ANSIA E DEPRESSIONE

XXI Secolo (2010)

Ansia e depressione

Giuseppe Bersani

Nel corso degli ultimi anni del 20° sec., i termini ansia e depressione sono entrati sempre più a fare parte del linguaggio comune, secondo accezioni di volta in volta modulate in rapporto al contesto di conoscenza e comunicazione, come al diverso grado di acquisizione del loro significato. Nella cultura e nell’opinione comune attuali, tali concetti sono arrivati ad acquisire comunque un senso molto ampio, a volte anche fonte di incertezza o ambiguità di definizione e di impiego.

Sia l’ansia sia la depressione (o almeno il suo sentimento di base, cioè la tristezza) appartengono in modo centrale alla vita psichica normale, ma possono dispiegarsi lungo una linea di continuità fino a manifestazioni psicopatologiche anche di estrema gravità. Negli ultimi anni vi sono stati un incremento molto rilevante delle conoscenze scientifiche sulla realtà delle manifestazioni emotive alla base di ansia e tristezza e una rapida e complessa evoluzione dei modelli relativi ai meccanismi fisiologici e patologici responsabili delle rispettive condizioni patologiche.

Ansia

L’ansia come emozione di base

L’ansia costituisce l’emozione di base direttamente associata alla percezione di un pericolo per l’integrità, la salute o la sopravvivenza di un individuo o di individui per i quali sia in atto un meccanismo innato o consapevole di protezione. Essa è certamente presente, in forme evidentemente più semplici, anche in organismi animali molto più primitivi dell’uomo – come i pesci o, almeno in termini comportamentali, gli insetti, che spesso dimostrano, per es., una risposta di immobilizzazione davanti alla percezione di un pericolo – e si evolve in termini di complessità emotiva e di risposta comportamentale in modo progressivo lungo la scala filogenetica. L’ansia rappresenta un’emozione altamente protettiva della sopravvivenza dell’individuo e della specie, costituendo la base motivazionale ed emotiva dell’evitamento dei pericoli o della risposta comportamentale a essi, come anche dell’orientamento dei processi di adattamento. Nell’uomo, l’emozione ansiosa viene sia vissuta a livello preconscio sia riconosciuta in modo consapevole e quindi descritta nelle sue caratteristiche di esperienza psichica e somatica.

L’ansia come emozione patologica

L’ansia può costituire in generale una condizione patologica o, più specificamente, un sintomo di condizioni patologiche, in rapporto a un abbassamento della soglia di percezione del pericolo, tale da indurre lo sviluppo di risposte di allarme rispetto a oggetti o situazioni, sia reali sia (nell’uomo) intrapsichici, obiettivamente poco o per nulla minacciosi. Un secondo elemento che caratterizza l’ansia in quanto emozione patologica è la perdita della sua funzione adattativa per lo sviluppo di risposte a carattere inibitorio e disadattativo rispetto a richieste di prestazioni o di difesa da elementi ambientali fisici o relazionali. Nell’uomo, la dimensione patologica dell’emozione ansiosa si accompagna all’esperienza soggettiva di sofferenza e a una serie di sintomi somatici disfunzionali, anch’essi a loro volta origine di sofferenza e spesso di incremento della stessa emozione ansiosa di allarme.

Depressione

La tristezza come sentimento di base

Il sentimento della tristezza appartiene nel modo più evidente al campo della normalità della vita affettiva, delineando l’esperienza soggettiva dell’abbassamento del tono dell’umore. Questo può essere definito come il complesso dei sentimenti che permeano il contatto affettivo con la realtà sia ambientale sia interiore, che modulano l’intensità e la tonalità emotiva di tale contatto, che accompagnano e dirigono la propensione oppure il rifiuto della stessa esperienza vitale. Tristezza e felicità rappresentano due esempi speculari delle possibili varianti fisiologiche del tono dell’umore, che costituisce di per sé una funzione altamente instabile, variabile nel tempo, dotata di una naturale tendenza alle oscillazioni, sia in risposta a eventi di vita sia in accordo con meccanismi intrinseci di ritmicità o di periodicità.

Il sentimento della tristezza è frequentemente, ma non necessariamente, associato a esperienze di perdita, sia reali sia metaforiche o immaginarie. Anche esperienze molto intense di tristezza, come nel caso del lutto, per quanto caratterizzate da intenso dolore psichico e inibizione comportamentale, rivestono comunque un significato fisiologico quando commisurate all’entità della perdita affettiva, come nel caso della morte di figure affettive primarie, familiari e così via. La tristezza può accompagnarsi a distorsione della percezione somatica, con segni di sofferenza corporea indefinita, disfunzione vegetativa, iperalgesia e così via. Esperienze in qualche misura considerabili analoghe a quelle della tristezza nell’uomo possono essere riconosciute a livelli evolutivi più precoci come, per es., negli uccelli e certamente nei mammiferi, prevalentemente in rapporto a perdita di individui nell’ambito di relazioni sociali o di programmi riproduttivi, come nel caso di perdita della prole da parte di genitori impegnati in compiti di allevamento.

La tristezza come sentimento patologico: la depressione

Con il termine onnicomprensivo di depressione s’intende attualmente, nel linguaggio comune, un campo ampio di esperienze affettive che oscillano tra il ricorrente e fisiologico orientamento verso il basso del tono dell’umore, come appunto nel caso della tristezza o della demoralizzazione, e un’area anch’essa ampia di manifestazioni affettive includibili in modo più o meno definito entro i confini della psicopatologia. In quest’ultimo senso, può essere considerata depressione una flessione del tono dell’umore, sia soggettivamente vissuta sia obiettivamente riconoscibile, che ecceda, per ampiezza di escursione e per intensità di vissuto soggettivo, i limiti delle normali oscillazioni e che non sia connessa in maniera comprensibile ad adeguate esperienze di perdita.

Una serie complessa di manifestazioni psichiche e comportamentali può accompagnare in grado variabile la tristezza patologica, come perdita di interesse, di piacere, di adesione vitale all’esperienza quotidiana, di propensione progettuale verso il futuro, di energia o di iniziativa, sentimenti o convinzioni di indegnità, di colpa, di rovina, di malattia, partecipazione ansiosa o angosciata alle difficoltà dell’esperienza vitale quotidiana, condotte di ritiro sociale, inibizione comportamentale, paura o, al contrario, desiderio di morte con possibilità di condotte suicide.

La melanconia individua un’area di sofferenza depressiva grave, con esacerbazione dell’esperienza soggettiva di dolore e di perdita dell’adesione vitale al flusso delle esperienze e delle proiezioni di queste verso il futuro. Al vissuto depressivo si associano alterazioni di natura somatica o psicofisiologica, come anomalie del ritmo sonno/veglia, alterazioni neuroendocrine e del sistema vegetativo, perdita della ritmicità circadiana, alterazioni della cenestesi e così via.

Modelli animali e psicopatologia

In quanto presenti già a livelli evolutivi antichi, i corrispettivi comportamentali dell’esperienza dell’ansia e della depressione possono essere osservati e studiati in molti animali. I modelli animali delle alterazioni emotive e affettive, anche se nella loro inevitabile semplicità rispetto alla complessità di origine e regolazione della vita emotiva umana e dei relativi correlati comportamentali, sono fonte d’informazione sulla struttura di base e sui meccanismi patogenetici elementari coinvolti nella genesi delle anomalie nell’uomo. Esiste un numero molto elevato di prove e di test oggi utilizzati nella ricerca, attraverso i quali vi è la possibilità di indurre in animali da esperimento risposte emotive o affettive che riproducono in grado più semplice i fenomeni psichici e comportamentali presenti in risposte di ansia o depressione nell’uomo.

Dai risultati di queste prove si ottengono informazioni sui meccanismi elementari dell’origine delle emozioni e degli affetti. Al momento attuale l’impiego di tali test è molto ampio nell’ambito della ricerca scientifica, rivolto direttamente sia allo studio dei processi mentali semplici connessi alle risposte comportamentali, sia alla valutazione della loro variabilità in rapporto a parametri genetici o cognitivi oppure alla possibilità di validazione o modulazione mediante interventi di tipo farmacologico. La ricerca preclinica in campo psicofarmacologico si avvale in modo molto ampio dei risultati di studi etologici che utilizzano modelli sperimentali animali di ansia, depressione o di altre alterazioni della regolazione emotiva o affettiva alla base di quanto osservabile a livello comportamentale.

Il ragionamento sotteso all’applicazione di dati derivati dai modelli animali alla ricerca di strumenti di intervento su manifestazioni della sfera emotiva dell’uomo (uno dei metodi fondamentali dell’attuale ricerca in campo psicofarmacologico) è quello che riconosce nelle manifestazioni emotive semplici dell’animale la stessa organizzazione strutturale e le corrispondenti basi di implicazione funzionale cerebrale ipotizzabili nell’uomo relativamente all’origine di emozioni della stessa natura. La diversità di tale natura rispetto alle manifestazioni nell’animale viene considerata essenzialmente in termini di complessità organizzativa, sia pure valutata come enormemente più ampia e articolata. L’estensione di tale modello interpretativo, dalla semplice regolazione delle emozioni allo studio della loro patologia nell’uomo, consente di tracciare una linea di continuità evolutiva e strutturale tra il livello animale e quello umano e di applicare a quest’ultimo i risultati di ulteriori metodologie di indagine sperimentale nell’animale, non utilizzabili nell’uomo per motivi sia tecnici sia etici.

Sotto questo punto di vista, anche la complessità delle manifestazioni psicopatologiche dell’ansia e della depressione può, almeno entro certi limiti, essere interpretata alla luce di modelli più semplici e comunque maggiormente soggetti a indagine e verifica sperimentale di quanto non siano le eterogenee manifestazioni cliniche della psicopatologia.

Il concetto di disturbo nella psichiatria contemporanea

Nei sistemi di classificazione delle patologie mentali sviluppati nel corso degli ultimi decenni si è sempre più affermato l’uso del concetto e del termine di disturbo associato e progressivamente sostituito a quello di malattia. Attualmente, quindi, il concetto di disturbo mentale appare largamente più utilizzato e razionalmente sostenuto rispetto a quello precedentemente considerato di malattia mentale. Il concetto di disturbo fa essenzialmente riferimento ad almeno tre parametri. Il primo è naturalmente l’esistenza del processo morboso, cioè della malattia nell’accezione tradizionale, alla base per definizione della condizione patologica stessa. Il secondo è costituito dal riconoscimento del grado di inabilità disfunzionale in senso generale che il processo morboso arreca al soggetto affetto, sia nelle sue manifestazioni di vissuto soggettivo sia in quelle cognitive, relazionali, operative ecc., nel breve come nel lungo termine. Il terzo è rappresentato dall’approccio ateoretico al quadro clinico, che viene descritto e classificato esclusivamente in base alle sue espressioni psicopatologiche e disfunzionali e non in rapporto alle ipotesi circa i fattori patogenetici che contribuiscono alla sua insorgenza.

Classificazione attuale dell’ansia e della depressione patologiche

La nosografia psichiatrica, e specificamente quella inerente le manifestazioni patologiche di ansia e umore, ha subito variazioni molto ampie nel corso del 20° sec., essenzialmente in relazione all’inesistenza di parametri obiettivi di riferimento di supporto alla conoscenza diretta del singolo paziente.

I principali sistemi nosografici di riferimento della patologia psichiatrica all’inizio del 21° sec. sono stati rappresentati dalla 10a edizione dell’International classification of disease (ICD-10) dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), per la sezione relativa alle malattie mentali, e dalla 4a edizione del Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM-IV) dell’American psychiatric association. Per entrambi i sistemi sono già in fase avanzata di lavorazione le prossime edizioni dell’ICD-11 e del DSM-V.

I sistemi classificatori attuali rappresentano quindi l’esito, peraltro dinamico e certamente non definitivo, di un processo complesso che ha caratterizzato l’evoluzione della nosologia psichiatrica fino all’inizio di questo secolo. Tra i segni più rappresentativi dello stato attuale di tale evoluzione deve essere sottolineato il superamento della tradizionale dicotomia tra i concetti di nevrosi e di psicosi, che ha invece caratterizzato la nosologia psicopatologica del secolo precedente. Il primo, derivato concettualmente dalla psicoanalisi, vedeva nella manifestazione sintomatica, ansiosa, depressiva o di altra natura, l’espressione di conflittualità inconscia tra diverse istanze di tipo pulsionale, mentre il secondo era prevalentemente riferito al modello di una originaria patologia cerebrale, più o meno chiaramente identificata nel suo rapporto con i diversi aspetti sintomatici della perdita del contatto con la realtà.

Questo comporta la possibilità attuale, che appare in realtà come una linea ispiratrice dello sviluppo futuro della psicopatologia, di classificare i disturbi mentali sia nella loro ascrivibilità a ben delimitate categorie diagnostiche, sia in base alla tipologia di base o alle dimensioni psicopatologiche costitutive dei diversi quadri clinici.

I disturbi di ansia

La classificazione maggiormente utilizzata dei disturbi di ansia è oggi quella del DSM-IV, che costituisce in qualche misura un linguaggio descrittivo comune per gli psichiatri di buona parte del mondo, mentre la classificazione dell’ICD-10 trova i suoi campi di maggiore applicazione nell’epidemiologia e nella statistica sanitaria.

Il DSM-IV, nel capitolo sui disturbi di ansia, descrive una serie di disturbi, anche in buona parte eterogenei tra loro, definiti dalla presenza di sintomi di ansia giudicati come patologici, tra cui alcuni più rilevanti per frequenza o severità.

a) Disturbo di panico senza agorafobia e disturbo di panico con agorafobia. Sono caratterizzati dall’insorgenza di episodi di attacchi di panico in assenza o in presenza di situazioni scatenanti riconoscibili nei termini dell’agorafobia. L’attacco di panico è definito come un episodio di intensa sensazione ansiosa a insorgenza acuta, a sua volta caratterizzata dalla presenza di sintomatologia somatica soggettiva acuta, intensa e polimorfa. Sul piano psichico l’ansia acuta si associa a esperienze di derealizzazione (sensazione di ir-realtà) o depersonalizzazione (sensazione di essere distaccati da sé stessi), timore di perdere il controllo, di impazzire, di svenire o di morire, spesso con reale sensazione di morte imminente. L’agorafobia è una manifestazione di ansia che ha la sua origine nel fatto di trovarsi in situazioni caratterizzate da lontananza reale o immaginaria rispetto alla possibilità di essere soccorsi in caso di malessere somatico o attacco di panico; è quindi comunemente generata dal trovarsi in luoghi o spazi aperti e solitari o al contrario in luoghi angusti e chiusi. Il disturbo di panico, con o senza agorafobia, è costituito da ricorrenti episodi di attacchi di panico e dallo sviluppo di ansia anticipatoria e di condotte in cui si evitano luoghi, oggetti e situazioni considerati, per diretta esperienza o per previsione, come potenzialmente in grado di indurre la comparsa di un attacco di panico.

b) Fobia specifica. È caratterizzata da paura grave e costante, obiettivamente irrazionale rispetto al contesto ambientale e culturale di manifestazione, verso oggetti o situazioni specifici e spesso selettivi, quali animali, luoghi elevati, situazioni atmosferiche, il volo in aereo.

c) Fobia sociale. È caratterizzata da ansia in rapporto a situazioni di esposizione reale o temuta al giudizio di altri, come parlare in pubblico, sostenere esami, trovarsi al centro dell’attenzione.

d) Disturbo ossessivo-compulsivo. È, potenzialmente, il più grave e invalidante tra i disturbi di ansia, ad andamento cronico, in cui idee non condivise dal paziente, spesso relative a dubbi o esigenze di precisione e completezza, non riescono a essere allontanate se non mediante messa in atto di comportamenti ripetitivi e rituali, a volte apparentemente non connessi al contenuto dei pensieri avvertiti come estranei.

e) Disturbo di ansia generalizzata. È caratterizzato dalla presenza costante di uno stato di allarme immotivato e da sintomi di somatizzazione dell’ansia.

f) Disturbo postraumatico da stress. È caratterizzato da sintomi ansiosi costanti e da episodi acuti di angoscia conseguenti nel tempo a esperienze di rischio immediato di vita o di grave spavento.

La tipologia patogenetica dell’ansia patologica

Attualmente, le linee di interpretazione derivate da diverse scuole di psicologia, anche se in una gamma estremamente ampia di letture e interpretazioni, consentono di riconoscere, nell’ambito del concetto di ansia, nella sua accezione in termini di psicopatologia, alcuni elementi strutturali relativi a diversi meccanismi di origine, la cui prevalenza e associazione possono essere considerate una chiave di lettura utile nel formulare ipotesi sull’origine delle principali manifestazioni patologiche dell’ansia.

In analogia con quanto già accennato in precedenza, si tratta di processi psichici appartenenti alla vita mentale normale e alla normale struttura della vita psicologica e di relazione, in grado tuttavia di configurarsi in una connotazione patologica in caso di assunzione di un ruolo dominante nelle modalità di relazione e risposta del vissuto emotivo.

Ansia di allarme. È così definito il quadro emozionale che si accompagna alla percezione di una situazione di pericolo, sia realmente presente sia non riconoscibile in una valutazione obiettiva. Si accompagna generalmente a manifestazioni somatiche che, nell’uomo come nell’animale, predispongono, nella loro dimensione normale, alla risposta al pericolo, cioè a reazioni di attacco o di fuga, ma che nel caso dell’ansia di allarme nelle sue dimensioni patologiche costituiscono dei veri sintomi somatici del disturbo, quali tachicardia, aumento della pressione arteriosa, tensione muscolare, oltre a tutti gli altri possibili sintomi di somatizzazione dell’ansia. L’ansia di allarme costituisce un fattore strutturale centrale nel caso del disturbo di ansia generalizzata ed entra inoltre frequentemente a fare parte della struttura di quasi tutti gli altri disturbi di ansia.

Ansia di separazione. È così definita la risposta emotiva a carattere ansioso che si accompagna alla separazione da figure affettive primarie o, per estensione, da qualunque figura o situazione vissute, a livello sia cosciente sia inconsapevole, in un ruolo di protezione. Comune spesso già nell’infanzia e frequentemente anche in qualche modo indotta o sostenuta dalla stessa difficoltà dei genitori a tollerare l’allontanamento del bambino, può arrivare a costituire una struttura fondante dello stile relazionale. L’espressione patologica dell’ansia da separazione si manifesta nella risposta ansiosa a situazioni di isolamento, di interruzione di rapporti affettivi, di percezione di assenza di figure protettive e può comportare assetti di personalità in cui prevalgono elementi di dipendenza affettiva e rigidamente si evitano situazioni di isolamento e pericolo. L’ansia di separazione costituisce un elemento psicologico strutturale di diversi disturbi di ansia, primi tra tutti, ovviamente, quelli caratterizzati da prevalenza dell’agorafobia.

Ansia di giudizio. È così definita la componente emotiva che accompagna l’attesa della risposta del giudizio sul proprio operato da parte di figure comunque avvertite in posizione di potenziale critica o svalutazione. Anche questa forma di ansia riconosce spesso le sue origini in esperienze relazionali precoci, successivamente strutturanti specifici stili cognitivi e relazionali. Sul piano comportamentale si esprime nella tendenza a evitare situazioni di esposizione a giudizio, sia individuale sia pubblico, mentre su quello cognitivo e affettivo si accompagna a convinzione o sentimento di ridotta autostima o di incapacità di sostenere situazioni di giudizio in senso lato. Nella sua dimensione psicopatologica, l’ansia di giudizio è alla base della fobia sociale, ma si esprime spesso anche in condotte evitanti e quadri sintomatici analoghi a quelli presenti nel disturbo di panico.

Ansia di perdita di controllo. È così definita una particolare forma di percezione di pericolo associata alla sensazione di non potere essere in grado di controllare le situazioni in senso generale e, più specificamente nelle diverse possibilità, il proprio stato di salute fisica, il proprio stato di consapevolezza e di controllo mentale, il proprio comportamento, particolari aspetti della realtà ambientale sia interpersonale sia fisica e così via. Se entro certi limiti la necessità di possedere una visione cosciente delle situazioni di vita in senso lato e delle possibilità di averne un sufficiente grado di consapevolezza e controllo appartiene alla sfera della vita psichica normale, la preoccupazione relativa alla perdita di tale possibilità si traduce di frequente in strutture francamente patologiche che possono manifestarsi secondo diverse modalità di espressione clinica, come nel caso dei disturbi d’ansia in cui sono presenti attacchi di panico che rappresentano di per sé la risposta acuta di angoscia alla sensazione di stare perdendo il controllo sul proprio corpo o sulla propria mente, o come nel caso del disturbo ossessivo-compulsivo, in cui la necessità coatta del controllo della propria mente, del proprio comportamento o del proprio ambiente costituisce l’essenza stessa del disturbo.

La diffusione dei disturbi di ansia

Gli studi epidemiologici sulla diffusione dei disturbi di ansia forniscono dati assolutamente eterogenei nelle diverse popolazioni, ma è costante, almeno nel contesto sociale europeo o nordamericano, il rilievo di un incremento della loro incidenza, che può essere considerato in relazione a numerosi ordini di fattori. Al di là, comunque, della modificata influenza di vari potenziali elementi eziopatogenetici, sostanzialmente non dimostrata almeno per le varianti intrapsichiche all’origine dei disturbi, deve essere considerato il peso esercitato sui dati statistici da fattori di natura essenzialmente culturale, quali la maggiore attenzione nell’opinione sia pubblica sia medica alla sintomatologia psichica intesa in senso generale, il più definito inquadramento diagnostico di situazioni morbose in passato non riconosciute in termini di reale disturbo, l’attribuzione di valore di patologia a situazioni o manifestazioni non sempre ben delimitabili rispetto a normali, anche se intense, espressioni della vita emotiva.

I disturbi depressivi

Anche per i disturbi depressivi la classificazione del DSM-IV rappresenta il sistema di riferimento di più largo impiego in ambito clinico a livello internazionale, mentre quella dell’ICD-10 costituisce la base per indagini di natura epidemiologica.

La depressione viene valutata dal DSM-IV nell’ambito dei disturbi depressivi di tipo bipolare, caratterizzati dall’alternanza di episodi di depressione e di eccitamento, e di tipo unipolare, definiti dalla sola presenza, ricorrente o continuativa, di quadri clinici di patologica flessione del tono dell’umore. Come nel caso dei disturbi di ansia, la classificazione segue un criterio assolutamente descrittivo, in assenza di riferimenti alle ipotesi patogenetiche circa l’origine dei diversi disturbi depressivi.

a) Disturbo depressivo maggiore, episodio singolo o ricorrente. È caratterizzato dalla presenza di un episodio depressivo maggiore, di elevata severità clinica, che può presentarsi in modo isolato oppure ripetersi due o più volte nel corso della vita del paziente.

b) Disturbo distimico. Presenta un andamento cronico e della durata di almeno due anni, con sintomi depressivi meno gravi, ma fortemente invalidanti sul piano dell’operatività, delle relazioni sociali, dell’esperienza vitale.

L’alternanza di episodi depressivi maggiori ed episodi maniacali, ipomaniacali o misti configura il quadro del disturbo bipolare, di I o II tipo in rapporto alla gravità degli episodi di eccitamento, mentre il disturbo ciclotimico prevede l’alternanza rapida di episodi di depressione e di eccitamento, entrambi caratterizzati da severità clinica non elevata.

Le tipologie descrittive della depressione

Al di là della classificazione fortemente schematica e categoriale del DSM-IV, l’ampia variabilità di presentazione clinica della depressione ha comportato nel tempo l’evoluzione di diversi criteri di descrizione.

Le dicotomie tra depressione di natura endogena o psicogena, autonoma o reattiva, nevrotica o psicotica ecc. hanno rappresentato per lungo tempo un criterio di indicazione circa la supposta prevalente eziologia dei singoli casi di depressione. Anche se sostanzialmente superate da visioni sia di natura biologica sia di natura integrativa del disturbo, tali terminologie conservano ancora un certo grado di diffusione nella descrizione di diverse situazioni cliniche.

La descrizione sindromica della depressione è ancora quella di più largo uso nel linguaggio clinico comune, non vincolato dall’adesione a criteri descrittivi o classificativi predefiniti. Espressioni quali depressione ansiosa, sindrome ansioso-depressiva, depressione inibita, depressione delirante sono tuttora comuni nel linguaggio medico, spesso anche non specialistico, oltre che in accezioni descrittive esulanti dal contesto medico, quali, per es., quelle dell’ambito lavorativo o della comunicazione su mezzi d’informazione di massa.

Lo stesso DSM-IV si propone di riconoscere tale variabilità clinica, non sufficientemente rappresentata dai semplici criteri diagnostici dei diversi disturbi depressivi, mediante la definizione di ‘specificatori’, cioè di descrizioni predefinite delle principali forme di presentazione della depressione, indipendentemente dal suo grado di severità. La depressione maggiore può essere quindi più specificamente descritta con sintomi melanconici, psicotici, atipici, catatonici, con insorgenza nel post partum, con andamento stagionale e così via.

La psicopatologia della depressione, oltre che in generale tutto il campo dell’interpretazione della psicopatologia, ha riconosciuto negli ultimi due decenni il suo aspetto più innovativo nello sviluppo del concetto di dimensioni psicopatologiche. Questo concetto fa riferi-mento all’esistenza di raggruppamenti sintomatici prevalentemente ascrivibili a sottostanti entità psicopatologiche complesse, a loro volta riconducibili a specifici terreni di natura neurobiologica, variamente associate nella composizione dei singoli quadri clinici e concorrenti in modo diretto a determinarne sia la ricorrenza di aspetti sintomatici sia la singolarità dei casi individuali. Le dimensioni melanconica, ansiosa, ossessiva, apatica, ostile, psicotica, di volta in volta più attentamente descritte o individuate, rappresentano l’oggetto di un criterio descrittivo e interpretativo della depressione più vicino ai suoi modelli patogenetici e più informativo rispetto alla scelta razionale delle terapie.

La diffusione della depressione

Anche per la depressione i dati epidemiologici concordano nel rilevare un costante aumento della sua incidenza, almeno nel contesto socioculturale occidentale. L’Organizzazione mondiale della sanità ha previsto per il 2020 per la depressione la seconda posizione tra tutte le malattie come causa di disabilità. Indipendentemente dalla reale possibilità di effettuare una simile proiezione, è indubbio che il rilievo di fenomeni depressivi sia in netto incremento. Anche in questo caso l’ordine di fattori da considerare può essere duplice. Da una parte, reali fattori neurobiologici o psicosociali di rischio possono avere incrementato in modo graduale il loro peso, prevalentemente in rapporto ad aumento di fattori sociali o stili di vita caratterizzati da protratte esperienze di stress o da allentamento o maggiore precarietà di contesti relazionali o affettivi stabili e protettivi. Dall’altra, è opportuno considerare il ruolo svolto da una maggiore attitudine culturale, non solo medica, di riconoscimento delle manifestazioni depressive, con il conseguente aumento di casi clinici considerati nelle casistiche epidemiologiche, anche di natura o severità tali da avere consentito in passato di non comprenderli in tale ordine di rilevazione.

Le basi cerebrali di ansia e depressione

Dalla fine del 20° sec. sono stati compiuti rilevanti passi avanti nel campo delle conoscenze circa le implicazioni cerebrali nell’ansia e nella depressione. Il termine stesso di implicazione, peraltro, indica la tendenza, oggi diffusa, a considerare i correlati anatomici e funzionali delle manifestazioni patologiche dell’emozione ansiosa e del sentimento depressivo, senza tuttavia ascrivere a questi in modo unidirezionale un significato di causa o di espressione dei processi morbosi.

Una quantità vastissima di studi sperimentali su tale argomento ha permesso di raccogliere un numero estremamente ampio di evidenze sulle implicazioni cerebrali di ansia e depressione, anche se un modello conclusivo dei rispettivi meccanismi di regolazione e di disfunzione, come pure delle reciproche interazioni, non può ancora considerarsi raggiunto.

Le metodologie di indagine sperimentale più utilizzate hanno fatto riferimento, da una parte, allo studio di centri e circuiti cerebrali direttamente connessi alla regolazione normale e patologica della sfera emozionale e affettiva, indagati mediante tecniche di ricerca neurofisiologica e di visualizzazione cerebrale (neuroimaging) sia strutturale sia funzionale, dall’altra allo studio di parametri neurochimici, essenzialmente il ruolo dei diversi neurotrasmettitori, di fattori di neuromodulazione e neuroendocrini e, più recentemente, di fattori implicati nei meccanismi di neuroplasticità.

Ansia patologica

Gli studi sperimentali sugli animali e i dati derivati da osservazioni nell’uomo convergono nell’indicare l’esistenza di alcuni circuiti maggiormente connessi alle manifestazioni patologiche dell’ansia. Queste costituiscono, tuttavia, un terreno ampiamente eterogeneo in rapporto alle sue diverse tipologie mentre i dati estrapolabili dalle evidenze sperimentali, provenienti prevalentemente da studi sugli animali, non sono sempre esportabili con facilità nell’interpretazione delle osservazioni cliniche nell’uomo.

La regolazione dell’emozione ansiosa, del vissuto soggettivo dell’ansia, delle modificazioni somatiche indotte dall’ansia e dei comportamenti a essa associati avviene prevalentemente, in modo altamente integrato, a livello di strutture cerebrali del sistema limbico. Un ruolo centrale nel riconoscimento dello stimolo ansiogeno e dell’origine della stessa ansia sembra essere svolto dall’amigdala, a sua volta in stretta connessione con l’ippocampo, per quanto riguarda il ricordo di precedenti esperienze ansiose, e con la corteccia prefrontale, per l’elaborazione cognitiva di tale esperienza. All’attivazione di nuclei dell’ipotalamo viene attribuita la componente somatica dell’ansia, mentre lo sviluppo di quadri acuti di allarme sembra essere mediato dall’attivazione a livello mesencefalico del locus coeruleus.

Sul piano neurochimico, le conseguenze di una ridotta attività del neurotrasmettitore inibitore GABA (Gamma-AminoButyric Acid) viene indicato essenzial-mente dall’azione ansiolitica dei farmaci che potenziano l’azione di tale neuromediatore. Esistono dati consistenti dimostrativi di un ruolo centrale svolto dal sistema di trasmissione mediata dalla serotonina, che esplicherebbe fisiologicamente un’azione di inibizione della reattività emotiva e una cui ridotta attività potrebbe essere associata allo sviluppo di quadri ansiosi, in particolare di natura cronica, come nel caso del disturbo ossessivo-compulsivo, o ricorrente, come in quello del disturbo di panico. Le manifestazioni acute dell’ansia sarebbero invece maggiormente associate a uno stato di iperattività della neurotrasmissione mediata dalla noradrenalina, legata all’attivazione dei neuroni del locus coeruleus, come nel corso di un attacco di panico.

Correlati neuroendocrini dell’ansia, soprattutto a decorso cronico, sembrano essere l’attivazione del sistema ipotalamo-ipofisi-corticosurrene, con incremento dei livelli periferici di ormone adrenocorticotropo e cortisolo, e il rilascio di ormoni cosiddetti da stress, come ormone somatotropo e prolattina.

Sul piano anatomico, dati ripetuti sono riportati solo nel caso del disturbo ossessivo-compulsivo, con incremento volumetrico di alcuni nuclei della base, e nel disturbo postraumatico da stress, con frequente riscontro di atrofia dell’ippocampo.

Depressione

Nonostante la rilevanza della componente affettiva nella vita mentale dell’uomo, le conoscenze sui centri e i circuiti realmente implicati nella sua regolazione sono ancora incomplete e in parte soggette a ipotesi in attesa di definitiva verifica. Anche nel caso dell’umore, le regioni cerebrali maggiormente coinvolte sembrano situarsi a livello del sistema limbico, ma con una serie più ampia di connessioni con altre strutture, sia sottocorticali, come a livello del ponte cerebrale e del mesencefalo, sia cerebellari e corticali, particolarmente a livello della corteccia prefrontale e di altre regioni corticali a essa connesse, quali giro del cingolo, corteccia orbitaria e, soprattutto, strutture della regione temporo-ippocampale e così via.

Sul piano anatomico, la depressione, in particolare se grave e prolungata, è spesso associata ad atrofia dell’ippocampo e di regioni frontocorticali. Sul piano fisiopatologico, con diverse tecniche di neuroimaging funzionale, si sono osservate modificazioni, prevalentemente deficitarie, del metabolismo a carico più di frequente delle regioni cortico-frontali, spesso con maggiore rilevanza nell’emisfero destro.

I dati più consistenti sull’implicazione neurobiologica della depressione sono quelli che riguardano i sistemi di neurotrasmissione. Il sistema di trasmissione mediato dalla serotonina, con sedi principali a livello dei nuclei del rafe pontino, e quello mediato dalla noradrenalina, con sede principale nel mesencefalo a livello del locus coeruleus, vengono considerati prevalentemente ipofunzionanti e il modello monoaminergico della depressione individua in un deficit prevalente di questi due sistemi la principale alterazione neurochimica della patologia, in grado di indurre la maggiore quota delle possibili espressioni del quadro sintomatico. Esistono comunque dati consistenti sull’implicazione di altri sistemi di neurotrasmissione, quali quelli mediati da dopamina e acetilcolina.

Il modello che fa riferimento ad alterazioni dei sistemi monoaminergici è stato recentemente integrato con evidenze concernenti l’implicazione di assi neuroendocrini, soprattutto per l’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene, per anomalie basali dell’asse ipotalamo-ipofisi-tiroide e per alterazioni del sistema circadiano, prevalentemente espresse da alterazioni di durata, fase e architettura del sonno, associate a modificazioni del bioritmo della melatonina.

Le ipotesi più recenti sulla patogenesi della depressione, tuttora in corso di rapida evoluzione e verosimilmente in grado di fornire interpretazioni più complesse e complete nel corso di un prossimo futuro, sono sostenute dall’evidenza di alterazione deficitaria di processi di neurogenesi, cioè di riproduzione neuronale, in regioni cerebrali dove questa persiste fisiologicamente nell’età adulta, particolarmente in alcune regioni dell’ippocampo.

Un modello integrato della patogenesi della depressione ipotizza allo stato attuale che, in terreni neurobiologici individuali vulnerabili per diatesi genetica o esperienze precoci di perdita o separazione, condizioni di stress protratto possano associarsi a iperattivazione cronica del sistema ipofiso-corticosurrenalico (con elevati livelli ematici di cortisolo in grado di esplicare un effetto neurotossico sulle cellule ippocampali su cui sono prevalentemente situati i recettori per i glucocorticoidi), tale da ridurne la produzione di fattori neurotrofici – cioè di molecole deputate al mantenimento del trofismo, della connettività e della riproduttività cellulare – tra i quali il più studiato è oggi il BDNF (Brain-Derived Neurotrophic Factor), con conseguente inibizione della neurogenesi e deficit funzionale della trasmissione serotoninergica e noradrenergica.

Fattori condivisi

Le analogie e sovrapposizioni che si rilevano nei quadri clinici di ansia patologica e depressione presentano alcuni elementi di riscontro anche nelle rispettive implicazioni neurobiologiche. Gli stessi sistemi di neurotrasmissione, mediati da serotonina e noradrenalina, risultano coinvolti in modo centrale in entrambi gli ordini di disturbi, e farmaci in grado di potenziare il tono funzionale di tali sistemi, ancora specificamente definiti come antidepressivi, esplicano un potente effetto terapeutico sia nella depressione sia nei disturbi di ansia.

Sul piano evolutivo, è di frequente riscontro la continuità tra quadri primitivamente ansiosi e successive manifestazioni di natura depressiva, ipoteticamente mediata dagli effetti dello stress cronico sull’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene e dalla conseguente inibizione della neurogenesi nell’ippocampo o in altre strutture cerebrali potenzialmente coinvolte.

Sul piano anatomico, l’atrofia ippocampale è riscontrata sia in pazienti depressi sia in alcuni casi di disturbo postraumatico da stress, mentre sono più indirette e incostanti le analogie sulle alterazioni strutturali e funzionali delle regioni corticali, prevalentemente frontali.

Terapie

L’evoluzione delle possibilità di cura delle manifestazioni patologiche dell’ansia e della depressione è proceduta in parallelo con quella del loro riconoscimento quali entità morbose definibili come possibili obiettivi delle terapie e con quella delle conoscenze sui loro meccanismi patogenetici, di natura sia neurobiologica sia psicologica.

Anche se con le necessarie distinzioni imposte dalla varietà delle presentazioni cliniche, la tendenza oggi prevalente attribuisce un ruolo centrale a trattamenti che integrino interventi di tipo farmacologico e psicoterapeutico. In linea generale, la severità complessiva del quadro clinico rende prioritaria la terapia farmacologia, in particolare per quanto riguarda i disturbi depressivi, mentre forme meno gravi e più legate a caratteristiche di base della personalità possono essere utilmente trattate in via prioritaria con diverse tecniche di psicoterapia.

D’altro lato, alcuni dati sperimentali recenti, ottenuti con tecniche di neuroimaging funzionale, evidenziano come anche pazienti trattati con psicoterapia dimostrino spesso modificazioni del livello e della tipologia di funzionamento cerebrale, in qualche misura analoghe a quelle associate alla risposta terapeutica ai trattamenti farmacologici.

Per quanto riguarda specificamente i disturbi di natura depressiva, viene riconosciuta allo stato attuale un’azione di elevata efficacia terapeutica a numerose tecniche di terapia fisica.

Ansia

L’ansia in quanto tale, particolarmente nelle sue ma-nifestazioni acute e nella sua sintomatologia psicosomatica, risponde rapidamente al trattamento con farma-ci che potenziano il sistema di neurotrasmissione mediato da GABA, quali principalmente quelli della classe delle benzodiazepine, oggi i più efficaci e diffusi tra i farmaci ansiolitici, dotati anche di effetto ipnoinducente, miorilasciante, anticonvulsivante. Tuttavia, l’effetto di tali farmaci è sostanzialmente di breve durata e non è in grado, tranne che in una percentuale minore di casi, di eliminare il ripresentarsi di sintomi cronici o episodi acuti di ansia. Inoltre, il loro uso prolungato può generare fenomeni di dipendenza sia psichica sia somatica.

Un effetto terapeutico più consistente e stabile è invece ottenuto mediante trattamento con farmaci, ancora indicati come antidepressivi, dotati di azione di potenziamento della neurotrasmissione mediata da serotonina e noradrenalina. Tali farmaci, evolutisi nel corso degli anni quanto a selettività di azione a livello neuronale, inducono nella maggior parte dei casi una buona risposta terapeutica, che si evidenzia peraltro dopo un periodo di latenza dall’inizio del trattamento. Farmaci in grado di potenziare più specificamente la trasmissio-ne serotoninergica appaiono più efficaci nel trattamento di disturbi ad andamento cronico o ricorrente, come il disturbo ossessivo-compulsivo o quello di panico.

