GRAZZINI, Antonfrancesco

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 59 (2002)

GRAZZINI, Antonfrancesco (detto il Lasca)

Franco Pignatti

Nacque a Firenze il 22 marzo 1504 da Grazzino e Lucrezia di ser Lorenzo de' Santi.

Il padre del G. era nato nel 1452; rimasto orfano, fu allevato insieme con i tre fratelli dagli zii paterni Simone e Iacopo, entrambi notai. Divenuto anch'egli notaio, rogò a partire dal 1470; nel 1485 accedette alla carica di notaio della Signoria e dal 1502 al 1512 ricoprì vari incarichi pubblici. Dopo il ritorno dei Medici fu escluso dagli uffici. Morì nel 1516. Dal matrimonio con Lucrezia nacquero altri tre figli - Girolamo, Lorenzo, Simone -, tutti premorti al G., che era il primogenito. Di mestiere erano tiralori, cioè artigiani che riducevano in fili l'oro e l'argento.

Sulla formazione del G. non si hanno notizie precise, ma certamente non seguì studi regolari; in vari componimenti confessa di ignorare il latino. L'esordio nella vita letteraria fiorentina ebbe luogo negli anni del principato di Alessandro de' Medici, con la partecipazione a riunioni di letterati dilettanti, provenienti dai mestieri, nelle quali si leggevano gli autori volgari fiorentini e venivano proposti nuovi componimenti. La qualifica di "compositor", cioè scrittore, in un documento degli Otto di guardia e balia del 23 marzo 1537 (in Plaisance, La structure…, p. 92) indica che a quella data egli non esercitava un mestiere, ma era già pubblicamente noto per la sua produzione letteraria. Luca Martini, scrivendo a Carlo Strozzi il 21 ag. 1540 (ibid., pp. 93 s.), riferisce che "canti, commedie e favole" del G. andavano in giro sotto il nome di Gismondo Martelli, uno dei "poetini" della cerchia che il G. riuniva intorno a sé: dunque il G. esercitava allora l'ufficio di mentore dei giovani fiorentini che coltivavano la poesia.

Alieno per indole da prese di posizione politiche, il G., pur essendo per tradizione familiare non avverso ai Medici, dovette vivere l'esperienza dell'assedio e del regime tirannico instaurato da Alessandro come un evento traumatico; comunque, in una lettera del 29 apr. 1536 (Lettera a messer Bernardo Guasconi, a cura di C. Guasti, in Giornale degli archivi toscani, III [1859], pp. 288-294), descrisse l'ingresso di Carlo V in Firenze manifestando sentimenti apertamente filomedicei e filoimperiali. Salutò con favore l'avvento di Cosimo I, che sembrava aprire un periodo di legalità e di tolleranza. La disposizione ottimistica verso il potere cosimiano permaneva intatta tre anni dopo, quando il G. partecipò con una lunga egloga al clima di festa per le nozze tra Cosimo I ed Eleonora di Toledo.

Verso la fine degli anni Trenta il G. era in relazione con Benedetto Varchi, che si era stabilito a Padova dopo avere lasciato Firenze nel 1537, e la cerchia dei suoi corrispondenti fiorentini. Tra gli amici del G. erano Luca Martini, Carlo di Roberto Strozzi, Cosimo di Palla di Bernardo Rucellai, allievo del Vettori, il mercante fiorentino residente a Roma Bartolomeo Bettini. Tramite questi canali il G. poté avere notizia dell'attività della padovana Accademia degli Infiammati, che, costituitasi nell'aprile 1540 ebbe tra i suoi membri il Varchi, Ugolino Martelli e Carlo Strozzi.

In attesa che i fermenti della vita culturale a Firenze si concretizzassero in un'iniziativa organica, l'attività letteraria del G. nello scorcio degli anni Trenta resta ancora mal conosciuta. Non si sa bene come interpretare la notizia che il G. dà in un sonetto rinterzato a B. Bettini (A. Grazzini, Le rime burlesche, a cura di C. Verzone, Firenze 1882, sonetto LXXIV), secondo la quale alcune sue rime circolavano sotto il nome di Vittoria Colonna, quando, nel 1538, la marchesa di Pescara si trovava a Firenze per ascoltare le prediche di B. Ochino in S. Reparata. I titoli di quattro "commedie spirituali" sono trasmessi dalla Tavola delle opere stesa dal G. il 15 sett. 1566 (ibid., pp. CXXI-CXXIV). La Croce o Santa Helena, Santa Apollinare, Santa Caterina, Santa Orsola furono molto probabilmente composte per essere lette durante le riunioni di compagnie religiose di laici. Il G. prendeva parte alle attività della Compagnia della Cicilia (sette canti carnascialeschi recanti nei codici la didascalia "andato alla Cicilia", il secondo anche la data 1543, sono ibid., pp. 210-214, 217-219); alla compagnia di S. Domenico detta del Bechello indirizzò dodici sonetti spirituali (Firenze, Bibl. nazionale, Mss., II.IV.1, cc. 100r-105v) e probabilmente, la sera del venerdì santo di anni non precisabili, vi lesse quattro Orazioni alla Croce, in una delle quali Plaisance (1997, p. 493) ha rintracciato echi del Beneficio di Cristo.

