ANZILOTTI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 3 (1961)

ANZILOTTI, Antonio

Walter Maturi

Nacque a Pisa l'8 maggio 1885 da Francesco, professore di storia e geografia nelle Scuole Normali. Iscrittosi alla Facoltà di lettere dell'università di Pisa il 6 nov. 1903, dopo due anni passò all'Istituto di studi superiori di Firenze, dove si laureò il 1º dic. 19o8. Con decreto ministeriale del 16 giugno 1908 entrò nell'Amministrazione degli Archivi di stato come alunno di seconda categoria, e giunse al grado di archivista, prestando servizio all'Archivio di stato di Firenze fino al gennaio 1923, salvo un brevissimo intermezzo all'Archivio di Stato di Napoli nel 1909. Nell'anno accademico 1911-12 prese il diploma di perfezionamento in storia medievale e moderna all'Istituto di studi superiori di Firenze e nell'anno 1916-17 conseguì la libera docenza in storia moderna presso lo stesso Istituto, docenza che esercitò nell'anno accademico 1919-20. Dal 1920 al 1922 ebbe l'incarico di storia al Magistero femminile presso l'Istituto di studi superiori di Firenze. Nell'ottobre 1922 riuscì primo, contemporaneamente, nel concorso alla cattedra di storia antica e moderna nell'Istituto superiore di Magistero femminile di Roma e nel concorso alla cattedra di storia moderna nell'università di Catania. Nominato professore straordinario di storia moderna nell'università di Pavia (1º genn. 1923), l'anno accademico successivo (1923-24) passò ad insegnare dalla stessa cattedra nell'università di Pisa. Morì a Firenze il 9 dic. 1924.

Ammiratore di G. Salvemini, l'A. applicò alla storia dei Risorgimento quella polemica contro il procedere per astrazioni e personificazioni nello studio della storia, che era stata iniziata dal Salvemini stesso a proposito della Rivoluzione francese. "Aveva - ci attesta N. Ottokar in un necrologio dell'A. (cit. in bibl., p. 13) - un odio speciale per l'astrazione del Risorgimento e non volle partecipare qualche mese fa a una commissione di concorso per l'insegnamento di tale materia per non favorire quella che riteneva una concezione artificiosa ed antistorica, atta a travisare l'intima comprensione della complessa unità delle condizioni reali d'Italia negli ultimi secoli".

L'A., infatti, provava fastidio a sentir parlare di eroi e di tiranni, di oppressione straniera e di ribellione nazionale, di ideali e di delusioni, di scoraggiamenti e di ardimenti, come nell'allora assai celebrata opera dell'Oriani sulla Lotta politica in Italia,e fin dal 1914 stese tutto un programma Per una storiografia del Risorgimento (ripubblicato in Movimenti e contrasti per l'unità italiana, Bari 1930, pp. 223-252), nel quale non solo esortava allo studio delle differenze economiche tra le varie regioni italiane, degli ordinamenti politici e amministrativi degli stati italiani preunitari, dei contrasti sociali, dei partiti politici, ma ammoniva anche a non scindere la considerazione della vita pratica nei suoi vari aspetti da quella delle idee, con la quale è strettamente connessa.

