GIOVANNI XXIII, antipapa

Enciclopedia dei Papi (2000)

Giovanni XXIII, antipapa

François-Charles Uginet

Baldassare Cossa, figlio di Giovanni e di Ciocciola Barile, nacque, probabilmente a Napoli, intorno al 1360/1365. La famiglia del padre, insignito del titolo di signore di Procida, era originaria d'Ischia. I Cossa erano in strette relazioni con quel nucleo di famiglie napoletane che si trovavano ad esercitare particolare influenza sui pontefici di obbedienza romana dopo che due di questi, eletti l'uno di seguito all'altro, Urbano VI e Bonifacio IX, erano usciti dalle sue fila.

Inviato all'Università di Bologna, Cossa vi ottenne, al termine di un ciclo di studi durato più di dieci anni, un dottorato in diritto che i suoi avversari attribuiranno in seguito più al favore che al merito. È anche vero che tale pratica non era infrequente e che, in quel periodo, l'arcidiacono di Bologna fu sempre un napoletano vicino al potere pontificio e alla cerchia di famiglie con le quali erano imparentati i Cossa. La scelta della carriera ecclesiastica sembra gli sia stata imposta per ragioni di opportunità, alle quali non fu estranea una strategia famigliare che riponeva sicure speranze in un personaggio certamente ricco di doti.

Dal 1386 è attestato come canonico della cattedrale di Bologna, commissario del cardinale legato della città e vicegerente del Capitolo. Questi benefici ed incarichi erano dovuti probabilmente ai suoi legami di parentela o clientelari con il vescovo di Bologna Filippo Carafa, che sarebbe morto nel 1389. Quello stesso anno Cossa figura nella "familia" del cardinale Pietro Tomacelli, eletto in seguito papa (il 2 novembre) con il nome di Bonifacio IX. Già a partire dal 7 agosto 1392 lo si trova a Roma come "cubicularius" del pontefice e, il 9 dicembre 1396, è nominato arcidiacono di Bologna, funzione che manterrà, a dispetto delle successive promozioni, fino al 1404. Il 27 febbraio 1402 Bonifacio IX lo fa entrare nel Sacro Collegio come cardinale diacono del titolo di S. Eustachio, in occasione di una promozione cardinalizia nella quale Antonio Caetani, fratello della cognata del papa, è l'unico altro eletto.

Il 19 gennaio 1403 Bonifacio IX nominò Cossa legato in Romagna al fine di recuperare, dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti, i possedimenti della Chiesa. Partito da Roma il 17 giugno, Cossa fece la sua entrata a Bologna il 17 settembre successivo. Il suo governo si caratterizzò per la grande brutalità con la quale riprese in mano una regione dominata dalle oligarchie locali: ma, stando alla testimonianza stessa di alcuni dei suoi detrattori, questo regime si rivelò benefico per Bologna e la Romagna. Il potere che gli conferiva la sua posizione di legato e l'arricchimento personale di cui beneficiò suscitarono sospetti presso i successori di Bonifacio IX. Innocenzo VII cercò probabilmente di limitare il suo mandato ma la morte glielo impedì: l'intenzione del pontefice era tuttavia così nota ai contemporanei che Cossa fu sospettato di averlo fatto avvelenare (Corpus chronicorum Bononiensium, p. 520). Impossibilitato a lasciare la Romagna, non poté partecipare all'elezione di Gregorio XII. Quando questi cadde in balìa dell'ambizioso Ladislao d'Angiò-Durazzo che, in cambio del suo riconoscimento come re di Sicilia, gli offriva aiuto e protezione contro quanti - in particolare Luigi II d'Angiò anch'egli aspirante alla Corona di Sicilia - volevano costringere il papa ad abdicare, Cossa restava la sola speranza per la sopravvivenza del potere temporale. Di fatto, egli trasformò la Romagna e le città pontificie dell'Emilia in una forte unità difensiva capace di allearsi con Firenze (maggio 1408) per resistere ai progetti egemonici di Ladislao. Dopo il fallimento dei tentativi di riavvicinamento tra Gregorio XII e Benedetto XIII in vista di una risoluzione dello scisma, Cossa s'associò, per procura, ai cardinali che a Livorno, il 29 giugno 1408, si sottrassero all'obbedienza dei due pontefici e richiesero la convocazione di un concilio per porre fine allo scisma. Gregorio XII, che lo designava come "caput mali et principalior unionis hostis et pacis", lo privò, ma senza effetto, della sua legazione (17 settembre 1408). Con il sostegno delle autorità fiorentine e di Luigi d'Angiò, Cossa organizzò - e probabilmente finanziò - il concilio che si tenne a Pisa dal marzo al giugno 1409. Nessuno dubitava all'epoca che egli potesse essere eletto quale successore dei due pontefici rivali, deposti dal concilio. L'elezione dell'arcivescovo di Milano, Pietro Filargis, che assunse il nome di Alessandro V (26 giugno), non fece che ritardare l'avvenimento di alcuni mesi nel corso dei quali Cossa, confermato intanto nella legazione bolognese dal pontefice, cercò di rientrare in Roma con l'ausilio di Luigi d'Angiò. La sua opposizione a Ladislao d'Angiò-Durazzo, che occupava la città, valse al Cossa la reclusione dei parenti (tra i quali la madre) rimasti a Napoli.

