. Iacuzio - C.M. Cuminale, Napoli 2006; Per A.M. O., a cura di L. Clerici, n. monografico de Il Giannone, IV (2006), 7-8; A. Battista, O. segreta, Roma 2008; M. Farnetti, Toledo o cara. L’esilio di A.M. O., in Id., Tutte signore di mio gusto. Profili di scrittrici contemporanee, Milano 2008, pp. 159-172; P. Sabbatino, La scrittura teatrale di A.M. O., in Riv. di letteratura teatrale, I (2008), pp. 141-150; A.M. O. Le carte, Atti del convegno di studi… 2006, a cura di R. Nicodemo - R. Spadaccini, Napoli 2009; A. Baldi, La meraviglia e il disincanto. Studi sulla narrativa breve di A.M. O., Casoria 2010; M. Tortora, A.M. O. Cinema. Con sue lettere inedite, Avellino 2010.

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