L'A. ebbe vivissimo il senso della continuità della storia moderna e contemporanea d'Italia. I suoi studi su La costituzione interna dello Stato fiorentino sotto il Duca Cosimo I de' Medici (Firenze 1910) e su La crisi costituzionale della Repubblica Fiorentina (Firenze 1912) nascono a un parto con i suoi primi lavori sulle riforme settecentesche (Decentramento amministrativo e riforma municipale in Toscana, Firenze 1910; L'economia toscana e l'origine del movimento riformatore del secolo XVIII, in Arch. stor. ital, LXXIII [1915], pp. 82-118 e 308-352; Piccola o grande proprietà nelle riforme di Pietro Leopoldo e negli economisti del secolo XVIII, in Bullett. senese di storia patria, s. 3, XXII [1915], pp. 339-369, sviluppati poi nei suoi ultimi studi del 1924 (Il tramonto dello stato cittadino, Le riforme in Toscana nella seconda metà del secolo XVIII. Il nuovo ceto dirigente e la sua preparazione intellettuale,in Movimenti e contrasti per l'unità italiana, pp. 33-129). Nella Crisi costituzionale della Repubblica Fiorentina l'A. acutamente individuava una tendenza iniziata da Lorenzo de' Medici, duca d'Urbino, e proseguita da Alessandro e da Cosimo I de' Medici, a procurare da un lato un contrappeso all'ostilità degli ottimati con la tutela illuminata del popolo minuto della città e dei contadini, dall'altro a porre accanto al signore, in luogo dei Consigli direttivi dell'epoca comunale, l'opera di uomini estranei alla città e alle fazioni, come Goro Gheri, segretario di Lorenzo. Nel secolo XVIII, in un clima europeo e italiano nuovo, prodotto dal grande commercio internazionale e dalla cultura illuministica, questo duplice processo giunge al suo culmine, rivelando una nuova classe dirigente "la quale, sebbene rispondesse a certe condizioni economiche non era meramente una classe economica" e fissando, oltre a un nuovo equilibrio tra città e campagna, le "prime linee di una nuova forma di stato che, rendendosi conto delle condizioni economiche formatesi, poneva a se stesso limiti e introduceva, esso e la classe dirigente, un nuovo ideale etico, quello liberale" (B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, 3 ediz., II, Bari 1947, pp. 255-256).

In modo ancora più intimo alla storia delle realtà politiche, sociali, economiche d'Italia si congiunge la storia filosofica e religiosa nello studio Dal neo-guelfismo, all'idea liberale (in Nuova Rivista Storica,I [1917], pp. 385-422) e nell'ampia monografia su Gioberti (Firenze 1922): l'A. vi mostra come il Gioberti, dopo aver dissolto dall'interno l'Italia della Restaurazione col neo-guelfismo e con la polemica contro i gesuiti, sia giunto al liberalismo idealistico e laico del Rinnovamento civile.

Al Gioberti si allacciano anche i saggi minori dell'A. su La cultura politica nella Toscana del Risorgimento e Leopoldo Galeotti, Neoguelfi ed autonomisti a Napoli dopo il sessanta, Corrispondenze spirituali tra Firenze e Napoli (Movimenti e contrasti per l'unità italiana, pp.131-222), nei quali si rivela come il neoguelfismo di Toscana e di Napoli affondasse le sue radici negli interessi concreti locali.

Minore interesse l'A. ebbe per la storia della politica estera; tuttavia anche in questo settore lasciò un contributo notevole: la scoperta storica della Iugoslavia nei pubblicisti italiani del Risorgimento. "È opinione abbastanza diffusa e tendenziosa - scriveva nell'avvertenza al suo bel volumetto Italiani e Jugoslavi nel Risorgimento, Roma 1920 - che la Jugoslavia sia una creazione politica artificiosa ed improvvisata della guerra europea o almeno una formazione di quest'ultimo trentennio che ha maturato il conflitto mondiale. Se così fosse, parlare di jugoslavi nel Risorgimento sarebbe come trattare della locomotiva a vapore nel settecento. Queste pagine dimostrano chiaramente che tale opinione è uno sproposito storico. La stessa denominazione di jugoslavi, che, secondo certuni, sarebbe anacronistica, è comune negli scritti politici e nei giornali del Risorgimento".