Alla morte di Alessandro V, Cossa fu eletto papa il 17 maggio 1410 da diciassette cardinali, al termine di un conclave tenutosi a Bologna e durato solo tre giorni. Dopo aver assunto il nome di Giovanni XXIII, fu ordinato prete il 24 maggio e, il giorno seguente, consacrato vescovo ed incoronato. La sua nomina era certo il frutto di una palese convergenza fra le ambizioni di Luigi II ed i progetti delle autorità fiorentine, ma, per i cardinali, Cossa era anche il candidato migliore per salvare lo Stato pontificio. Rimasto in un primo tempo a Bologna, G. sembra essersi fissato come primo obiettivo la riconquista di Roma, sempre occupata dalle truppe di Ladislao. Finanziato da un prelievo sulle decime spettanti al clero di obbedienza angioina, lo sforzo si concretizzò nell'entrata del papa in Roma, avvenuta il 12 aprile 1411, in compagnia di Luigi II. Benché vincitore di Ladislao a Roccasecca (19 maggio), Luigi non sfruttò però ulteriormente il suo vantaggio e lasciò l'Italia l'8 maggio, lasciando G. solo davanti al suo avversario che riconquistò rapidamente terreno grazie all'alleanza, fra gli altri, di Carlo Malatesta, indefettibile sostegno di Gregorio XII. In cerca di appoggi, G. si rivolse allora al neoeletto re dei Romani (21 giugno 1411) Sigismondo di Lussemburgo. In Francia, già dal mese di febbraio, si era assicurato il sostegno della corte autorizzando la riscossione di un "dono gratuito" del clero al sovrano. In modo più generale ricercò sostegno in tutta la cristianità creando, il 6 giugno 1411, quindici cardinali, uno solo dei quali era suo parente. Oltre a quelli che gli erano stati raccomandati da sovrani come il re d'Inghilterra o il re dei Romani, si notano tra i designati alcune personalità di grande valore che segnarono profondamente la loro epoca, quali, in Italia, Branda Castiglione, Francesco Zabarella e Ludovico Adimari e, in Francia, Pierre d'Ailly, Guillaume Fillastre e Gilles des Champs.

Conformemente a quanto previsto nel corso della XXI sessione del concilio di Pisa, G. annunciò, il 29 aprile 1411, la convocazione di un nuovo concilio che doveva riunirsi a Roma nella primavera successiva. La situazione all'interno dello Stato pontificio rimaneva nel frattempo assai precaria: nel maggio 1411, la città di Bologna, insidiata dalle schiere di Carlo Malatesta, aveva cacciato il rappresentante pontificio e Firenze, sempre preoccupata delle conseguenze che un aperto conflitto con Ladislao avrebbe comportato per i suoi interessi economici, consigliava il pontefice di trattare con lui. Ma G. non voleva sentir parlare di pace con il re di Sicilia. È in questo periodo che, a Roma, fece ripristinare da Antonio da Todi il "passetto" che collega il Vaticano a Castel S. Angelo. L'11 agosto 1411 G. scomunicò Ladislao, il 9 settembre lo depose e fece predicare la crociata contro di lui in tutta la cristianità. La predicazione della crociata a Praga, nel maggio 1412, provocò un violento attacco di Jan Hus contro le bolle pontificie. L'episodio, al quale fece seguito la condanna a morte di tre giovani che avevano contestato un predicatore della crociata, fu una tappa importante nel conflitto, apertosi già in precedenza, tra Jan Hus e le autorità ecclesiastiche.

Nel novembre 1411, G. tentò, senza successo, di intromettersi nel conflitto che opponeva la Repubblica di Venezia a Sigismondo, per far sì che quest'ultimo potesse soccorrerlo. Il ristabilirsi dell'autorità pontificia in Umbria e l'arruolamento di Guido Antonio da Montefeltro al servizio di G. (27 maggio 1412) indussero forse il papa a cercare un'intesa con il re di Sicilia: il 17 giugno 1412, sulla spiaggia di Monte Circello, nei pressi di San Felice, il cardinale Rinaldo Brancaccio concludeva con Ladislao un'intesa che venne resa pubblica solo il 16 ottobre successivo.

Stando ai termini dell'accordo, il papa riconosceva a Ladislao i suoi diritti sul Regno di Sicilia come quelli di sua sorella Giovanna, destinata a succedergli nel caso egli fosse morto senza eredi legittimi. I processi avviati contro di lui furono annullati al pari della richiesta di pagamento dei censi arretrati e di quelli dei successivi dieci anni. G. confermò al re tutte le concessioni fatte in suo favore da Gregorio XII e gli riconobbe, in cambio di un censo da devolvere alla Camera apostolica, il possesso di Perugia per un periodo di dieci anni, di Ceprano per quindici, nonché il vicariato pontificio, vita natural durante, di Terracina, San Felice Circeo, Benevento e Ascoli Piceno. Ma, soprattutto, il papa si impegnava a versargli 60.000 ducati l'anno per il soldo di milleseicento cavalieri arruolati dal re, oltre a 125.000 ducati da pagare in due annualità per la condotta di Sforza Attendolo: come pegno di questi pagamenti Firenze avrebbe ricevuto un certo numero di roccaforti dello Stato pontificio. In cambio di questi onerosi impegni, Ladislao si sottraeva all'obbedienza di Gregorio XII, che doveva abbandonare il Regno, e prometteva di riconoscere G. quale unico papa legittimo. Infine, liberava i parenti di G., trattenuti prigionieri a Napoli, dal tempo del concilio pisano.

La calma relativa che seguì l'accordo permise la riunione conciliare convocata due anni prima. Le difficoltà di raggiungere Roma ne ritardarono la solenne apertura al 10 febbraio 1413. Ma già il 3 marzo G. annunciò che il concilio sarebbe tornato a riunirsi nel dicembre in una città il cui nome sarebbe stato indicato in seguito: era evidente che non sarebbe stata Roma.

Il concilio attrasse poca gente: la più importante decisione fu la condanna degli scritti di Wycliffe fatti bruciare da G. sulla scalinata della basilica di S. Pietro il giorno stesso dell'apertura. Le rimostranze più o meno aperte contro gli abusi dell'amministrazione pontificia in materia di benefici ecclesiastici furono messe a tacere con numerose concessioni personali - in particolare in favore del clero francese - e dalla redazione di nuove norme per la Cancelleria pubblicate in una bolla del 2 maggio 1413.