Negli anni Trenta vanno collocati anche due commenti burleschi del G., per i quali dovette giocare la suggestione del Commento al capitolo della primiera di F. Berni (1526) e di quello composto da A. Caro sul Capitolo de' fichi di F.M. Molza (1538): il Comento sopra il Piangirida (due stanze, intitolate Del pianto e Del riso, del poeta Piero Buondelmonti, 1516-90) e il Comento sopra il capitolo della salsiccia, composto dallo stesso Grazzini. Solo il secondo fu stampato, postumo, nel 1589 dai tipografi della Crusca D. e F. Manzani (poi da D. Manzani nel 1606), con un'attribuzione di fantasia e la dedica all'arciconsolo Pierfrancesco Cambi: Lezione di maestro Niccodemo della Pietra al Migliaio sopra il capitolo della salsiccia del Lasca.

Il gruppo di letterati dilettanti di cui faceva parte il G. nel corso del 1540 trovò un nuovo polo di aggregazione nella figura di Giovanni Mazzuoli da Strada in Chianti, detto Stradino, nella cui casa, in via S. Gallo, vide la luce il 1° nov. 1540 l'Accademia degli Umidi. Lo Stradino era stato soldato di ventura al seguito di Giovanni dalle Bande Nere, rimanendo legatissimo a casa Medici anche dopo il 1527. Il G., che gli fu molto amico, lo celebra in numerose poesie. Il 14 novembre fu scelto il nome dell'Accademia tra quelli proposti dagli undici fondatori. Il titolo di Umidi pare essere un ironico contrappasso a quello di Infiammati, con allusione sull'elemento acquatico come fonte di prosperità e di accrescimento. In relazione con l'acqua furono anche gli pseudonimi assunti dagli accademici; il G. confermò quello di Lasca, con cui era già noto e che conservò gelosamente per il resto della vita, pretendendo di mantenerlo anche quando fu membro dell'Accademia della Crusca, con il pretesto che le lasche, per essere fritte, devono essere prima infarinate. Negli statuti era previsto che fossero lette e commentate poesie del Petrarca e di altri buoni autori toscani. La prima lezione su cui abbiamo notizie circostanziate è una lezione pubblica, pronunciata da Francesco Verino il 17 febbr. 1541 in una sala di S. Maria Novella, ma già nel novembre 1540 si tennero lezioni su Petrarca entro il consesso degli accademici. Il 21 novembre G. Martelli lesse il sonetto Una candida cerva sovra l'erba (in Rerum vulgarium fragmenta [da ora in poi R.V.F.] 190); nella Tavola delle opere al 1566 del G. risultano tre commenti petrarcheschi, tra di essi proprio uno su R.V.F. 190 (il che fa ipotizzare a Plaisance, Une première…, p. 391, che fosse il G. l'estensore della lezione tenuta dal Martelli), poi uno sul sonetto Già fiammeggiava l'amorosa stella (R.V.F. 33), oggi introvabile, e un altro su un sonetto non specificato, da identificare con Erano i capei d'oro a l'aura sparsi (R.V.F. 90; Commento a Erano i capei d'oro a l'aura sparsi. Per nozze Mancini-D'Achiardi, a cura di G. Gentile, Castelvetrano 1898).

L'ingresso tra gli Umidi di Cosimo Bartoli e di Pierfrancesco Giambullari il 25 dic. 1540 segnò l'inizio di una rapida evoluzione dell'Accademia che portò, l'11 febbr. 1541, alla trasformazione in Accademia Fiorentina e alla cooptazione nella politica mecenatizia di Cosimo I. Bartoli e Giambullari, oltre a possedere una cultura superiore a quella che potevano vantare gli Umidi, erano da sempre strettamente legati ai Medici e la loro azione all'interno dell'Accademia fu volta con decisione a imprimere al consesso una svolta istituzionale e a garantire una precisa funzione di rappresentanza in campo culturale nell'organigramma del nuovo Stato principesco. Il 15 e il 20 genn. 1541, furono accolti nuovi accademici, tutti personaggi più o meno legati ai Medici; il 31 gennaio fu insediata una commissione con l'incarico di procedere a una riforma: l'11 febbraio i risultati del lavoro furono approvati dagli altri accademici quasi all'unanimità, ventisette voti su ventotto, con la sola opposizione del G., che era cancelliere e si dimise, rifiutandosi di copiare il nuovo statuto. In attesa che l'Accademia funzionasse secondo i nuovi statuti, il che avvenne a partire dal 25 marzo, furono eletti degli organi provvisori, tra di essi fu anche il G., nominato, con un gesto conciliante, provveditore.

Nel giorno dell'Epifania del 1541, nella casa della cortigiana Maria da Prato, ebbe luogo, per la rappresentazione della Compagnia del Fiore, l'esordio del G. come autore teatrale con la farsa Il frate.

Nel prologo del Frate il G. espone le ragioni del suo rifiuto delle norme della commedia regolata, ricavate da Plauto e Terenzio, ma annuncia l'uscita a stampa, entro sei mesi, di alcune sue commedie, nelle quali mostrerà di essere capace di comporre secondo le regole dei classici. La sorte del Frate rappresenta un capitolo a sé nelle vicende editoriali del teatro grazziniano. Rimasto inedito fino al XVIII secolo, fu incluso tra le Commedie, terzine ed altre opere edite ed inedite di N. Macchiavelli [sic] (Cosmopoli [ma Venezia] 1769) per l'arbitraria attribuzione dell'editore G. Pasquali, il quale l'aveva tratto dal ms. conservato in Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. it., cl. X, 27 (= 7173), dove si trova adespoto e anepigrafo. I sostenitori della paternità machiavelliana trassero argomento dalle affinità tra il personaggio di frate Alberigo nel Frate e quello di fra Timoteo nella Mandragola, e giudicarono la farsa opera tarda rispetto al capolavoro teatrale del segretario fiorentino, finché la restituzione al G. avvenne alla fine del XIX secolo.