Storia e politica attuale sul piano conoscitivo s'illuminavano a vicenda nel pensiero dell'A. Lo storico, che studiava la crisi della democrazia comunale, si preoccupava nello stesso grado della crisi della democrazia modema, attaccata in Francia da due scrittori politici, che ebbero vastissima eco in Italia: a destra Charles Maurras, a sinistra Georges Sorel. Per l'A. non si trattava d'una crisi del sistema democratico come nei due scrittori francesi, ma d'una crisi nelsistema democratico, che si sarebbe potuta risolvere ritornando alle grandi tradizioni risorgimentali. Per trovare un rimedio alla crisi spirituale della democrazia, in un primo tempo, l'A. additò quale guida G. Mazzini, "che predicò Dio e associazione come fondamenti indispensabili di un governo di popolo" (Democrazia di città e democrazia moderna, in Il Risorgimento, diretto da R. Palmarocchi, III [1912], p. 386; La crisi spirituale della democrazia italiana, in Per una democrazia nazionalista, Faenza 1912, p. 51); in un secondo momento, la religiosità idealistica laica del Gioberti del Rinnovamento e degli hegeliani della destra storica. Ai particolarismi di classe, di gruppo, di partito o di regione, bisognava contrapporre sì gli interessi nazionali (Dalla lotta di classe alla nazione, in La Voce, 6 giugno 1912), ma il nazionalismo per l'A. faceva una cosa sola col liberalismo tradizionale italiano, che, delineatosi nel Settecento, aveva trionfato col Risorgimento, era stato soffocato dalle prime dure esigenze d'uno stato unitario nuovo e povero, e, secondo lui, poteva solo allora sprigionare le sue libere energie in ogni campo senza più bisogno di bardature protezionistiche e paternalistiche (La nostra tradizione e il nazionalismo, in La Voce, 4 luglio 1912). E l'A. si avviò risolutamente sul piano d'un rinnovamento del liberalismo (collaborazione all'Azione di Milano, organo dei liberali nazionali nel 1914-1915), e nel primo dopoguerra credette che fosse scoccata L'ora dello stato liberale, come scriveva in un articolo del 26 nov. 1920 (ristampato nell'opuscolo di V. Fossombroni, Politica liberale, Firenze 1944) e combatteva Contro tutte le degenerazioni sofistiche della dottrina liberale in un altro articolo del 16 ott. 1919 non del 12 febbr. 1921 come nella ristampa del Fossombroni (ibid., pp. 19-22). Ma in questo articolo l'A. teneva conto soltanto delle degenerazioni sofistiche da sinistra della dottrina liberale. Se è vero, egli affermava, che l'idea liberale procede dalla critica razionalistica ed è quindi spirito innovatore, vi è pure "modo e modo di innovare, altrimenti la burocrazia bolscevica dovrebbe logicamente rappresentare un'estrema avanguardia liberale, come propaggine anche essa del principio del libero esame". Evitava Scilla, ma non si guardava abbastanza da Cariddi: nel gennaio 1923 il suo nome apparve tra i collaboratori fondatori nel primo numero di La Nuova Politica Liberale, che, nel fascicolo di luglio dello stesso anno, in uno scritto del segretario di redazione, Carmelo Licitra, considerava il fascismo "come l'unico partito nel quale potesse incontrarsi e trovare una nuova fase della sua vita quel liberalismo che abbiamo ereditato dalla vecchia destra, e che nelle nostre dottrine filosofiche ha trovato il suo ideale sviluppo e la sua forza". Ma l'A. non collaborò attivamente alla rivista, e l'articolo che le aveva promesso nella copertina del primo fascicolo su Il valore storico di Gioberti non vi vide mai la luce.

Politica e storia si illuminavano a vicenda nel pensiero dell'A., è vero, ma non s'integravano armonicamente come in Salvemini, che, in un primo momento, fu il suo maestro ideale. Troppo in lui l'interesse conoscitivo predominava su quello pratico. In alcune belle pagine autobiografiche egli stesso confessava (Problemi spirituali e problemi storici, Firenze 1915, p. 5): "Sento più il gusto di osservare e di capire come gli uomini agiscono e come spiegano a se stessi il loro modo di agire che quello di fare, di partecipare con fede all'azione. Sento per ciò simpatia e avversione per la storia... Sento, per lo meno, il sapore acre dello scetticismo di chi sta fuori e guarda le fatiche degli altri e le contempla come uno spettacolo curioso e a volte interessante, senza che la passione ingrandisca i meriti e i torti di questa o quella parte". E, approfondendo sempre più la sua spietata analisi introspettiva, avvertiva in sé (p. 18): "un individualismo eccessivo, una cultura egoistica, un desiderio di esasperare la sua sensibilità con una vita spirituale sempre più raffinata, una incapacità di credere con trasporto e con volontà di sacrificio, un'abitudine logorante alla critica, una nostalgia di vita sanamente istintiva".