La pace con Ladislao era destinata a non durare: il papa non era certo in grado di tenere fede ai suoi impegni finanziari e Ladislao diffidava di un concilio che non si sarebbe tenuto a Roma. È in ogni caso questo il pretesto che il re invocò per reclamare la custodia dello Stato della Chiesa che G. gli rifiutò: alla fine del mese di maggio il re di Napoli si trovava personalmente sotto le mura di Roma. Il 5 giugno G. dichiarava che l'omaggio prestatogli da Ladislao non pregiudicava in nulla i diritti sul Regno di Sicilia di Luigi d'Angiò ma, la notte del 7, era costretto a fuggire precipitosamente da Roma. Arrivato a Firenze il 21 giugno, si vide rifiutare l'ingresso in città e dovette soggiornare nei dintorni fino alla sua partenza per Bologna (8 novembre). In questo estremo frangente, unico possibile referente rimaneva Sigismondo, presso il quale G. inviò i cardinali Zabarella, Challant e Crisolora, muniti di pieni poteri (25 agosto 1413), per decidere la sede della successiva sessione del concilio: a Como, dove si incontrarono con l'imperatore, i cardinali accettarono la scelta di Costanza, in territorio soggetto all'Impero, dove il concilio doveva riaprirsi il 1° novembre 1414. Sigismondo diffuse la notizia ancor prima che il papa avesse ratificato questa scelta. Nonostante le sue reticenze G., che incontrò il suo alleato a Lodi, l'8 dicembre 1413, diede il suo assenso e spedì immediatamente le bolle di convocazione. L'appoggio di Sigismondo si rendeva ancor più necessario dato che la situazione in Italia continuava a peggiorare. Ladislao, poco rassicurato dall'incontro di Lodi e dal riaffacciarsi di Luigi d'Angiò sulla scena italiana, mise in atto il suo progetto di totale occupazione dello Stato pontificio che, stando al tenore dell'accordo di pace siglato con Firenze il 22 giugno 1414, poteva essere ormai considerato come eliminato dalla carta politica d'Italia. La morte improvvisa di Ladislao (16 agosto 1414) liberò dunque da un pesante fardello G., il quale si preoccupò immediatamente di riprendere Roma. Vi rinunciò solo davanti alle vivaci proteste dei cardinali, rimandando la riconquista dello Stato della Chiesa alla conclusione del concilio; nel frattempo egli rinunciò anche ad andare ad Avignone dove voleva prendere contatti con Luigi d'Angiò e la sua corte, perché ciò gli avrebbe impedito di essere puntuale all'appuntamento di Costanza.

Il 1° ottobre 1414 G. lasciò Bologna in compagnia di sei cardinali e, dopo aver attraversato la "Venetia" ed il Tirolo, entrò nella città del concilio il 28 ottobre. Per garantire la propria incolumità aveva nominato già dal 15 ottobre il duca Federico d'Austria capitano generale delle armate. I rapporti tra G. e l'assemblea conciliare non potevano essere buoni: potendo contare sull'obbedienza della maggior parte della cristianità e ufficialmente riconosciuto quale unico papa legittimo da quanti erano presenti all'apertura dell'assise, G. si rese ben presto conto che per Sigismondo ed un numero crescente di cardinali, di prelati, di giuristi e teologi, egli non era che un papa "in esubero" dal quale, presto o tardi, sarebbe stata pretesa la formale rinuncia alla carica - al pari dei suoi rivali Gregorio XII e Benedetto XIII - per risolvere definitivamente l'annoso problema dello scisma. Fin dalle prime sedute il papa fu umiliato da Pierre d'Ailly (N. Valois, IV, pp. 263-65), benché fosse una delle sue creature, e mentre nel novembre 1414 aveva fatto abbattere gli stemmi di Gregorio XII che alcuni avevano innalzato a Costanza, già nel gennaio successivo dovette tollerare che il capo dell'ambasceria di quello stesso Gregorio XII, Giovanni Dominici, si presentasse rivestito delle insegne della sua dignità cardinalizia. Un'altra delle sue creature, il cardinale Guillaume Fillastre, doveva sottrargli le sue ultime illusioni: nell'impossibilità di ricorrere alla forza per ridurre il numero dei pontefici rivali, egli proponeva infatti di convincerli a rinunciare spontaneamente. Se G. avesse rifiutato di agire in tal modo, avrebbe potuto esservi costretto da un ordine del concilio. Posto in minoranza nei dibattiti dal momento in cui al voto "pro capite" - che gli sarebbe stato favorevole per il gran numero di italiani presenti a Costanza - fu preferito il voto per singola "natio", G. cercò di prendere tempo rinforzando nel contempo le misure di sicurezza intorno alla sua persona: il 18 gennaio 1415 si assicurava con la somma di 16.000 scudi d'oro la protezione del margravio di Baden, contro qualsiasi tentativo ostile da parte di Sigismondo.