Nei primi mesi del 1541 il G. continuava ad animare il gruppo degli Umidi, che costituiva ormai una fazione a sé all'interno dell'Accademia e si riuniva per conto suo in casa dello Stradino o di altri accademici. Del resto, il prevalere dell'indirizzo erudito e la concentrazione sulle lezioni (l'Accademia non fece rappresentare commedie fino al 9 nov. 1544, quando fu dato il Furto di F. D'Ambra) significava precludere agli Umidi settori a loro congeniali. Nell'autunno 1541 il G. disertò le riunioni accademiche, riprese il 25 settembre.

Un'ulteriore riforma, volta a garantire una migliore organizzazione delle letture pubbliche e private degli accademici, fu varata nel settembre 1542 con una procedura straordinaria. Il 6 settembre, cioè durante la sospensione estiva delle attività, nella casa del segretario del duca Francesco Campana, una giunta redasse i nuovi articoli, che furono approvati il giorno 16, nella stessa sede, dai soli 19 accademici presenti. L'8 nov. 1542, estratti a sorte per tenere una lettura, secondo le nuove procedure, il G. e Piero Covoni si rifiutarono di farlo, e questo irrigidimento degli Umidi, seguiti anche da altri accademici, compromise il sistema delle lezioni, che si tennero con irregolarità fino ai primi mesi del 1543. Nell'aprile dello stesso anno più di una quarantina di accademici, tra i quali coloro che si erano rifiutati di leggere, furono privati del diritto di voto e di eleggibilità, così impedendo loro di partecipare alla vita dell'Accademia; furono reintegrati solo il 15 ag. 1544 dal consolo uscente Ugolino Martelli per procedere all'elezione dei nuovi magistrati. Nel frattempo l'ingresso in Accademia di Benedetto Varchi l'8 marzo 1543 era stato un fatto di grande rilievo, poiché il letterato si congedava dai suoi trascorsi repubblicani per conciliarsi con il regime mediceo e accettava di reinserirsi nella vita culturale fiorentina. Il gruppo degli Umidi, e tra di essi il G., vide nel Varchi la personalità prestigiosa che poteva rompere l'accerchiamento in cui erano stati costretti, ma il Varchi optò per una condotta neutrale, che lo portò, in effetti, al consolato il 1° febbr. 1545.

Il G., proposto per la censura in questa occasione, non fu eletto, e anche per quella di provveditore Migliore Visino ebbe la meglio su di lui e su Simone Della Volta. Tuttavia la sostanziale tolleranza religiosa e culturale che regnò a Firenze fino al 1547 consentì ancora una discreta possibilità di manovra. In questa congiuntura favorevole si inserisce la Strega, del G., la cui composizione cade nei mesi dell'allestimento della guerra contro la Lega smalcaldica, nel maggio-giugno 1546.

La Strega è incentrata sulla figura di Taddeo Saliscendi, giovane goffo e innamorato della Geva, il quale smania di partire per la guerra contro i luterani, perché il padre della ragazza non gliela vuole dare in moglie. A scongiurare la partenza dello sprovveduto e ingenuo miles gloriosus si mettono la madre e lo zio, preoccupati che, in caso di morte, il patrimonio di famiglia sia devoluto all'ospedale di S. Maria Nuova. La commedia, la meglio riuscita del G., ha le sue cose più felici nella caratterizzazione del personaggio dello sciocco, burlato dal servo Farfanicchio e blandito dai parenti, che ricorrono a madonna Sabatina, la "strega" del titolo, mezzana e presunta fattucchiera, per farlo recedere dai suoi propositi bellicosi. Motivo d'interesse è la registrazione ghiotta di espressioni popolari fiorentine a fini comici, che fanno della Strega un testo di lingua. Altrettanto visibili sono però le allusioni alla contingenza politico-militare, dalle quali emerge con chiarezza l'indifferenza del G. alla lotta contro i luterani e, anzi, la condivisione del motivo polemico della decadenza della Chiesa e della corruzione del clero. Non solo, la Strega lascia trasparire con una certa evidenza memorie e nostalgie del passato repubblicano che non la potevano rendere gradita al nuovo regime: Taddeo si arma della spada usata dal padre all'assedio del 1530, ricorda le cariche politiche della Repubblica, la sua smania di combattere può sfogarsi solo partecipando a una guerra del papa, che non ha alcun interesse per i Fiorentini, nella sola prima scena appare un personaggio appena uscito dalle carceri ducali e non sa neanche il motivo per cui è stato imprigionato.

Il 4 febbr. 1546, in casa di F. Campana, fu approvato un'ulteriore riforma dell'Accademia Fiorentina. Tra l'altro, fu approvata la norma per cui, a parte coloro che avevano ricoperto il consolato e i padri approvati, i membri che si erano rifiutati di tenere una lezione non sarebbero stati considerati abili alle magistrature. Tale norma, però, fu sospesa per tutto il consolato seguente, di Lorenzo di Bernardo Ridolfi. Nelle elezioni del febbraio 1547 il consolato fu appannaggio di Agnolo Guicciardini; ma egli rinunciò alla carica e fu necessaria una seconda votazione, che si tenne nella casa di Lelio Torelli, primo segretario del duca, il 28 febbraio. In questa sede fu deciso all'unanimità di far valere l'articolo della riforma del 4 febbr. 1546: il G. e i suoi amici non poterono così partecipare alla votazione, da cui uscì eletto il Giambullari. Il primo atto del nuovo consolo fu l'epurazione di tutti quegli elementi che non furono considerati adatti al nuovo corso. Tra i cassati fu quasi tutta la vecchia guardia degli Umidi (eccetto l'inamovibile Stradino, massaio a vita) e con essa il Grazzini.

Gli avvenimenti del 1547 diedero materia ad alcuni poemetti burleschi, in cui le vicende dell'Accademia furono rappresentate allegoricamente. La Gigantea di Girolamo Amelonghi, forse plagio di una Gigantomachia di Betto Arrighi, il cui manoscritto (ora perduto) l'Amelonghi avrebbe sottratto allo Stradino, racconta la conquista dell'Olimpo da parte dei giganti, che andrebbero identificati negli Umidi. Michelangelo Serafini compose una continuazione della Gigantea, la Nanea, che narrava come i nani e i pigmei, accorsi in aiuto degli dei, sconfiggono i giganti (i due poemi, entrambi sotto il nome dell'Amelonghi, uscirono a stampa nel 1549). Il G. da parte sua compose la Guerra de' mostri, in 44 ottave (due edizioni per D. Manzani, nel 1584 e nel 1612, insieme con la Gigantea e la Nanea). All'inizio della Guerra il G. menziona con sufficienza la Gigantea e la Nanea e annuncia che canterà una terza razza, quella dei mostri (da identificare negli avversari degli Umidi), che affrontano e sconfiggono i nani e i giganti, questi ultimi risuscitati dagli dei a loro difesa.

La risposta del G. alla cassazione fu risentita, ma anche preoccupata del rischio a cui si esponeva assumendo una posizione di aperta polemica: la sonettessa LXXXIII, a Cosimo I, allude addirittura a manovre per farlo incarcerare e nella sonettessa LXXXIV si premura di confermare al duca la sua lealtà di suddito e il rispetto per l'Accademia come istituzione. Qualche venatura compromettente emerge nel Lamento dell'Accademia degli Umidi, posteriore all'agosto 1547 (Le rime burlesche, pp. 342-346), nel quale il G. finge che la prosopopea dell'Accademia invochi il suo aiuto affinché la difenda dalle offese recatele dagli altri membri e si spinge a paragonare la decadenza degli istituti accademici a quella degli ordini della Chiesa primitiva, buoni in origine e guastati dall'avidità e dall'ipocrisia del clero. Il 6 giugno 1549, per far fronte al rallentamento che avevano subito le attività a seguito della riforma del 1547, fu consentito che fossero riammessi gli accademici cassati, a condizione che in passato avessero tenuto una lezione o avessero mandato fuori qualche composizione approvata dai censori. Non era il caso del G., ma il consolato di Piero Orsilago, medico, eletto il 19 ag. 1549, fu da lui salutato con favore; progettò di rappresentare una commedia in suo onore nel carnevale 1550, ma Migliore Visino, che avrebbe dovuto partecipare come attore, morì nel gennaio e non se ne fece nulla.

In questi anni il G. curò alcune edizioni di testi della produzione popolare o popolareggiante fiorita a Firenze già da prima dell'età laurenziana e di cui il G. rivendicava la vitalità di contro all'opzione classicistica e cortigiana che la nuova cultura medicea andava imponendo.

L'edizione de Il primo libro dell'opere burlesche, di m. Francesco Berni, di m. Gio. Della Casa, del Varchi, del Mauro, di m. Bino, del Molza, del Dolce, et del Firenzuola curata per i Giunti nel 1548 (ristampe non passive nel 1550 e 1552) nasce dall'intento di affermare l'indiscusso magistero del Berni nella poesia burlesca e antipetrarchista, ma anche di tracciarne una discendenza, tra poeti fiorentini e Accademia Romana dei Vignaiuoli, nella quale il G. ambiva collocare pure se stesso. Nella prefatoria a L. Scala il G. annuncia l'intenzione di pubblicare una prima parte delle sue "rime in sulla burla" in un secondo volume, ma il progetto non ebbe seguito: il secondo volume di poeti berneschi uscì nel 1555, ma senza la sua curatela. Ne I sonetti del Burchiello, et di messer Antonio Alamanni, alla burchiellesca, apparsi sempre per i Giunti nel 1552, il barbiere di Calimala si vede accreditare, in virtù della sua oscurità, una patente sapienziale che lo innalza al fianco delle massime autorità del volgare fiorentino, affrancandolo dal rango di mero verseggiatore burlesco. L'edizione di Tutti i trionfi, carri, mascheaate [sic] o canti carnascialeschi andati per Firenze dal tempo del magnifico Lorenzo il vecchio de' Medici […] infino a questo anno presente 1559 costituisce la prima recensio di testi che avevano avuto finora una circolazione informale, legata a eventi effimeri, al poetare spontaneo, cui il G., pur nel rispetto del carattere popolaresco e giocoso, intendeva conferire continuità negli anni e un legame con gli usi cittadini, come evidenzia il fatto che il suo ritrovamento viene attribuito al Magnifico e che il volume uscì dai torchi del tipografo ducale Lorenzo Torrentino con dedica al principe Francesco de' Medici. L'edizione diede luogo a vivaci polemiche, su cui getta luce una lettera del G. a Luca Martini del 22 febbr. 1558 (Prose fiorentine, Firenze 1734, IV, 1, pp. 76-79). Quando le copie erano pronte per essere messe in commercio, Paolo dell'Ottonaio, canonico di S. Lorenzo, si rivolse al consolo dell'Accademia Fiorentina, cui dal marzo 1542 spettava per diritto di giudicare in tutte le controversie sulle stampe, affinché ne impedisse la diffusione, sostenendo che i componimenti del fratello Giovan Battista erano stati editi in maniera scorretta. Il 5 marzo un rescritto del duca dispose il sequestro e la questione si trascinò fino al 24 genn. 1561, quando un secondo rescritto ducale dispose che il libro fosse finalmente messo in commercio, detrattene le carte con i canti dell'Ottonaio (ma non pochi sono oggi gli esemplari integri esistenti); nel frattempo il fratello Paolo aveva provveduto a un'edizione a parte nel 1560, sempre per il Torrentino.

Il rientro del G. nei ranghi della letteratura fiorentina ufficiale fu agevolato dall'amicizia che egli strinse con il giovane Raffaello di Francesco di Raffaello di Giuliano de' Medici (1543-1629) verosimilmente dall'inizio degli anni Sessanta, stante la dedica a Raffaello dell'edizione 1561 della commedia La spiritata. Il G. si atteggiò a mentore del giovane Medici, rivivendo forse l'esperienza del circolo dei "poetini", di cui era stato punto di riferimento alla metà degli anni Trenta. Ma il Medici intraprese poco dopo la carriera militare (nel 1565 entrò nell'Ordine di S. Stefano e ne fu ammiraglio dal 1572 al 1575) e diplomatica. La riammissione del G. in Accademia avvenne nel 1566, dovuta all'iniziativa di L. Salviati, consolo per quell'anno. Al Salviati il G. era legato almeno dal 1562, quando lo aveva difeso, insieme con il Varchi e altri, in una serie di sonetti satirici contro Iacopo Corbinelli, che lo aveva bersagliato per le cortigiane orazioni composte in morte di don Garzia de' Medici. Secondo la riforma del 6 giugno 1549, il G. dovette sottoporre una sua opera al giudizio dei censori: presentò dieci egloghe al censore G.B. Adriani il giovane, che diede parere favorevole, e il 6 maggio 1566 fu riammesso. Il 2 febbr. 1572 fu eletto provveditore e in questa veste fu incaricato, secondo la consuetudine, di presentare una tazza e un anello d'argento rispettivamente al consolo e al censore uscenti (nelle ottave CXVI si lamentò di aver dovuto sottostare a questo ufficio inadeguato alla sua età e di non essere stato eletto, piuttosto, censore). Dall'inizio degli anni Ottanta il G. animò un altro cenacolo, privato, che teneva le sue riunioni nella libreria dei Giunti presso la Badia. Intendimento originale di quella che sarebbe divenuta poi l'Accademia della Crusca era di contrapporsi allo stile ufficiale dell'Accademia Fiorentina, ripristinando l'impronta scherzosa e dilettantesca che era stata degli Umidi. Tra i Cruscanti, alla fine di ottobre del 1582, fu accolto anche L. Salviati, il quale, per onorare la doppia vocazione, seria e scherzevole, dell'Accademia, tra il 25 gennaio e il 18 febbr. 1584 compose e fece stampare, anonimo, presso D. Manzani un paradosso intitolato Il Lasca dialogo, cruscata ovver paradosso d'Ormannozzo Rigogoli, rivisto e ampliato da Panico Granacci… Nel quale si mostra, che non importa che la storia sia vera, e quistionasi per incidenza alcuna cosa contra la poesia (P. Granacci è il G., O. Rigogoli G.B. Deti).

Il G. si spense a Firenze il 18 febbr. 1584 e fu sepolto nella chiesa di S. Pier Maggiore, nel "popolo" di S. Croce, dov'era la tomba di famiglia dei Grazzini.

A partire dall'edizione settecentesca delle Rime (Firenze 1742, I-II) è diffuso un ritratto del G. - calvo, coronato di alloro, con la barba crespa, il portamento dignitoso - copiato, secondo quanto riferisce il curatore A.M. Biscioni (I, pp. XVII s.), da una tavola di Agnolo Bronzino, casualmente ritrovata in casa dell'abate Giovambattista Grazzini.

Rime del G. apparvero, in vita, in raccolte d'occasione, fiorentine e non, ad esempio in morte di Michelangelo e del Varchi (la bibliografia in Le rime burlesche, pp. IX-XXXIX). Gli unici versi del G. che furono pubblicati da soli, sono le stanze In dispregio delle sberrettate, ad Antonio Bini, impressi nel 1579 a istanza di Francesco Dini da Colle. Dopo la sua scomparsa, la fortuna del G. nella cultura fiorentina fu condizionata dalla normalizzazione controriformistica, imposta durante i principati di Francesco I e di Ferdinando I. Sue carte furono bruciate dopo la morte per ordine dell'inquisitore, perché lascive e disoneste. Gli Accademici della Crusca tentarono per due volte nel 1589-90 e 1591 di allestire un'edizione delle rime, ma senza portare a compimento il progetto. Il G. fu accolto tra i citati nella terza edizione (1691) del Vocabolario della Crusca.

Per una completa rivalutazione, l'opera grazziniana dovette attendere il XVIII secolo. Le Rime furono pubblicate in due volumi in un'edizione della Crusca (Firenze, F. Moüke, 1741-42) da A.M. Biscioni, che premise una importante Vita del Lasca, ma l'edizione fu controllata dalle autorità ecclesiastiche e alcuni componimenti furono soppressi o rimaneggiati. Le Cene apparvero prima in un'edizione parziale: La seconda cena di A. G. […] ove si raccontano dieci bellissime, e piacevolissime novelle non mai più stampate, "In Stambul. Dell'Egira 122. Appresso Ibrahim Achmet stampatore del Divano" (edizione fiorentina del 1743, a cura dell'abate A. Bonducci, accademico fiorentino; fu proibita con decreto della sacra congregazione dei Riti il 7 ott. 1746 e parecchi esemplari furono bruciati). Poi A.M. Bandini nel 1753 ritrovò la Prima Cena e l'ultima novella della Terza e G.V. Molini eseguì la stampa a Parigi nel 1756: La prima e la seconda cena. […] Alle quali si aggiunge una novella della terza cena (con l'indicazione Londra, appresso G. Nourse; un'edizione contraffatta a Lucca lo stesso anno). Rinaldo Maria Bracci, sotto lo pseudonimo di Neri del Boccia ripropose la raccolta grazziniana di Tutti i trionfi, carri, mascherate o canti carnascialeschi… (Cosmopoli [Lucca, F.M. Benedini], 1750) con un giudizio negativo sul lavoro del G. come editore che suscitò una polemica con il Biscioni.

A parte il Frate e la Strega e le commedie spirituali, che non ci sono giunte, l'opera teatrale del G. presenta notevoli problemi di datazione e di ricostruzione della storia interna dei testi. Nella Tavola delle opere al 1566 il G. trasmette i titoli di sei commedie (oltre al Pedante, "che si stracciò ed arse") e tre farse, rispettivamente: La gelosia, La spiritata, La pinzochera, La stregaoLa Taddea, I parentadi, La medagliaoLa sibilla; Il frate, La monica, La giostra. Secondo un'ipotesi formulata dal Gentile (pp. 121 s.) e generalmente accolta, dopo il 1566 la Giostra fu rielaborata nella commedia l'Arzigogolo con l'aggiunta di altri due atti per portarla alla misura regolare di cinque. La nuova parte consiste nella riedizione della famosa farsa francese quattrocentesca di maître Pathelin, la cui possibile fonte potrebbero essere i Detti, et fatti di diversi signori et persone private di L. Domenichi (Firenze 1562, pp. 182-184). Della Monica ci resta solo il prologo, ma abbiamo notizia di due rappresentazioni, senza però l'anno: una prima d'estate, alla presenza del duca, l'altra l'anno dopo in casa di L. Scala. Pubblica fu invece la rappresentazione della Gelosia, nel carnevale del 1551, nella Sala del papa nel chiostro di S. Maria Novella. Fu stampata lo stesso anno dai Giunti di Firenze, con dedica a B. Minerbetti vescovo di Arezzo e accademico fiorentino, due prologhi, uno agli uomini e uno alle donne (il che fa pensare a una doppia rappresentazione, come è documentato per altri casi contemporanei) e sei intermezzi; nel 1552 fu ristampata da G. Griffio a Venezia e nel 1568 di nuovo dai Giunti. Ebbe anche una versione francese, quasi letterale, col titolo Le morfondu, opera di Pierre de Larivey, canonico di Troyes (in Le six premières comedies facecieuses à l'imitation des anciens grecs, latins et modernes italiens, Paris, chez Abel l'Angelier, 1579). Se ne conserva un'altra redazione manoscritta autografa (Firenze, Bibl. naz., Magl., VII.180), anteriore a quella andata a stampa. La spiritata fu portata sulle scene a Bologna (non si conosce la data precisa) e replicata nel 1550 a Firenze durante il carnevale; ne furono eseguite tre stampe (Firenze, Giunti, 1561; Venezia, F. Rampazzetto, 1562, 1566). I Parentadi hanno un sicuro termine ante quem nel gennaio 1550, quando morì Migliore Visino, nominato nella scena 5 del II atto, ma Caselli (p. 493) propone una datazione ristretta al periodo 10 genn. 1537 e il marzo 1538. Sulla base di allusioni alla cronaca politico-militare del tempo e alla legislazione medicea Caselli data probabilisticamente la Pinzochera al 1541-46, la Spiritata tra il novembre 1547 e il novembre 1549, la Sibilla agli ultimi mesi del 1553.

Nel 1582 uscì a Venezia, per i tipi di Bernardo Giunti e fratelli, un'edizione delle Commedie, senza però l'Arzigogolo. In precedenza, nello stesso 1582, era uscita in un'altra stampa giuntina La strega, nella cui prefatoria Ai lettori il G., ormai vecchio e sfiduciato, dichiarava di voler procedere all'edizione di tutte le sue commedie, per cui egli dava fuori questo primo frutto e si accingeva alla revisione di Spiritata, Pinzochera, Sibilla e Parentadi. Resta fuori dall'elenco L'arzigogolo, il che può far pensare a una composizione a ridosso della stampa veneziana, tale da non consentire un inserimento in essa della nuova commedia. Il progetto editoriale si interruppe per qualche motivo e all'edizione di tutte le commedie grazziniane i Giunti procedettero in proprio, utilizzando le stampe esistenti o manoscritti non rivisti dall'autore. L'Arzigogolo dovette attendere l'edizione 1750 (Firenze [ma Venezia]) del Teatro comico fiorentino, in cui figura insieme con le altre commedie grazziniane (III e IV tomo).

Un bilancio del teatro grazziniano deve partire da un rilievo di costituzionale carenza drammatica, legata alla mancanza di motivi dominanti e all'incapacità di approfondire la statura psicologica dei personaggi. Le commedie del G. presentano solitamente un intreccio piuttosto elaborato, ma lo sviluppo si regge soprattutto sull'efficacia con cui vengono costruiti i dialoghi e per il tratteggio di alcuni personaggi, risolti nell'espressività linguistica. Questo tratto costituisce la lucida evoluzione della linea fiorentina del genere, che aveva trovato la sua enunciazione teorica nel Discorso sulla nostra lingua del Machiavelli e consisteva in una visione cittadinesca e borghese e nell'inscindibile rapporto tra comicità e linguaggio, che portava la commedia a registrare gli strati più bassi della lingua e a scartare soluzioni più illustri come l'uso del verso. L'insofferenza per le regole derivate dal teatro plautino-terenziano cede talora il passo a costruzioni convenzionali, ma il G. avverte con chiarezza la trasformazione della commedia fiorentina contemporanea, che tendeva a raffinarsi in un genere conveniente e manierato, adottabile come spettacolo decorativo e d'apparato nelle occasioni pubbliche che offriva il regime principesco.

L'opera cui è soprattutto legato il nome del G. sono le novelle delle Cene. La raccolta doveva comprendere, nell'intenzione dell'autore, trenta novelle divise in tre giornate, secondo una progressione che andava dalle "piccole", alle "mezzane", alle "grandi". Possediamo solo le prime venti e la decima del terzo gruppo, oltre a una "Introduzzione al novellare", che funge da cornice, e a una breve conclusione. Non si può affermare tuttora con certezza se l'opera ci sia giunta mutila o sia rimasta incompiuta. Incerte restano le date di composizione, che dovrebbero coprire un arco di tempo compreso tra circa il 1540 e la morte. Una circolazione spicciolata è testimoniata dalla lettera del G. a Masaccio di Calorigna (verosimilmente un personaggio d'invenzione) tramandata dal ms. Magl. VI.190, insieme con la stesura più antica di due novelle e una terza senza altri riscontri, che l'autore, appunto, inviava al destinatario affinché le correggesse e le presentasse in dono allo Stradino (il che fissa la data di morte di questo, giugno 1549, come termine ante quem).

In mancanza di dati che permettano di collocare con maggiore sicurezza documentale la prova novellistica nella produzione grazziniana e nel panorama coevo del genere, è probabile che il progetto delle Cene abbia preso forma nella seconda metà degli anni Quaranta, allorché apparvero i Ragionamenti del Firenzuola, che con la loro cornice arieggiante il Decameron potevano costituire il più diretto punto di riferimento del G. novelliere. In realtà, l'opzione boccacciana della cornice è risolta dal G. con una forte reductio rispetto al modello: in una scena di borghese convivio, nel quale si rinuncia alla presenza di un re o di una regina e i narratori si succedono secondo il caso, sprovvisti di una vera e propria personalità.

Al di là dello spostamento dei contenuti e dei registri stilistici e situazionali rispetto al modello trecentesco, la sintassi narrativa delle Cene costituisce il tentativo di riproporre la struttura della novella di beffa del Decameron, in cui l'intera impalcatura narrativa converge verso un centro unitario, fine e motore di tutta l'azione narrata, invece di seguire un andamento paratattico, caratteristico delle spicciolate quattrocentesche. La beffa è tema predominante delle Cene (ben diciassette novelle insistono su di essa), ma, rispetto al modello boccacciano, la beffa non si risolve nel gioco nitido e gratuito dell'ingegno, e si esprime con una concretezza tutt'affatto materiale, con esiti spesso di inusitata violenza e crudeltà. La chiara impronta popolaresca e l'inclinazione verso un realismo un po' plebeo ha come corrispettivo una sostanziale indifferenza per il tratteggio psicologico dei personaggi, per lo più risolti in caratteri bizzarri e singolari privi di una reale articolazione interna, funzionali all'evoluzione dell'intreccio e risolti soprattutto sul piano dell'espressione linguistica.

