Antimachiavellismo

Enciclopedia machiavelliana (2014)

antimachiavellismo

Alessandro Campi

Tra il giudizio che si legge nell’Apologia ad Carolum V del cardinale Reginald Pole (→), che nel 1539 definiva il Principe un libro «scritto dal dito di Satana» e il suo autore un «nemico del genere umano», e quello attribuito nella seconda metà del Novecento da Isaiah Berlin (ma senza un preciso riferimento testuale) al logico e filosofo Bertrand Russell, secondo il quale l’opuscolo machiavelliano «is a handbook for gangsters», corrono poco più di quattrocento anni, nel corso dei quali s’è radicata una tradizione di pensiero – definita convenzionalmente a. – che risulta caratterizzata, pur nella varietà delle sue manifestazioni storiche, da un’aperta, profonda e persistente ostilità nei confronti di M. e soprattutto degli insegnamenti, teorici e pratici, che si ricaverebbero dalle sue opere (a partire dalla più famosa, ma anche da quella considerata più pericolosa e subdola, appunto il Principe); insegnamenti tutti nel segno dell’empietà e di un cinismo senza speranze, di un’assoluta indifferenza al dettato dell’etica e ai precetti della religione cristiana, di un materialismo e di un ateismo manifesti, che hanno finito per rendere il Segretario fiorentino un personaggio sinistro e maledetto agli occhi di vasti settori della cultura e della politica, sino a farlo diventare l’oggetto di condanne senza appello, di messe al bando e di campagne d’odio.

L’a. non rappresenta una corrente unitaria e omogenea, dal momento che ha assunto manifestazioni intellettuali molteplici (alcune culturalmente degne di nota ed elaborate, altre dozzinali e triviali), specifiche coloriture nazionali e religiose (l’a. francese è stato diverso da quello inglese, l’a. cattolico non del tutto assimilabile a quello protestante), forme espressive anch’esse differenti (dal trattato erudito al libello deliberatamente diffamatorio, dalla contestazione d’autore alla reprimenda o denuncia anonima) ed è stato influenzato o alimentato da circostanze e costellazioni storiche molto diverse (la pubblicistica antimachiavelliana è stata variamente ispirata dalla Controriforma seicentesca, dall’Illuminismo riformatore settecentesco e dall’antitotalitarismo novecentesco).

Al tempo stesso, si tratta di un filone che non va confuso (secondo l’avvertenza metodologica di Rodolfo de Mattei 1969) con le critiche e le confutazioni teoriche, in alcuni casi persino radicali, che nel corso dei secoli sono state rivolte da numerosi autori al pensiero machiavelliano. Ciò che caratterizza e rende riconoscibile l’a. in senso proprio rispetto a queste ultime, infatti, è il rifiuto pregiudiziale e tendenzioso del pensiero machiavelliano (peraltro quasi sempre appiattito sul solo Principe, se non su parti di esso, e spesso nemmeno basato su una conoscenza diretta dei testi); è la riduzione della figura storica di M. a una serie di immagini semplificatrici e stereotipate (il precettore e consigliere dei tiranni, l’intrigante astuto e diabolico, l’ateo incallito e il nemico della Chiesa, il libertino immorale, il politico cinico e senza scrupoli interessato solo al potere, il maestro nell’arte della simulazione, il corruttore di animi e costumi), sino a scivolare in molti casi nel caricaturale, nel grottesco e nel deformante (come quando i suoi denigratori hanno imputato a M. fattezze o inclinazioni animalesche o ne hanno fatto un’incarnazione terrena del Maligno); è infine l’uso deliberatamente strumentale, pretestuoso e polemico delle sue opere dettato da ragioni ideologiche e politiche che spesso poco hanno avuto a che fare con il loro contenuto intrinseco e che piuttosto rimanda a momenti ed episodi della storia politica europea (si pensi, per fare un esempio, all’epoca delle guerre di religione in Francia a metà del XVI secolo) nel corso dei quali M. – banalizzato a fautore di una politica ridotta a violenza, sopraffazione e inganno – è stato l’oggetto preferito, va da sé incolpevole, dello scontro propagandistico tra i diversi fronti in lotta.

