GIOVANNI XVI, antipapa

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 55 (2001)

GIOVANNI XVI, antipapa

Luigi Canetti

Giovanni Filagato nacque a Rossano, in Calabria, intorno alla metà del X secolo da famiglia greco-bizantina di umili origini, forse di estrazione servile. Abbracciò sin da giovane la vita monastica in uno dei tanti monasteri esistenti nei pressi della città natale, legandosi all'abate Nilo, il celebre asceta e fondatore, tra l'altro, del cenobio laziale di Grottaferrata.

Nel corso degli anni Settanta si affiliò alla cerchia intellettuale dei chierici e dei monaci giunti in Occidente al seguito di Teofano, la principessa bizantina cugina del basileus Romano II, che nell'aprile 972, dopo avere sposato Ottone II associato al padre Ottone I di Sassonia al trono imperiale, fu incoronata imperatrice. Uomo animato da forti ambizioni, il Filagato riuscì a stringere un rapporto di fiducia e di stretta collaborazione con la coppia imperiale (fonti seriori, volendo deplorarne la mancanza di scrupoli e la sfrenata cupidigia di potere dopo la sua destituzione dall'usurpato seggio papale, insinueranno l'esistenza di rapporti intimi con la sovrana e benefattrice). Scalò pertanto assai rapidamente i gradini della carriera ai vertici del sistema italo-germanico della Reichskirche: dopo averlo nominato all'alto ufficio di cancelliere per l'Italia (l'incarico è documentato tra il 12 febbr. 980 e il 30 sett. 982, e poi, nuovamente, tra il 18 apr. 991 e il giugno 992), Ottone II, a ricompensa dei servigi prestati nell'amministrazione imperiale, gli conferì nel 982 il prestigioso titolo abbaziale di S. Silvestro di Nonantola, allora uno dei più importanti e potenti monasteri dell'Italia centrosettentrionale, che in quei decenni conosceva una grande fioritura intellettuale e letteraria, essendo attivi nel suo scriptorium, fra gli altri, forse per l'influsso dello stesso Filagato e di un più vasto ascendente riconducibile al milieu ellenofilo promosso in quegli anni dalla casa di Sassonia, personaggi di estrazione greca.

Nel 987, morto ormai da quattro anni l'imperatore Ottone II, il Filagato fu richiamato a corte da Teofano con l'incarico di presiedere alla formazione del giovanissimo figlio ed erede, il futuro imperatore Ottone III, di cui il Filagato era stato anche padrino di battesimo. L'anno dopo, a ulteriore coronamento di una fortunosa scalata ai vertici dell'apparato della Chiesa di Stato ottoniana, fu elevato, grazie al decisivo sostegno dell'imperatrice e alla prevedibile condiscendenza del debole papa Giovanni XV, all'importante soglio vescovile di Piacenza, sede che da quel momento, a dispetto dei canoni, venne dietro sua pressione arbitrariamente promossa ad arcidiocesi e sottratta così alla tradizionale giurisdizione della metropoli ravennate.

La successione al defunto presule Sigolfo comportò inoltre, molto probabilmente, l'usurpazione dei diritti di un "vir bonae indolis" (Annales Quedlimburgenses, p. 74) già eletto quale legittimo titolare della diocesi piacentina e che forse va identificato con quel Sigifredo che, dopo la scomunica del Filagato da parte del pontefice Gregorio V, gli sarebbe subentrato ovvero sarebbe stato riconfermato nei suoi diritti di vescovo, suffraganeo del metropolita di Ravenna (7 luglio 997), ma ampiamente ricompensato, dopo soli dieci giorni (17 luglio), con la concessione imperiale della piena titolarità del districtus e delle connesse prerogative di immunità sulla città e il suburbio di Piacenza.

Da alcuni documenti locali, in particolare dai placiti episcopali del 30 sett. 990 e del 20 genn. 991 (Manaresi), nei quali il Filagato appare presiedere con il nuovo titolo di arcivescovo al solenne iudicium "in turre propria" del palazzo episcopale (ovvero "in solario proprio") nella facoltà di missus permanente del sovrano italico, possiamo evincere come egli si fosse ben presto inserito nel tessuto politico-amministrativo e patrimoniale della città (pubblici funzionari e ceto vassallatico) e avesse annodato legami con le già floride reti commerciali dei numerosi "negociatores" della società piacentina, qui largamente rappresentati.

Tra il dicembre 989 e i primi mesi del 990 il Filagato, insieme con altre personalità tra le quali il vescovo Ugo di Würzburg, accompagnò l'imperatrice Teofano in un viaggio in Italia intrapreso per ribadire e confermare nella penisola, e a Roma in particolare, dove avrebbe incontrato papa Giovanni XV e il "tiranno" Crescenzio Nomentano (figlio di Crescenzio de Theodora e fratello del defunto patrizio Giovanni, che ormai da due anni governava di fatto l'Urbe), l'effettiva presenza del potere imperiale pur nella vacanza formale del suo vertice, vertice al quale del resto la stessa Teofano andava preparando la successione nella persona del figlio Ottone, allora appena decenne.

Ancora a fianco di Teofano ritroviamo in quei mesi il Filagato, menzionato con le consuete espressioni d'encomio in un diploma imperiale del 18 giugno 990, intercedere presso la corte imperiale a beneficio del patriarca Giovanni d'Aquileia, che poté ottenere la conferma e la protezione imperiale sui beni e diritti della sua Chiesa metropolitana (Ottonis III diplomata, n. 65). Dopo la morte dell'imperatrice, il 15 giugno 991, il Filagato, che dal 18 aprile di quell'anno (e sino al giugno 992) doveva ricoprire nuovamente l'ufficio di cancelliere per l'Italia, divenne uno dei principali consiglieri per la politica nella penisola dell'imperatrice Adelaide, vedova di Ottone il Grande e reggente per conto del nipote le sorti del Regno imperiale germanico. Nel settembre 994, alla Dieta di Solingen, il Filagato fu tra coloro che spinsero per affidare il governo effettivo del Regno tedesco al giovane principe Ottone. Fu così che, anche in virtù della sua ottima conoscenza della lingua greca, gli venne affidato in quelle circostanze, insieme col vescovo Bernardo di Würzburg, l'incarico ufficiale di guidare una legazione a Costantinopoli, presso la corte di Basilio II, per conto del re di Germania per il quale, così com'era avvenuto più di vent'anni prima con il padre, si progettava un vincolo matrimoniale con una principessa bizantina. La missione, come possiamo dedurre dalle vicende successive, dovette fallire, soprattutto perché il basileus, che stava progettando di scacciare gli Arabi dalla Sicilia e, in prospettiva, da tutta l'Italia meridionale, non poteva avere che un blando interesse a riannodare le fila di relazioni diplomatiche con la corte germanica, interessata a sua volta, sin dai tempi di Ottone I, a garantirsi una testa di ponte e una presenza egemonica nel Mezzogiorno d'Italia. L'unico risultato della missione fu, sulle prime, l'invio in Occidente come emissario imperiale, a fianco del Filagato, di Leone, vescovo di Sinnada, che avrebbe dovuto portare avanti gli eventuali negoziati. Il drappello dei bizantini giunse a Roma alla fine del 996. È probabile che il Filagato non vi arrivasse direttamente o che comunque, dopo avervi compiuto una breve sosta, sia ritornato per qualche tempo nel Norditalia, probabilmente per sbrigare affari nella sua diocesi e per riprendere i contatti con la corte imperiale riguardo l'esito della missione costantinopolitana.

Nel frattempo, nel marzo di quello stesso anno, era morto improvvisamente papa Giovanni XV, ritornato a Roma per volere di Crescenzio Nomentano, che lo aveva precedentemente costretto a rifugiarsi a Sutri, dietro l'incalzare delle truppe di Ottone III che, ormai maggiorenne, si stava avvicinando all'Urbe a marce forzate per stabilirvi i suoi diritti di legittimo sovrano e reinsediare lo sventurato pontefice. Ottone III, accampatosi nei pressi di Ravenna, fu raggiunto da un drappello di nobili romani che, anche al fine di prevenire la sua collera per il trattamento da essi inflitto a Giovanni XV, lo sollecitarono all'elezione di un nuovo pontefice. Il re provvide allora alla nomina di Bruno, sacerdote di solida formazione, figlio di suo cugino Ottone duca di Carinzia. I due cugini, accompagnati da uno stuolo di chierici della cappella regia, entrarono trionfalmente a Roma, dove il nuovo papa, dopo aver ricevuto la debita consacrazione in Laterano e aver assunto il nome di Gregorio V (3 maggio), la domenica dell'Ascensione (21 maggio) poteva finalmente incoronare imperatore Ottone III. Il giorno seguente, in occasione di una solenne assemblea sinodale dei prelati giunti al seguito di Ottone e di tutto il clero romano, fu sancito, tra l'altro, un decreto di esilio per Crescenzio Nomentano, reo di gravi reati nei confronti del papa defunto, ma il nuovo pontefice, forse per ingraziarsi il favore dei proceres romani, diffidenti e timorosi nei riguardi della nuova e rafforzata egemonia germanica che si andava profilando sulla città, commise la leggerezza politica di concedergli la grazia. Fu un errore che si rivelò fatale. Infatti, ripartito l'imperatore per la Germania verso la fine dell'estate, Crescenzio, tradendo il giuramento appena fatto a Ottone, a seguito di una rivolta da lui capeggiata (26 settembre) si reinsediò nella pienezza dei suoi poteri e costrinse Gregorio V a una fuga precipitosa verso il Norditalia dove, nel sicuro asilo di Pavia, avrebbe trascorso i mesi successivi. Nell'antica capitale del Regnum, nel febbraio 997, il pontefice, confidando nel prossimo intervento dell'imperatore, presiedette un sinodo in cui, tra le altre importanti questioni trattate, fu promulgato l'anatema contro Crescenzio.

Fu probabilmente anche per ingraziarsi (ovvero pensando di rinsaldare) i favori presunti o forse promessi da Costantinopoli che Crescenzio, intorno al mese di febbraio del 997, probabilmente in accordo con il summenzionato ambasciatore bizantino Leone (testimone di quelle vicende e sostenitore di una scelta che da lì a poco dopo avrebbe sconfessato rivelando una viscerale antipatia e un'avversione quantomeno sospetta per il proprio candidato ormai sconfitto), convinse (ovvero, secondo la voce isolata di qualche seriore cronista, costrinse) il Filagato, in quel momento rientrato a Roma, a lasciarsi insediare sul trono papale, di fatto vacante per l'assenza dell'esule Gregorio V.

Si è molto discusso sulle ragioni che spinsero il Filagato a compiere un passo così azzardato, che implicava oltretutto il tradimento della fiducia di un sovrano e con lui di una dinastia grazie alla quale aveva potuto godere di inopinati favori per più di due decenni. Sembra da escludere l'ipotesi poco credibile e in ogni caso indimostrabile secondo cui il Filagato, forse risentitosi per la nomina in sua assenza di Bruno di Carinzia, la cui linea d'azione papale lasciava nel frattempo trapelare più di un segno di tensione con il cugino, poteva pensare in questo modo di cattivarsi nonostante tutto le simpatie di Ottone III. Altrettanto improbabile, pur conservando una parvenza di verosimiglianza nell'inserzione implicita di quella scelta nel quadro delle complesse relazioni diplomatiche tra i due Imperi e dell'ovvio atteggiamento filobizantino di G., appare l'affermazione del cronista milanese Arnolfo, secondo cui il Filagato "Romani decus imperii astute in Grecos transfere temptasset" (ed. Zey, p. 133; ed. Scaravelli, p. 70). Si è discusso, inoltre, di un eventuale significato tecnico dell'espressione del cronista Giovanni Diacono (p. 154), secondo la quale il Filagato non temette di occupare la sede apostolica "contra imperiale decretum": ma è oggettivamente impossibile stabilire se qui il quasi coevo cronista si riferisse, come sembra in ogni caso poco probabile, alle note prescrizioni sulla procedura di conferma imperiale dei pontefici previste dal privilegium ottoniano del 962 o intendesse alludere a un esplicito e specifico pronunciamento di Ottone III direttamente sollecitato dal Filagato alla ratifica di una propria eventuale candidatura al soglio papale. L'ipotesi meno lontana dal vero sembra dunque essere quella che sottolinei la convergenza oggettiva tra le ambizioni comunque motivate del Filagato e, soprattutto, l'interesse e la speranza di Crescenzio di poter ottenere con quella mossa un'ulteriore garanzia all'indispensabile quanto improbabile sostegno di Bisanzio, o forse, addirittura - pensando che la nomina papale dell'antico padrino non dovesse in fondo dispiacere al figlioccio Ottone -, di avviare le premesse a una politica di equilibrio mediterraneo tra i due imperi, politica di cui egli, con il nuovo pontefice, poteva farsi in qualche modo garante.

Forse già alla fine di quel mese giunse, prevedibile, la scomunica di Gregorio V, forte dell'appoggio di quasi tutto l'episcopato italico, tedesco e francese. Di lì a qualche tempo (7 luglio), scontata la deposizione di G., il papa avrebbe concesso al metropolita Giovanni di Ravenna la facoltà di spogliare dell'indebito titolo arcivescovile la sede piacentina e ricollocarla sotto la legittima giurisdizione ravennate. L'imperatore, come sembra di poter dedurre dai successivi eventi, prese sin da subito posizione a favore di Gregorio V, tant'è che già dall'estate seguente si hanno validi indizi di un tentativo da parte di G. di rendere nota la propria disponibilità a trattare e forse a desistere dall'usurpazione stessa. In particolare, da una breve lettera attribuibile al vescovo imperiale Willigis di Magonza oppure al cancelliere per l'Italia Eriberto, indirizzata nel luglio-agosto 997 a Gerberto di Reims, futuro papa con il nome di Silvestro II, e conservatasi nella raccolta epistolare di quest'ultimo, sappiamo che l'esercito di Ottone non aveva ancora deciso se dirigersi più a Nord, per combattere le "Scytharum gentes" ovvero verso l'Italia, per sottomettere la ribellione di Crescenzio e di G., che sembrava disposto a sottomettersi. Una scelta verso cui tentò di piegarlo anche un appello accorato del concittadino e antico maestro Nilo di Grottaferrata, e alla quale in ogni caso dovette inclinarlo l'inevitabile presa d'atto del suo isolamento e della fragilità della sua posizione; fragilità che viene pure indirettamente attestata dalla totale assenza di una superstite produzione documentaria relativa alla sua presenza in sordina a Roma, malgrado l'interessato appoggio delle forze locali legate a Crescenzio Nomentano. Un'assenza documentaria che non sembra comunque nemmeno parzialmente giustificabile per la scontata damnatio memoriae curiale seguita alle vicende della sua drammatica destituzione.

L'unica sia pur labile traccia della parentesi papale di G. è legata all'inventio da lui promossa, "in basilica S. Rufinae", delle reliquie di s. Giustina d'Antiochia, una martire di età dioclezianea contitolare da qualche tempo della diocesi piacentina, ritrovamento di cui testimonianza indiretta viene fornita dal racconto della Translatio (Bibliotheca hagiographica Latina, n. 2054), un paludato testo liturgico redatto negli anni immediatamente seguenti, e che tradisce, nei toni e nel linguaggio, una forte simpatia per la figura di Giovanni XVI. Vi si narra di un drappello di piacentini che si reca a Roma, presso il Filagato imprigionato ma ancor detentore del prezioso scrigno, per chiederglielo in dono. Va sottolineato il fatto che la delegazione piacentina incontrò l'antipapa soltanto dopo la sua destituzione e durante la successiva prigionia, e perciò non prima del marzo-aprile del 998: i colloqui avvenuti con l'ex arcivescovo, qui tuttavia presentato come ancor sofferente per le torture subite e ridotto a una truce maschera deforme, sembrerebbero pertanto documentare la possibilità che le sue mutilazioni siano state meno gravi di quanto non appaia, come vedremo, da altre fonti coeve, se non altro perché la lingua non poteva essergli stata tagliata, come del resto si evince anche dalla sobria ma precisa testimonianza di Rodolfo il Glabro (pp. 30 s.), e poi da quella più polemica di Arnolfo (ed. Zey, p. 135; ed. Scaravelli, p. 72).

L'esercito di Ottone III, pronto a muovere verso Roma, si radunò lentamente a Pavia tra il Natale 997 e le prime settimane del 998. Verso la metà di febbraio un'imponente armata che raccoglieva forze da tutte le province germaniche e con a capo, fiancheggianti il sovrano e il legittimo pontefice, alcuni tra i più valenti e prestigiosi principi dell'Impero, mosse da Ravenna verso una Roma quasi deserta, che facilmente cadde, dopo qualche scaramuccia, il 20 di quel mese. Poco prima, infatti, informato dell'imminente arrivo e temendo la prevedibile rappresaglia dell'imperatore, G. aveva trovato rifugio in una torre fortificata della Campania romana, Torre Astura, da dove, disperando di quel soccorso che nessuna parte poteva più offrigli, tentò probabilmente di fuggire verso il Suditalia o addirittura verso Bisanzio, mentre Crescenzio Nomentano si asserragliava in Castel Sant'Angelo, dove per quasi due mesi, prima di capitolare e di venire infine crudelmente giustiziato, avrebbe offerto una fiera e tenace resistenza agli assalti delle macchine da guerra delle truppe tedesche. G. venne catturato agevolmente da un gruppo di armati, al comando del conte Bertoldo di Brisgovia, i quali - come suggerisce, unica tra le fonti a nostra disposizione, l'annalista sassone di Quedlinburg - temendo che se l'avessero consegnato illeso all'imperatore questi l'avrebbe lasciato impunito, lo mutilarono orribilmente secondo un macabro rituale, tagliandogli il naso, le orecchie e cavandogli gli occhi, amputandogli, forse, anche le mani e la lingua, per poi farlo prigioniero in un monastero romano.

A partire da questo momento non è agevole stabilire una cronologia dettagliata e un ordine rigoroso di successione degli eventi che seguirono. Probabilmente tra la fine di marzo e gli inizi di aprile successivo il Filagato venne tratto fuori dalla sua prigione, rivestito sommariamente degli abiti e delle insegne papali e, sottoposto a un formale processo di destituzione voluto, forse, da Gregorio V, fu ritualmente spogliato dei paramenti sacerdotali. Poi - benché tutto questo, stando ad alcune fonti, potesse anche svolgersi immediatamente a ridosso della cattura - il mutilo prigioniero, per sommo di umiliazione, venne posto a cavalcioni di un asino con il capo rivolto all'indietro e con la coda in mano, rivestito di un ridicolo copricapo (forse un otre o un tubo di canapa o di lino del tipo di quelli utilizzati allora per le piccole condutture dell'acqua di scarico, e qui grottesca parodia della mitra indossata dai papi nelle solenni cerimonie di intronizzazione) e portato in processione infamante e derisoria (forse ispirata all'antico rituale romano della Cornomania) per quelle vie di Roma che l'avrebbero ricondotto per sempre nel monastero dove trascorse i suoi ultimi anni.

Vi è più di una traccia successiva di segni palesi di rammarico e forse anche di pentimento personale di Ottone III per l'operato dei suoi uomini in quei frangenti. È nota, per esempio, la richiesta di perdono da lui più volte avanzata a Nilo di Grottaferrata che, saputo dell'orribile supplizio riservato al Filagato, tra la fine di marzo e i primi di aprile 998 venne a Roma per intercedere a favore dell'antico discepolo e per chiedere al sovrano e a papa Gregorio V di consegnarglielo, cosa che entrambi rifiutarono offrendogli come contropartita il monastero romano di S. Anastasio alle Tre Fontane. Ma Nilo, pur accettando quell'offerta, dopo aver saputo del trattamento infamante riservato al Filagato a seguito della rituale destituzione, pronunciò una sinistra profezia di morte contro i due cugini. È però ben difficile, come più volte si è stati tentati di fare, non attribuire al sovrano una qualche responsabilità oggettiva se non diretta per quegli orribili eventi del febbraio 998. Più delicata, anche se in apparenza più ovvia, sembra invece una valutazione obiettiva e serena delle pur innegabili responsabilità di Gregorio V, uomo di cui le fonti coeve evidenziano la fermezza, l'inflessibilità e la durezza nell'operato, e che, nella fattispecie, tendono a dare come dovuta e scontata, quando non meritoria e opportuna, l'azione repressiva di ritorsione ai danni del Filagato. L'unica esecrazione del suo operato in quei frangenti proviene da una fonte, come il Bios agiografico di s. Nilo, che è evidentemente troppo interessata a rimarcarne la spietatezza.

Nonostante sia stata più volte richiamata una notizia contenuta all'anno 1013 negli Annales necrologici Fuldenses, secondo cui "Graecus Iohannes viam universae carnis ingressus est" (p. 210), è poco verosimile che quell'affermazione si riferisse al Filagato, che dovette più probabilmente chiudere i suoi giorni nell'ignoto monastero romano della sua prigionia, un 26 di agosto - come attesta il catalogo-necrologio degli abati di Nonantola, agli inizi dell'XI secolo - da collocare, forse, in quell'anno 1001 a cui sembra in ogni caso da riferirsi l'ultima menzione relativa a lui ancor vivente a Roma. È ignoto anche il luogo della sepoltura.

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