Fonti e Bibl.: C. Arlia, Una farsa del Lasca attribuita al Machiavelli, in Il Bibliofilo, VII (1886), pp. 74 s.; G. Gentile, Delle commedie di A. G. detto il Lasca, Pisa 1896; A. Greco, Alla ricerca del Lasca, in Rinascimento, V (1942), pp. 290-306; G. Alberti, Il Lasca: letture e digressioni, in Belfagor, II (1947), pp. 187-202; G. Grazzini, Nota, in A. Grazzini, Teatro, Bari 1953, pp. 573-618; G.B. Salinari, Considerazioni intorno al Lasca, in Lo Spettatore italiano, VI (1953), pp. 403-408; G. Grazzini, L'"occhiolino" del Lasca, in Nuova Antologia, giugno 1960, vol. 479, pp. 185-208; G. Barberi Squarotti, Struttura e tecnica delle novelle del G., in Giorn. storico della letteratura italiana, CXXXVIII (1961), pp. 497-521; L. Russo, A.F. G., detto il Lasca, in Studi di varia umanità in onore di F. Flora, Milano 1963, pp. 379-391; M. Plaisance, Évolution du thème de la beffa dans le théâtre de Lasca, in Revue des études italiennes, n.s., XI (1965), pp. 491-504; F. Bruni, Sistemi critici e strutture narrative, Napoli 1969, pp. 107-110, 139-174 e passim; G. Davico Bonino, Il narrato oggettuale del Lasca, in Da Dante al Novecento. Studi critici offerti dagli scolari a G. Getto…, Milano 1970, pp. 247-258; R.J. Rodini, A. G. poet, dramatist and novelliere. 1503-1584, Madison-Milwaukee-London 1970; M. Plaisance, Les personnages victimes dans le théâtre d'A. G., in Revue de la Société d'histoire du théâtre, XXIV (1972), pp. 162-181; Id., La structure de la "beffa" dans les Cene d'A. G., in Formes et significations de la "beffa" dans la littérature italienne de la Renaissance, a cura di A. Rochon, Paris 1972, pp. 45-97; Id., Une première affirmation de la politique culturelle de Côme Ier, in Les écrivains et le pouvoir en Italie à l'époque de la Renaissance, s. 1, a cura di A. Rochon, Paris 1973, pp. 361-438; Id., Censure et castration dans la dernière comédie de Lasca, in Culture et marginalités au XVIe siècle, Paris 1973, pp. 75-109; A. Greco, Appunti su Le cene del Lasca, in Arcadia. Atti e memorie, s. 3, VI (1973-76), 2, pp. 35-53; C. Spalanca, Il "tragico" e il "grottesco" nelle Cene d'A.F. G., in Critica letteraria, II (1974), pp. 618-635; M. Plaisance, Culture et politique à Florence de 1542 à 1551…, in Les écrivains et le pouvoir en Italie à l'époque de la Renaissance, s. 2, Paris 1974, pp. 148-242; G. Bertone, Comico farsesco e comico avventuroso nel teatro del Lasca, in Studi di filologia e letteratura, II-III (1975), pp. 235-257; M. Plaisance, introduzione ad A. Grazzini, La strega, Abbéville 1976; G. Bertone, Strutture narrative e strutture teatrali nelle "Cene" del Lasca, in Studi di filologia e letteratura, IV (1978), pp. 59-104; S. Caselli, Realtà storica e ideologia "comica" nel teatro del Lasca, in Riv. italiana di drammaturgia, IV (1979), pp. 35-57; Id., Nuove ipotesi per la cronologia delle commedie del Lasca, in La Rassegna della letteratura italiana, LXXXIV (1980), pp. 489-500; A. Reynolds, Francesco Berni e A.F. G., in Critica letteraria, IX (1981), pp. 453-464; C. Spalanca, A.F. G. e la cultura del suo tempo, Palermo 1981; Id., Le "Rime" di A.F. G. e la cultura del suo tempo, in Il Rinascimento. Aspetti e problemi attuali, a cura di V. Branca et al., Firenze 1982, pp. 633-649; G. Herczeg, L'aspetto morfosintattico del verbo nelle novelle di A.F. G. (1503-1584), in Acta linguistica Academiae scientiarum Hungaricae, XXXII (1982), pp. 141-175; M. Plaisance, Littérature et censure à Florence à la fin du XVIe siècle…, in Le pouvoir et la plume…, Paris 1982, pp. 241-248; Id., Réécritures et écriture dans les deux commentaires burlesques d'A. G., in Réécritures. Commentaires, parodies, variations dans la littérature de la Renaissance, I, Paris 1983, pp. 185-223; P. Trivero, Metafora e lessico nelle commedie del Lasca, in Romanische Forschungen, XCVI (1984), pp. 389-409; M. Cottino-Jones, "L'invenzione e il modo" de "Le cene" del Lasca, in Id., Il dir novellando: modello e deviazioni, Roma 1994, pp. 81-128; M. Plaisance, Sur Lasca, in Dire la création…, a cura di D. Budor, Lille 1994, pp. 185-193; J. Lacroix, G. ou "l'autre realité"…, in Les langues néo-latines, 1994, n. 291, pp. 157-184; Id., "Novella", "favola", "storia" chez G.…, in Revue des études italiennes, XLI (1995), pp. 73-87; M. Plaisance, Mise au point sur l'auteur des "Cene", in Chroniques italiennes, 1995, n. 41, pp. 43-53; R. Trovato, A.F. G.: un commediografo fra tradizione e modernità, Genova 1996; M. Plaisance, La diffusione a Firenze delle "Rime" di Vittoria Colonna, in Hommage à Jacqueline Brunet, a cura di M. Diaz-Rozzotto, II, Paris 1997, pp. 491-493; Id., La dédicace du Piangirida…, in Regards sur la Renaissance italienne. Mélanges de littérature offerts à P. Larivaille, a cura di M.-F. Piéjus, Paris 1998, pp. 375-382; Id., Une représentation burlesque du Parnasse dans le "Piangirida" d'A. G., in Chroniques italiennes, 2000, nn. 63-64, pp. 209-215; Iter Italicum, Cumulative index to volumes I-VI, sub voce.

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