Dopo che il voto delle nazioni ebbe ratificato la proposta di Guillaume Fillastre, G. giunse a sottoscrivere un accordo di principio giurando solennemente nel corso della seconda sessione conciliare (2 marzo 1415) che avrebbe abdicato purché i suoi due concorrenti facessero altrettanto. L'arrivo degli ambasciatori del re di Francia, due giorni dopo, l'incoraggiò forse a riservarsi il diritto di abdicare personalmente e non tramite un procuratore. I violenti dibattiti sorti intorno a tale problema inasprirono i sospetti e G., presentendo che si sarebbe presto cercato di arrestarlo, cominciò a dichiarare che né lui né l'assemblea conciliare disponevano della necessaria libertà. Nella notte fra il 20 e il 21 marzo, con un camuffamento, abbandonò segretamente Costanza per raggiungere il castello di Sciaffusa di proprietà del suo protettore, il duca Federico d'Austria. Questa partenza, che gettò nello smarrimento i Padri del concilio la cui opera rischiava d'essere macchiata da nullità - il 23 marzo G. aveva infatti ingiunto a tutti i funzionari della Curia di raggiungerlo a Sciaffusa - fu seguita da negoziati con il papa che sembrava disposto all'intesa. Ma il 26 marzo, spinti da Jean Mauroux, patriarca titolare di Antiochia, i componenti del concilio dichiararono di non poter essere né sciolti né trasferiti. Il 29 marzo, dopo che Sigismondo, animato da un tenace rancore contro il pontefice, ebbe sfidato il duca Federico, G. ritenne prudente fuggire a Laufenburg, roccaforte sotto il controllo del duca, posta fra Sciaffusa e Basilea, poi a Friburgo in Brisgovia. Dopo un vano tentativo di passare sulla riva sinistra del Reno, e avvicinarsi così al duca di Borgogna, G. dovette ritornare a Friburgo dove Federico d'Austria, costretto a cessare ogni resistenza contro Sigismondo, finì per consegnarlo al re dei Romani (27 aprile 1415).

Mentre era prigioniero a Radolfzell, poco lontano da Costanza, il suo processo fu rapidamente istruito davanti al concilio sulla base di settantaquattro capi d'accusa dei quali solo una ventina non furono alla fine accettati come validi. Sospeso il 24 maggio e deposto il 29, G. rinunciò ad ogni appiglio formale che avrebbe potuto essere invocato per mettere in dubbio la regolarità della sentenza: ritornato Baldassare Cossa, rifiutò di allegare alcunché a sua difesa e ratificò interamente il giudizio del concilio. Riconsegnato a nome di quest'ultimo a Sigismondo, questi, in attesa dell'elezione del nuovo pontefice, lo affidò al conte palatino del Reno, Ludovico di Baviera, intransigente sostenitore di Gregorio XII, che lo rinchiuse nel castello di Hausen presso Mannheim. L'anno seguente, dopo un tentativo di evasione, fu trasferito a Heidelberg. Fu solo nel gennaio del 1418 che Martino V, eletto papa l'11 novembre dell'anno precedente, decise di occuparsi di lui, pur lasciandolo ancora nella prigionia del conte palatino con il quale Cossa dovette negoziare la sua consegna nelle mani dei commissari pontifici. Questa ebbe luogo solo nell'aprile 1419, alla fine di lunghe trattative condotte da un agente di Giovanni Bicci de' Medici e solamente dopo che 35.000 gulden renani furono consegnati al conte palatino di Heidelberg. Lungo la strada per Firenze, dove doveva ricongiungersi a Martino V, Cossa, temendo di essere di nuovo imprigionato, si rifugiò a Sarzana sotto la protezione del doge di Genova, Tommaso Fregoso. Questa iniziativa preoccupò vivamente la Curia dove si temeva che il Cossa, il quale annoverava ancora dei simpatizzanti, potesse riaprire lo scisma. Questo timore venne meno quando G., in abiti di dottore in legge, si presentò di sua volontà davanti a Martino V, a Firenze, il 23 giugno 1419, riconoscendolo come solo legittimo pontefice. Questi lo accolse con emozione, ricordando i suoi meriti in favore dell'unione ed il sostegno finanziario apportato al concilio di Pisa.

Da quel giorno Cossa riprese il suo posto nel Sacro Collegio come vescovo di Porto, sede lasciata vacante per la morte del suo anziano rivale, Gregorio XII, al quale era stata attribuita dopo la rinuncia al pontificato. Nel corso dell'estate, con il pretesto di un pellegrinaggio per venerare il corpo di s. Antonio a Padova e le reliquie di s. Lucia, progettava ancora un viaggio a Venezia con lo scopo di proporre alla Repubblica di intervenire in suo favore per giungere ad un accordo con il duca di Milano. La manovra aveva come fine principale quello di convincere Filippo Maria Visconti ad abbandonare l'alleanza stretta con Sigismondo, nemico di vecchia data del Cossa. Poco tempo dopo però egli moriva a Firenze il 27 dicembre 1419.

I Medici, che erano stati introdotti da G. nell'attività della Camera apostolica e che figurano fra i suoi esecutori testamentari, gli fecero innalzare da Donatello e Michelozzo una tomba che fu posta, dopo lunghe discussioni, nel battistero della cattedrale di Firenze e che venne eseguita intorno al 1425-1430, all'epoca in cui questi stessi artisti realizzarono il monumento commissionato dal cardinale Rinaldo Brancaccio per il suo sepolcro a Napoli.

Sulla scorta degli scritti di Dietrich di Nieheim e dei suoi detrattori al processo di Costanza, la figura del Cossa è stata oggetto di una valutazione estremamente severa ancora largamente diffusa. Gli studi più recenti tendono ora a mostrare che i suoi difetti, simili a quelli di tanti altri cardinali del suo tempo, non impedirono ai contemporanei di riconoscere i suoi meriti personali: fu un grande legato a Bologna ed è grazie al suo fattivo sostegno che si poté riunire il concilio di Pisa, preambolo indispensabile a quello di Costanza. L'uomo meritò il rispetto e l'amicizia fedele di eminenti personalità, ma anche odi feroci per la sua gestione dei proventi ecclesiastici che utilizzò con spregiudicatezza al fine di fare fronte ad una situazione finanziaria e politica estremamente difficile per il papato. Nel suo sforzo di salvare lo Stato della Chiesa e nei suoi tentativi di risoluzione del grande scisma, egli si colloca incontestabilmente ben al di sopra degli ultimi pontefici di obbedienza romana.

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(traduzione di Hélène Angiolini)

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