Un numero molto elevato di tecniche di psicoterapia trova indicazione e dimostra variabili gradi di efficacia nei disturbi di ansia e il loro impiego, isolato o in integrazione con il trattamento farmacologico, rappresenta certamente uno strumento in grado di ridurre incidenza e severità della sintomatologia ansiosa, riconoscendo come obiettivo, in rapporto ai presupposti teorici delle diverse tecniche, la rimozione di quelle strutture o condizionamenti psichici reputati all’origine dei quadri clinici. Trattamenti psicoterapeutici di orientamento psicoanalitico, cognitivo-comportamentale e relazionale-sistemico sono allo stato quelli più utilizzati, anche se esiste una certa concordanza di vedute nell’individuare nelle terapie cognitivo-comportamentali quelle dotate di una maggiore efficacia in tempi medi sull’espressione sintomatica dei disturbi.

Depressione

Esiste un accordo molto ampio nel riconoscere nel trattamento farmacologico la terapia di prima scelta nella depressione, almeno nei casi di severità clinica moderata o grave. Le prime classi di farmaci antidepressivi sviluppate a partire dagli anni Cinquanta, quel-le dei farmaci triciclici (TCA) e degli inibitori delle monoamminossidasi (IMAO), in parte peraltro ancora utilizzate, sono state affiancate e prevalentemente sostituite da classi di agenti dotati di elevata potenza terapeutica, selettività di azione a livello neurochimico e sufficiente tollerabilità somatica, quali quelle degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) e degli inibitori della ricaptazione di serotonina e no-radrenalina (SNRI). Altri agenti dotati di efficacia antidepressiva agiscono secondo meccanismi di azione strutturalmente analoghi, ma con peculiarità che non ne consentono l’inclusione in tali classi principali.

L’azione dei farmaci antidepressivi si esplica dopo un periodo di latenza di qualche settimana e il trattamento deve essere protratto per periodi prolungati, ma l’effetto terapeutico è poi frequentemente stabile anche dopo la sospensione del trattamento, nonostante esista un’amplissima variabilità in termini di decorso, tendenza a ricadute o recidive, necessità di trattamento di mantenimento e così via. Al trattamento con antidepressivi deve essere spesso associata, almeno nelle fasi iniziali, una terapia con farmaci ansiolitici o ipnoinducenti. Nei casi caratterizzati da maggiore instabilità dell’umore o con tendenza a episodi di eccitamento o di subeccitamento, è utile l’associazione di farmaci ad azione di stabilizzazione dell’umore, quali i sali di litio o farmaci della classe degli anticonvulsivanti. Gli stabilizzatori dell’umore possono anche essere utilizzati nella profilassi di episodi depressivi ricorrenti.

L’efficacia terapeutica degli antidepressivi viene generalmente attribuita alla loro azione di potenziamento della trasmissione serotoninergica e noradrenergica, ma esistono numerose evidenze che l’effetto antidepressivo possa essere mediato anche, se non principalmente, dall’azione sulle alterazioni dei meccanismi di neuroplasticità cerebrale. In tale ottica sono in corso di sviluppo nuove classi di agenti antidepressivi, caratterizzati da azione di antagonismo dei recettori per i glucocorticoidi, antagonismo dei recettori della sostanza P, incremento dell’espressione di BDNF e dei processi di neurogenesi in generale, potenzialmente in grado di esplicare un’azione a un livello più prossimo a quello delle reali alterazioni neuronali associate alla depressione.

Il ruolo della psicoterapia nella cura della depressione è in parte più controverso di quello riconosciuto rispetto ai disturbi di ansia; varie tecniche di psicoterapia vengono comunque utilizzate anche in pazienti depressi, pur se in quelli più gravi l’indicazione al trattamento farmacologico è assolutamente prioritaria e insostituibile. Interventi di impostazione psicoanalitica, cognitivo-comportamentale o sistemico-relazionale dimostrano comunque frequentemente un certo grado di efficacia, in particolare nella prevenzione di episodi ricorrenti o nella terapia di depressioni ad andamento cronico, mirati anche in questo caso alla modifica o alla ridefinizione di strutture affettive o cognitive implicate a livello psicologico nella genesi degli episodi depressivi.

Rivestono un ruolo di rilievo nel trattamento della depressione anche tecniche di terapia fisica che hanno subito un’evoluzione negli ultimi anni. Attualmente l’interesse scientifico e clinico nei loro confronti è molto più elevato rispetto al passato.

La terapia elettroconvulsivante (TEC), nota in passato come elettroshock, ha subito vicende alterne nel suo impiego, in rapporto ad assenza o disponibilità di altre terapie o ad avversione pregiudiziale in relazione alla sua identificazione con le vecchie forme di psichiatria di tipo manicomiale. Al momento attuale, viene riconosciuta come il più potente strumento terapeutico nei casi più gravi di depressione e nei casi di resistenza ai trattamenti farmacologici e il suo uso è largamente diffuso in tutti i Paesi europei e occidentali ma è ancora discusso in Italia, in rapporto a pregiudiziali di natura prevalentemente ideologica.

La stimolazione magnetica transcranica ripetuta (rTMS) e la stimolazione del nervo vago (VNS) hanno dimostrato un indiscusso effetto antidepressivo, anche se un loro esatto posizionamento clinico rispetto a indicazione ed efficacia sarà verosimilmente completato solo nei prossimi anni.

Altre tecniche più invasive, come la stimolazione cerebrale profonda (DBS), o altre in fase poco più che sperimentale devono ancora dimostrare in modo definitivo la loro efficacia o la loro utilità anche nel rapporto tra rischio e beneficio.

La light therapy, o fototerapia, tecnica curativa basata sull’uso controllato di particolari sorgenti di luce, è invece largamente impiegata nel trattamento di quelle forme di depressione associate alla sensibilità ai cambiamenti stagionali e alla diminuzione della durata e quantità della luce giornaliera, come nel caso delle depressioni a ricorrenza autunno-invernale. La sua efficacia è ampiamente documentata anche in quelle indicazioni in cui nell’origine del quadro depressivo risulti individuabile il fattore patogenetico che causa una sensibilità alle modificazioni fisiche ambientali oppure alterazioni dei bioritmi.

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