Così pure l'A. fu considerato il tipo dello storico-filosofo per la sua bella monografia sul Gioberti, nella quale, secondo il Gentile (La Critica, XX[1922], p. 110), aveva mostrato che il Gioberti "come ogni personaggio storico non è un individuo particolare, ma è la storia del suo tempo incentrata bensì in lui, ma da lui pure irradiantesi per riconnettersi col pensiero e con l'azione dei collaboratori o dissenzienti, seguaci, emuli od avversari". Ma l'Ottokar osservò per primo acutamente (p. 13): "Qualcuno forse ha creduto di aver trovato in A. un esponente nel campo della storiografia dell'indirizzo della nuova filosofia idealistica. Ma anche nel suo Gioberti A. rimane soprattutto storico. E le pagine che trattano del pensiero filosofico del Gioberti, sono certamente assai meno personali di quelle che ci rivelano la complessa realtà dei suoi tempi ed i limiti della sua azione o ci dimostrano l'intima necessità e il significato storico dei suoi apparenti errori". L'A., infatti, fu attratto dall'idealismo storicistico crociano (Concretezza storica e schemi sociologici, in Rassegna Nazionale, 16 sett. 1918, p. 104): "Lo storico, che non ha preparazione filosofica e che non è in contatto diuturno con la viva cultura del suo tempo, potrà lumeggiare, a seconda delle sue esperienze della vita sociale, alcuni aspetti della vita remota o attuale, ma gli farà difetto la visione ampia e la comprensione profonda, che sono possibili solo con un ben chiaro e consapevole atteggiamento speculativo, resultato di un lungo lavorio interiore". Ma qui sorgeva un nuovo intoppo. La visione crociana della storia era superba, ma si presentava all'A. bella e fatta da un altro e non come propria conquista. In una lettera privata del 1918 al Croce, l'A. gli confidava: "C'è mancato soprattutto il fondamento saldo e sicuro di un pensiero filosofico acquistato con le proprie fatiche, con i propri sforzi. Di qui incoerenze, digressioni, perditempi, incertezze". "Confessione questa significativa - commenta L. Russo nella prefazione al volume postumo dell'A. Movimenti e contrasti per l'unità italiana, pp. IX-X - perché, con l'onestà che fu sempre propria dell'A., egli vi limita la sua esperienza filosofica e la sua adesione allo storicismo idealistico, accolto ancora come un'esperienza fra le altre esperienze; e ancora significativa, perché vi si ribadisce il suo desiderio di una ferma disciplina scientifica, lontana dalle improvvisazioni di quella storia, per dir così, militante,che fu l'ambizione maggiore dei giovani della sua generazione".

Per il Russo, e a ragione, l'A. rimane "fondamentalmente un realista, di quel particolare realismo storico quale si è configurato in Toscana negli ultimi secoli. Da ciò il pregio dei suoi scritti, che sono come assiepati da fittissime osservazioni particolari, e tutte puntuali e fondate, e il loro limite ancora, perché alieni da quella risolutezza speculativa che sta sempre al fondo degli storici, mettiamo, di tipo vichiano, e che illumina a sprazzi, sia pure rapidi e violenti, avvenimenti e persone e dà colore allo stile" (p. VIII).

Bibl.: Valutazioni storiografiche dell'opera dell'A. in: F. Ercole, Dal Comune al Principato,Firenze 1929, pp. 355-371; G. Gentile, recensione al Gioberti dell'A., in La Critica, XX (1922), pp. 110-113; N. Ottokar, necrologio, in Leonardo, I (1925), pp. 12-13; L. Russo, prefazione ad A. Anzilotti, Movimenti e contrasti per l'unità italiana, Bari 1930, pp. V-XII; C. Morandi, A. A., in Civiltà moderna, II(1930), pp. 940-949; B. Croce. Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, 3 ediz., 1947, II, pp. 255-257; W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in Cinquant'anni di vita intellettuale italiana (1896-1946), Scritti in onore di B. Croce, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, Napoli 1950, I, p. 233 e 235. