GIOVANNI XVI, antipapa

Enciclopedia dei Papi (2000)

Giovanni XVI, antipapa

Wolfgang Huschner

G., che nelle fonti è quasi sempre ricordato con il soprannome di "Graecus" o "Philagathos", era di origine calabrese, e precisamente di Rossano.

La sua conoscenza del greco e la sua cultura gli permisero di entrare in contatto e di essere apprezzato dalla corte dell'imperatore Ottone II (967, 973-983) e soprattutto dell'imperatrice Teofane (972-991). Fu all'inizio cappellano di Teofane e in questa qualità forse padrino di Ottone III. Fece inoltre parte della cerchia dei più intimi consiglieri dell'imperatrice, che favorì moltissimo, negli anni successivi, la sua ascesa sociale. Grazie a lei, G. divenne nel 982 abate dell'importantissima abbazia regia di Nonantola. Questa nomina è un segno evidente del fatto che egli faceva ormai parte dei più importanti collaboratori di Ottone II. Infatti predecessori di G. nella carica abbaziale erano stati i vescovi Guido di Modena ed Uberto di Parma, arcicancellieri di Berengario II, Ottone I ed Ottone II. Nel diploma imperiale che ha conservato notizia della sua nomina, G. viene definito "consecretalis" dell'imperatore e si lodano la sua grande cultura e le sue capacità come consigliere; non è escluso, comunque, che lo stesso G. abbia collaborato alla stesura del documento. Egli è stato probabilmente coinvolto anche nella produzione di falsi fabbricati a Nonantola nel periodo del suo abbaziato. Inoltre è generalmente accettato dalla storiografia che egli debba essere identificato con il cancelliere G. che compare negli escatocolli dei diplomi di Ottone II degli anni 980-982. Il suo stretto rapporto con la coppia imperiale dovette essere tanto importante per G. che volle lasciargli un'inconsueta testimonianza iconografica: fu così il committente di una tavoletta d'avorio, conservata oggi al Museo di Cluny (Parigi), rappresentante un Cristo che incorona e benedice Ottone II e Teofane, posti rispettivamente a sinistra e a destra del Signore, che li sovrasta. Sotto lo sgabello su cui è posta la figura di Ottone II è probabilmente raffigurato G. nella posizione tradizionale a Bisanzio della "proskynesis".

Dopo la morte di Ottone II (983), G. divenne uno dei più importanti consiglieri di Teofane in Italia, ove la principessa greca voleva far valere il proprio potere ispirandosi alla tradizione italica e bizantina. G. si recò spesso al di là delle Alpi alla corte di Teofane, che continuava ad esercitare la reggenza per il figlio minorenne. In Germania le possibilità d'azione dell'imperatrice vennero garantite, e insieme limitate, dall'arcivescovo Willigis di Magonza (975-1011), nella sua veste di arcicancelliere, e dal cancelliere, il vescovo Ildebaldo di Worms (979-998), mentre in Italia Teofane scelse G. come confidente e consigliere, conferendogli il rango che competeva alla nuova situazione. Dopo la morte del vescovo Sigolfo di Piacenza nel 988, G. fu chiamato a succedergli, scavalcando un altro candidato che forse era già stato eletto. Inoltre Teofane ottenne da papa Giovanni XV che Piacenza venisse sottratta alla provincia ecclesiastica di Ravenna e diventasse sede metropolitica. Probabilmente Teofane riuscì ad ottenere anche il consenso all'operazione dell'arcivescovo Giovanni di Ravenna (983-997), che doveva la sua carica al favore di Ottone II. Con ciò G. raggiunse, dal punto di vista del diritto canonico, una posizione ancora più elevata di quella occupata in precedenza dall'arcicancelliere di Ottone II, Pietro, vescovo della sede esente di Pavia. Nell'autunno 988 G. compare alla corte di Teofane, in quel momento a Costanza, che si preparava ad una discesa in Italia. Fu qui probabilmente che l'imperatrice affidò a G. la guida della Camera regia di Pavia. Per collaborare con G. nell'amministrazione finanziaria, Teofane inviò due membri della sua corte, Sicco e Nano. In tal modo l'importante ufficio venne sottratto ad un altro candidato, membro di una nota famiglia pavese, che ricopriva la carica di "camerarius" da parecchie generazioni; nello stesso tempo la principessa greca si pose in conflitto con l'imperatrice Adelaide, che considerava Pavia come suo ambito di influenza privilegiato e che per questo abbandonò l'Italia e si ritirò nel nativo Regno di Borgogna. Durante il soggiorno italiano di Teofane (989-990), G. svolse una volta di più le funzioni di principale consigliere dell'imperatrice. Per più di tre mesi, dal dicembre 989 al marzo 990, si trattenne a Roma presso la sovrana, alla cui corte incontrò tra gli altri papa Giovanni XV e il vescovo Adalberto di Praga. Nel mese di marzo 990 Teofane abbandonò Roma per Ravenna: il 13 di quello stesso mese G. presiedette per delega imperiale - insieme a Ugo di Würzburg e ad un altro vescovo - dei placiti presso ed entro le mura di Ravenna.

Dopo un soggiorno più prolungato a Pavia, dove Teofane festeggiò la Pasqua, G. seguì l'imperatrice al di là delle Alpi. Qui egli prese parte al suo fianco ad un'assemblea di grandi del Regno, che si riunì a Francoforte sul Meno. Nei mesi successivi G. trascorse gran parte del suo tempo a Piacenza, svolgendo la funzione di tramite tra l'Italia settentrionale e la corte imperiale in Germania. Alla fine di settembre del 990 e ancora nel gennaio 991, G. presiedette a Piacenza dei placiti in qualità di "missus" di Ottone III. In occasione della Pasqua del 991 era di nuovo presso la corte imperiale, a Quedlinburg, dove ebbe luogo un incontro fra l'imperatrice, grandi dell'Impero e principi stranieri. G. vi si era recato in compagnia del marchese Ugo di Toscana e del vescovo di Treviso. L'apogeo della carriera di G., destinato del resto ad avere brevissima durata, si riflette nella ricognizione di un diploma di Ottone III per la Chiesa vescovile di Treviso, che venne emanato circa due mesi prima della morte di Teofane, nell'aprile 991: "Iohannes dei gracia archiepiscopus et primicerius sanctae Romanae ecclesiae, proto a secretis ac proto vestiarius Ottonis regis scripsit et recognovit" (Ottonis III. Diplomata, nr. 69, p. 477). Le intitolazioni bizantine sono certamente da ricondurre allo stesso Giovanni Filagato. Egli utilizzava per sé nel diploma una terminologia bizantina, che corrispondeva in effetti alle funzioni che svolgeva presso la corte imperiale, ma che non figura mai nei diplomi degli imperatori di Bisanzio: "proto a secretis" poteva, ad esempio, essere considerato equivalente ad arcicancelliere. Poiché l'arcicancelliere di Ottone III, il vescovo di Como Pietro III (983-1002), non viene citato nella ricognizione del documento, G. si attribuì evidentemente questa carica. Il titolo di "proto vestiarius" si riferiva alla sua carica di "camerarius" della Camera regia di Pavia. Ma la ricognizione dimostra anche che G. non aveva solo legami con Piacenza e Pavia, ma doveva ricoprire cariche anche a Roma visto che nel documento si definisce "primicerius sanctae Romanae ecclesiae". Nel 991 G. ricopriva dunque una posizione chiave nella cerchia dell'imperatrice; egli esercitava probabilmente un'influenza anche maggiore di quella di cui avevano goduto prima di lui gli arcicancellieri Uberto di Parma e Pietro di Pavia.

La morte di Teofane, il 15 giugno 991, fece sì che G. non potesse conservare la propria posizione a corte. Tra il 992 e il 994 i personaggi e i gruppi più legati a Teofane dovettero cedere gradualmente il passo alla cerchia che si riuniva intorno all'imperatrice Adelaide, che aveva assunto la reggenza per Ottone III. Il fenomeno è particolarmente percepibile nel caso di G., progressivamente emarginato dalla corte di Ottone III. G. riuscì comunque per un certo tempo a conservare un'importante posizione a corte: il 16 ottobre 992 era ad esempio presente alla consacrazione del duomo di Halberstadt, che aveva visto riuniti l'imperatrice Adelaide, Ottone III e molti grandi, cherici e laici, alcuni dei quali erano venuti persino dall'Italia. Forse G. partecipò all'assemblea di Halberstadt come legato di Giovanni XV. Ma, a partire del 992, non compare più nell'escatocollo dei diplomi di Ottone III, il che fa pensare che non svolgesse più le funzioni né di arcicancelliere né di cancelliere per l'Italia. Inoltre, egli non poté mantenersi in carica neanche a Pavia; sappiamo infatti che Sicco, il cortigiano di Teofane che gli era stato dato come aiutante, dovette fuggire dalla città. Quando, nel 994, Ottone III cominciò ad esercitare autonomamente il potere, G. tentò di riguadagnare un'elevata posizione a corte. In quell'anno, infatti, egli si recò nuovamente al di là delle Alpi e partecipò alla riunione che vide presenti a Solingen, oltre all'imperatore e all'imperatrice, i grandi del Regno, laici ed ecclesiastici. In quell'occasione, però, le più importanti sedi, dal punto di vista del governo dell'Italia, vennero ricoperte da altri ecclesiastici mentre Pietro di Como mantenne la carica di arcicancelliere. Il nuovo cancelliere per l'Italia, Eriberto, proveniva dalla cappella del giovane sovrano ed era legato al cancelliere per la Germania, il vescovo Ildebaldo di Worms. G. non ottenne dunque nessuna carica che gli avrebbe consentito di essere in frequente contatto con l'imperatore: si arrivò al punto che, in un diploma per Sofia, la sorella dell'imperatore, venne persino ignorata la sua dignità metropolitica e G. fu designato semplicemente come vescovo di Piacenza (ibid., nr. 150). Ottenne comunque, nel 995, insieme al vescovo Bernardo di Würzburg, il delicato compito di trattare a Bisanzio un possibile matrimonio tra l'imperatore ed una principessa bizantina. Poiché il vescovo di Würzburg morì durante il viaggio di andata, G. dovette condurre da solo le trattative. Il legato non ricevette il consenso alle nozze ma, nel viaggio di ritorno, fu accompagnato da un ambasciatore bizantino, Leone, il futuro metropolita di Synada, che doveva rendersi conto della situazione in Occidente e riferirne al suo imperatore.

Quando G. e Leone giunsero in Italia, tra la fine del 996 e l'inizio del 997, Crescenzio II Nomentano si era nuovamente impadronito di Roma, dopo la partenza di Ottone III dalla città, e ne aveva cacciato papa Gregorio V, che era stato eletto per compiacere l'imperatore. In questa complessa situazione G. venne convinto da Crescenzio II Nomentano e da Leone, che aveva nel frattempo preso contatti con il signore della città, a farsi eleggere papa contro Gregorio V. Nel febbraio-marzo 997, venne eletto, prese il nome di Giovanni XVI e si aprì uno scisma. La storiografia ha così motivato la decisione di G.: egli avrebbe considerato conclusa la sua carriera a corte e, spinto dall'ambizione, avrebbe scorto nell'elezione papale un modo per continuare a svolgere un ruolo nella "grande politica". Ma G. aveva sopravvalutato il proprio peso politico, in quanto come papa era totalmente dipendente da Crescenzio II Nomentano e da Bisanzio. La sua elezione gli guadagnò comunque nelle fonti, coeve e successive, una connotazione molto negativa. Al di là delle Alpi a tale giudizio contribuirono anche i suoi rapporti con l'imperatrice Teofane, cui molti avevano guardato con diffidenza, se non addirittura avversione. Durante la riforma della Chiesa dell'XI secolo, i giudizi su G. si fecero ancora più negativi, ma le fonti a lui coeve indicano in Crescenzio II Nomentano il massimo responsabile dello scisma. Poiché ai tempi di Giovanni XV G. aveva avuto, sia pur forse brevemente, legami con la Sede romana (v. il già citato documento del 991 in cui figurava come "primicerius"), la sua candidatura non dovette imporsi con eccessiva difficoltà.

Forse Crescenzio aveva visto in G., grazie agli stretti rapporti che questi aveva precedentemente intrattenuto con la corte ottoniana, un candidato di compromesso, che avrebbe potuto indurre Ottone III ad abbandonare Gregorio V. Leone, con la sua partecipazione all'elezione di G., perseguiva invece gli interessi di Bisanzio, che vedeva in Gregorio V un pontefice troppo legato ad Ottone III. Parrebbe che G. sia in effetti venuto subito incontro a richieste provenienti da Bisanzio, il che gli guadagnò l'accusa da parte del cronista milanese Arnolfo di aver cercato con l'inganno di trasferire ai Greci l'onore dell'Impero romano ("Romani decus imperii"). Personalmente Leone disprezzava G., che nelle lettere a destinatari costantinopolitani giudicava molto negativamente dal punto di vista caratteriale e definiva con termini molto pesanti. Le lettere ci illuminano comunque anche sul loro autore, Leone, che era assolutamente convinto dell'illegittimità dell'elezione di G. e contava sin dall'inizio su una sua possibile caduta. Così egli non trasmise a G. una lettera del patriarca di Costantinopoli, che era stata indirizzata a Giovanni XV ma non lo aveva raggiunto. Il legato bizantino si augurava che lo scisma potesse protrarsi abbastanza a lungo, il che avrebbe consentito all'imperatore greco di rafforzare la propria influenza a Roma e la propria posizione nell'Italia meridionale. Quando però capì che G. non avrebbe potuto estendere la propria influenza al di fuori di Roma e che come papa non aveva speranze di mantenere il potere, mutò completamente posizione, abbandonando nell'estate 997 G. e Crescenzio II Nomentano per stabilire buoni rapporti con Gregorio V e Ottone III. Varcò allora le Alpi per incontrare nell'ottobre 997 ad Aquisgrana l'imperatore e con lui tornò a Roma, dove, nella primavera del 998, fu testimone della deposizione e della punizione di Giovanni XVI.

Nel marzo, o forse aprile, del 997 alla corte imperiale si era infatti deciso di dare un efficace appoggio a Gregorio V e ci si preparava ad una spedizione in Italia di non breve durata che richiedeva i necessari contingenti militari. Dopo che l'imperatore, per intervento di Gregorio V, aveva rinunciato a punire adeguatamente Crescenzio nel maggio del 996, il nuovo conflitto scatenato a Roma dal signore della città venne percepito come un affronto personale nei confronti di Ottone III. Inoltre sia l'abate Odilone di Cluny (993-1048) che quello di Fleury, Abbone (998-1004), premevano per un intervento imperiale in Italia. Persino i nemici di Gregorio V in Francia si rifiutarono di riconoscere G. come papa. Dalla Pasqua del 997 la corte si schierò decisamente contro Giovanni XVI. Il 25 marzo di quell'anno Ottone III concesse l'abbazia di Nonantola, che fino a quel momento era stata sotto la guida di G., all'abate Leone (dei SS. Bonifacio ed Alessio). Nel corso del sinodo di Pavia del febbraio del 997, Gregorio V aveva inoltre preventivamente rimesso in auge le antiche disposizioni di papa Simmaco, secondo cui era vietato, pena la scomunica, di prendere qualsiasi decisione in merito alla successione durante la vita di un papa. Gregorio V poteva contare sull'appoggio non solo dell'arcivescovo di Milano ma anche su Giovanni arcivescovo di Ravenna. Al più tardi all'inizio dell'estate 997, Gregorio V riportò Piacenza al rango di semplice sede episcopale e la sottopose nuovamente alla giurisdizione dell'arcivescovo di Ravenna, come è documentato da un atto del 7 luglio 997. Nell'autunno del 997 G. cercò una via di uscita e fece sapere all'imperatore che avrebbe accettato qualsiasi condizione gli fosse posta, ivi compresa la rinuncia al papato. Ma la sua offerta venne ignorata, poiché a corte non si aveva intenzione di trattare né con lui né con Crescenzio II Nomentano. Quando l'esercito imperiale, nel febbraio 998, lasciò Ravenna per marciare su Roma, G. fuggì dalla città, mentre Crescenzio II si ritirava in Castel S. Angelo. Quando poi Ottone III e Gregorio V, dopo aver aperto una trattativa con i Romani, entrarono in città pacificamente, G. inviò all'imperatore una richiesta di grazia, che rimase senza risposta. Un contingente guidato dal conte Bertoldo (Birthilo) di Brisgovia scoprì G., che si nascondeva in una torre fortificata nei pressi della città. Secondo gli Annales Quedlinburgenses, che si rifanno al racconto dello stesso Bertoldo, a G. vennero cavati gli occhi e tagliati il naso e la lingua subito dopo la cattura. La decisione sarebbe stata presa nel timore che Ottone III non lo punisse, ma gli concedesse la grazia. Responsabile dell'iniziativa dovrebbe essere stato Gregorio V che in questo modo eliminava il suo oppositore. Ma mentre Ottone III e il papa erano certamente d'accordo sul trattamento da infliggere a Crescenzio, erano forse di diverso parere sulla punizione per G.; ciò nonostante Bertoldo e i suoi non furono puniti per la loro azione, ma anzi premiati dall'imperatore. Alla notizia della cattura di G., il venerabile Nilo, compatriota dell'antipapa, che pure aveva criticato per l'ambizione che lo aveva spinto ad accettare il pontificato, si affrettò a raggiungere Roma per ottenere dall'imperatore e da Gregorio V che il reprobo gli fosse consegnato, in modo da poterlo portare con sé nella comunità monastica di Serperi (presso Gaeta). L'imperatore sarebbe stato disposto a consegnare G., purché Nilo accettasse di assumere la guida di un monastero romano, offerta che l'eremita rifiutò. Nel maggio 998 si riunì in una chiesa romana, sotto la presidenza di Gregorio V, il sinodo che decretò la formale deposizione di Giovanni XVI. Al prigioniero non fu concesso di discolparsi; egli venne scomunicato, deposto e privato della dignità sacerdotale. Si seguì, con alcune varianti, il normale rituale per simili cerimonie: G. venne condotto di fronte agli astanti rivestito delle sue vesti sacerdotali, che gli vennero tolte l'una dopo l'altra e strappate.

Dopo la deposizione G. fu sottoposto ad un insolito e disonorante trattamento, che - tra l'VIII e il XII secolo - venne eseguito solo in rari casi nella deposizione di un antipapa. G. fu condotto per le vie della città seduto al contrario su un asino, con in mano la coda dell'animale a guisa di redini e col capo coperto di una pelle, secondo un rituale che aveva forse origini bizantine e mostra delle analogie con usanze specificamente romane, praticate durante la festa della "Cornomachia", che dall'XI secolo si svolgeva il sabato dopo Pasqua. La cavalcata di G. su un asino doveva essere l'evidente e pubblica dimostrazione della sua deposizione, ma doveva certamente servire anche a istillare un sacro terrore nei potenziali avversari di Gregorio V. Nilo, sconvolto e irritato per la vergognosa cavalcata cui l'antipapa era stato costretto, abbandonò precipitosamente Roma e fece sapere al papa e all'imperatore che Dio avrebbe perdonato loro i peccati commessi tanto quanto essi si erano mostrati misericordiosi nei confronti di Giovanni XVI. Quanto a lungo G. sia sopravvissuto nel monastero in cui era stato confinato, non è noto. Nel 1001 un'ambasceria di Piacenza avrebbe fatto visita a G. a Roma, forse per iniziativa del vescovo Sigefredo di Piacenza. Gli inviati avrebbero chiesto a G. le reliquie della martire Giustina, che egli aveva ottenuto durante il suo pontificato. G. avrebbe riconosciuto di aver ricevuto le reliquie per farne dono a Piacenza e le avrebbe quindi consegnate ai legati. Questi le avrebbero portate nella città padana, dove giunsero il 17 agosto 1001. Il racconto, tardivo, non ha comunque riscontri. Secondo una notizia inserita nel catalogo degli abati di Nonantola, G. sarebbe morto un 26 agosto. È incerto poi se il "Graecus Iohannes" iscritto nel necrologio di Fulda alla data del 2 aprile del 1013 (in M.G.H., Scriptores, XIII, 1881, p. 210) possa essere identificato con Giovanni XVI.

fonti e bibliografia

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