Non c’è dubbio, per precisare meglio questo punto, che sia i diversi esponenti dell’a., così come gli avversari di M. di maggior spessore politico-intellettuale, abbiano condiviso l’idea che quest’ultimo sia stato un innovatore radicale: non solo il sostenitore di una visione della politica che rompeva con la tradizione classica, ma anche «uno degli iniziatori dello spirito moderno» (Chabod 1964, poi 1993, p. 100), il fautore cioè di un’immagine dell’uomo (libero nelle sue scelte ed esposto alle contingenze della storia) e di una forma di conoscenza (essenzialmente empirica e descrittiva) definitivamente sganciate dai dettami e dai dogmi dell’autorità religiosa. Ma mentre i secondi (si potrebbero fare i nomi di Jean Bodin, di Baruch Spinoza, di Tommaso Campanella, di Giambattista Vico, ma anche quelli di autori assai meno noti come Girolamo Garimberto o Raffaele Dalla Torre, per limitarsi all’Italia) si sono preoccupati di misurarsi criticamente e in profondità con i suoi assunti filosofico-antropologici, i suoi giudizi storici, le sue teorie militari e i suoi precetti – facendosi altresì carico, alcuni di essi, di ricomporre o di riformulare quel dissidio tra ragione politica e norma morale che era stato la novità e la principale ragione di scandalo della sua riflessione –, i primi (figure spesso minori di polemisti, oggi largamente dimenticati: Gian Battista Mucci, Gian Maria Muti, Gian Lorenzo Lucchesini, Gabriele Zinano, sempre per restare entro i confini italiani) si sono limitati a rigettarlo in blocco e a censurarlo; lo hanno cioè trasformato nel simbolo negativo di una modernità che non si riusciva ad accettare, nel campione assoluto di un’idea dello Stato e del potere politico privata di ogni riferimento trascendente e come tale giudicata inaccettabile, nell’esponente più in vista d’un modo d’essere e vivere considerato dissacrante, immorale e incline alla blasfemia, sino a scivolare per questa via nella calunnia e nel discredito personali travestiti da dissenso intellettuale. Almeno sino alla metà del 18° secolo, quando un nuovo rinascimento dello spirito ne ha integrato e attualizzato l’eredità, liquidare M. in modo sprezzante (in quanto «perfido», «indemoniato», «scismatico», «vipera», «ululante con le fauci di Lucifero», per prendere a campione le invettive che nel 1599 gli indirizzava Ciro Spontone nei suoi Dodici libri del governo di stato), talvolta anche al prezzo di manipolarne in modo deliberato le parole, più che il segno di un certo conformismo culturale e politico – giustificato da timore e reverenza nei confronti del potere ecclesiastico – è stata persino una moda alla quale si sono liberamente piegati intellettuali d’ogni genere, che nel Segretario fiorentino hanno trovato un comodo bersaglio sul quale sfogare ansie e paure.

Italia, Penisola Iberica, Francia (16° sec.). In vero, malignità, insinuazioni e voci denigratorie, riconducibili in genere all’ambiente fiorentino o a persone che lo avevano personalmente conosciuto e frequentato, erano circolate sul conto di M. sin dagli anni immediatamente seguenti la sua scomparsa. Al risentimento del vecchio amico Luigi Alamanni, che in alcune sue satire pubblicate tra il 1531 e il 1532, quando era esule in Francia, gli rimprovera di essersi riavvicinato ai Medici per ambizione e interesse dopo aver tramato contro di loro, erano seguite nel 1546 le illazioni di Paolo Giovio (che a M. aveva dedicato un ritratto intellettuale e una prima biografia nei suoi Elogia) circa le reali circostanze della sua morte, avvenuta probabilmente nel segno dell’empietà come del resto la sua vita era stata quella di un dichiarato miscredente. Ma siamo ancora sul terreno di giudizi che riguardano la persona e l’uomo, destinati comunque a persistere in letteratura almeno sino a che – a metà del Settecento, grazie al lavoro di scavo archivistico condotto a partire dal secolo precedente in particolare dall’erudizione toscana (Jacopo Gaddi, Giovanni Gaetano Bottari, Angelo Maria Bandini) – non si comincerà a diffondere una diversa luce sui tratti salienti della sua biografia, sino a quel momento rimasta sostanzialmente ignota e quindi oggetto delle più stravaganti supposizioni o ricostruzioni.

Una prima contestazione d’ordine per così dire teorico, che può dirsi l’inizio in senso proprio dell’a., può invece essere considerata quella pronunciata dallo spagnolo Juan Ginés de Sepúlveda (→) nel dialogo Democrates pubblicato a Roma nel 1535. Ciò che si imputa a M. è di aver colpevolmente sostenuto, in obbedienza al suo credo paganeggiante, l’incompatibilità del cristianesimo con le virtù militari e con lo spirito guerresco (nel testo a stampa il nome di M. non viene fatto, ma esso compare esplicitamente in una versione manoscritta dell’opera oggi conservata presso la Biblioteca Vaticana). Un argomento, quello sull’ignavia dei cristiani, al quale si dimostra molto sensibile l’a. cattolico: verrà infatti ripreso e contestato nel 1542, anche in questo caso con un riferimento a M. evidente ma non esplicito, dal vescovo portoghese Girolamo Osorio nel suo De nobilitate christiana e dal già ricordato Pole, che imputa inoltre a M. di fare un uso politico e strumentale della religione; ma si trova anche nei diversi componimenti adversus Machiavellum firmati sul finire del 16° secolo dall’oratoriano Tommaso Bozio (→).

Queste prime manifestazioni di a., come ha notato Giuliano Procacci (1995, p. 88), oltre a provenire spesso da autori non italiani, presentano un carattere occasionale e isolato e non lasciano immaginare l’esistenza di una campagna denigratoria architettata o di un diffuso clima d’avversione nei confronti di M., tanto più che si tratta di critiche che, nel caso di quelle di Osório e Pole, diverranno di pubblico dominio tempo dopo essere state pronunciate.

A modificare in modo drastico l’immagine pubblica di M. e la ricezione del suo pensiero all’interno della repubblica delle lettere e nel mondo politico è in realtà la condanna che gli viene inflitta dalla Chiesa nel contesto della controffensiva dottrinaria condotta da quest’ultima contro l’eresia protestante. Le sue opere, oltre che in odore di eterodossia per i giudizi negativi che contengono sull’operato storico della Chiesa e per certi dissensi che investono più direttamente la dottrina e la morale del cattolicesimo, finiscono anche per scontare la colpa di essere state redatte in volgare in un momento in cui l’uso del latino viene considerato un baluardo dogmatico contro lo scisma religioso. Nel 1557 M. è incluso tra gli autori dannati nell’Indice (→ Index librorum prohibitorum) romano voluto da papa Paolo IV, decisione ribadita dall’Indice tridentino del 1564, che lo classifica tra gli autori di «prima classe», quelli dei quali erano interdetti il nome e le opere. Una condanna che se da un lato costringe i suoi potenziali lettori, sfidando i rigori delle autorità ecclesiastiche, a procurarsene le opere clandestinamente (e spesso sulle principali piazze dell’Europa riformata: Ginevra, Basilea, Francoforte, Amsterdam, Londra) e i suoi commentatori, critici o estimatori, a citarlo in modo obliquo, anonimo o indiretto, dall’altro apre la strada a una vera e propria offensiva del mondo cattolico contro M. che tra i suoi protagonisti avrà soprattutto i gesuiti (→): oltre a bruciarne l’effige sulla piazza di Ingolstadt nel 1615, proprio due padri della Compagnia, Antonio Possevino ( Judicium de Nuae militis Galli scriptis, quae ille Discursus Politicos et Militares iscripsit, 1592) e Pedro de Ribadeneira (Tratado de la religión y virtudes que debe tener el Príncipe Christiano para gobernar y conservar sus estados, 1595), ne tenteranno una confutazione sistematica. Ma a essi si affiancheranno, sempre provenienti dalle file del clero, l’agostiniano Gregorio Nuñez, il canonico Scipione Ammirato (→), il già citato Tommaso Bozio dell’ordine dei filippini.

In Italia i cattolici respingono M. in quanto ateo e blasfemo. E anche quando ne riprendono i precetti e le massime politiche – come accade con i teorici controriformistici della ‘ragion di Stato’, fautori del compromesso tra l’assolutismo monarchico e la Chiesa: è il caso di Giovanni Botero (→) – ne condannano la tendenza a mettere sullo stesso piano le diverse confessioni religiose nel nome di un malinteso spirito di tolleranza e a dissociare l’arte del governo dal pubblico rispetto delle leggi di Dio. Fuori dai confini nazionali, invece, il rigetto nei suoi confronti nasce da una diversa fama: di maestro in astuzia, crudeltà e inganni. E da motivazioni che sono più politiche che religiose. È il caso della Francia, dove l’a. – la cui espressione più nota ed editorialmente fortunata è il Discours sur les moyens de bien gouverner et maintenir en bonne paix un royame ou autre principauté […] contre Nicolas Machiavel florentin del polemista ugonotto Innocent Gentillet (→), pubblicato a Ginevra nel 1576 – si nutre del contrasto ideologico tra assolutismo regio e monarchia aristocratica e si traduce praticamente nell’odio mortale che gli ugonotti nutrono nei confronti di Caterina de’ Medici, reggente del trono di Francia, e della sua corte di «italiani»: «Athéistes inventeurs d’imposts» li definisce Gentillet, mescolando l’accusa di essere seguaci delle empie dottrine machiavelliane a quella di rapacità fiscale nei confronti del popolo francese e dei suoi legittimi rappresentanti nobiliari.

Un pregiudizio ‘nazionale’, in parte ispirato proprio dal testo di Gentillet (che in Inghilterra ebbe una grande fortuna editoriale), ma diversamente motivato, che è alla base anche dell’a. fiorito oltre Manica nello stesso arco temporale.

Inghilterra elisabettiana

Nell’Inghilterra (→) elisabettiana, a dispetto della relativa circolazione del suo pensiero e delle sue opere, il nome di M. finisce ben presto per riassumere, a livello colto e popolare, l’immagine stereotipata «di un’Italia sanguinaria, fraudolenta, empia, e pittorescamente emotiva» (M. Praz, Machiavelli in Inghilterra e altri saggi, 1962, p. 105). Agli abitanti della penisola (e naturalmente ai loro governanti), che si suppone intrisi di spirito machiavelliano, non si imputa tanto la cupidigia, come aveva fatto Gentillet, quanto la sottigliezza innata, la doppiezza morale, la perfidia, l’inclinazione al raggiro.

Al politico descritto da Machiavelli a misura della sua diretta esperienza nelle corti rinascimentali italiane non si riconosce la capacità di operare secondo le regole della prudenza o magari dell’interesse, ma di perseguire il potere ricorrendo a ogni genere di macchinazione o astuzia, di ricorrere all’assassinio e alla corruzione per assecondare la cattiveria del proprio animo più che il proprio utile. Da qui la diffusione di un M. in gran parte leggendario, dalle fattezze luciferine, che troverà una consacrazione nella drammaturgia e nella letteratura dell’epoca: da Christopher Marlowe (mostruosamente avaro e scaltro, un «true Machiavel», è il Barabba nel Jew of Malta, ma Machevill in vesti minacciose e caricaturali vi appare sin dal prologo) a William Shakespeare («the murderous Machiavel» evocato nella Third part of King Henry the Sixth), da John Webster (che nel White devil parla dei «rare tricks of a Machiavellian» per eliminare gli avversari) a Gabriel Harvey (che in un poemetto in latino dedicato a Elisabetta presenta un M. spaventevole e sinistro: «in bocca nascondo il veleno / Il mio respiro si carica di mille veleni / Il mio sguardo è di ferro, / il sentimento degno del dio dell’inferno»). Nell’Inghilterra protestante, i preconcetti antropologici sugli italiani e la fama di ateista e immorale di cui gode M. naturalmente non possono che sommarsi all’avversione per il papato di Roma.

Ne nasce il paradosso di vedere sempre più spesso associato l’autore del Principe ai suoi storici avversari gesuitici, entrambi accusati di essere maestri nell’arte del complotto e della simulazione, nonché campioni di malvagità: nella satira Ignatius his Conclave di John Donne (→), pubblicata in inglese nel 1611, Ignazio di Loyola e M. finiranno così per contendersi un posto da consigliere alla corte di Lucifero a colpi di sotterfugi e artifici dialettici.

Il secolo dei lumi

Bisogna arrivare al secolo dei lumi per trovare una nuova declinazione dell’a.: quella offerta dall’Anti-Machiavel (→) del principe Federico di Prussia, composto nel 1739 (l’anno avanti la sua ascesa al trono) con il sostegno intellettuale di Voltaire. L’opera ebbe una complessa vicenda editoriale (la prima edizione apparsa in Olanda nel 1740 fu sconfessata dal filosofo, la seconda apparsa in Francia nello stesso anno, da quest’ultimo pesantemente emendata, fu sconfessata dal re) e fu alla base della rottura tra i due. L’obiettivo di Federico, che interpretava la politica nella prospettiva della potenza dello Stato, era quello di elaborare nuove regole di condotta per il «buon sovrano»: alla malvagia precettistica machiavelliana, alla tradizionale osservanza della virtù della prudenza caldeggiata dai teorici della ‘ragion di Stato’, bisognava sostituire la ricerca della felicità e del benessere per i propri sudditi e il rispetto della legge (a partire da quella morale) come primo dovere di ogni servitore dello Stato. Per Voltaire, che interpretava la politica nella prospettiva della libertà del cittadino, si trattava piuttosto di superare una concezione arbitraria e assolutistica del potere e di sottoporre anche il monarca all’autorità della legge. Per entrambi un’idea di politica basata sull’inganno e l’astuzia, come quella sostenuta da M., che del crimine aveva fatto una virtù, andava sostituita con un’idea della medesima ispirata al sentimento di umanità e alla giustizia.

Otto e Novecento

L’ostilità ideologico-religiosa e filosofica nei confronti di M. scema nell’Ottocento, quando vanno affermandosi interpretazioni del suo pensiero sostenute da un robusto scavo storico-critico e da un crescente rigore filologico. Ciò però non equivale all’esaurirsi dell’a. come corrente di pensiero.

Nell’Italia risorgimentale esso persiste, per es., negli ambienti del cattolicesimo guelfo (da Alessandro Manzoni a Gino Capponi), che di M. mettono in discussione in particolare le capacità di storico. Ma soprattutto esso si ripropone nel corso del Novecento, sollecitato da una realtà, quella dei totalitarismi in lotta contro le democrazie liberali, nella quale diversi autori finiscono per vedere un ritorno dello spirito del machiavellismo inteso nel senso più convenzionale e deteriore. Al realismo cinico e senza valori di M. si ispira, secondo Raymond Aron (→), la strategia di conquista violenta del potere perseguita dai fascismi europei. Per Gerhard Ritter (→) M. è colui che ha scoperto e portato alla luce il lato demoniaco del potere e che ha fatto coincidere la politica con la potenza. Jacques Maritain, che prosegue la linea di un certo a. cattolico, vede nello scoppio della Seconda guerra mondiale l’esito coerente del processo di dissociazione della politica da ogni idea di giustizia, morale e bene comune inaugurato proprio da Machiavelli.

Secondo Dolf Sternberger (→), che definisce demonologica la sua idea della politica, M. è colui che ha emancipato la figura del tiranno dal giudizio di condanna che su di essa aveva espresso per secoli la filosofia politica a partire da Aristotele, legittimandola così agli occhi della storia. Per Leo Strauss (→), da ultimo, egli è il maestro del male che con la sua scienza politica ha inficiato la sapienza politica della tradizione classica e aperto la strada a una modernità dal carattere nichilista e autodistruttivo.

Tracce significative di a., che denotano il persistere secolare di un pregiudizio, vanno infine segnalate nell’immagine popolare di M. che si è radicata in certe espressioni della cultura contemporanea (dai fumetti ai videogiochi, dalla letteratura d’intrattenimento alla saggistica da supermercato): un’immagine alimentata in particolare da una lettura del Principe, molto presente nella cultura anglosassone, come manuale per affermarsi e avere successo ricorrendo anche a mezzi illeciti o immorali e dall’acritica accettazione dello stereotipo secondo il quale M. sarebbe il campione – tipicamente italico o in senso largo latino – della furbizia, della frode e della spregiudicatezza applicate nella vita come nell’arte del governo.

Bibliografia: C. Benoist, Le machiavélisme, 3° vol., Après Machiavel, Paris 1936; A. Sorrentino, Storia dell’antimachiavellismo europeo, Napoli 1936; A. Panella, Gli antimachiavellici, Firenze 1943; F. Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino 1964, 1993; R. de Mattei, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, Firenze 1969; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995; G.M. Barbuto, Machiavelli e i totalitarismi, Napoli 2005.

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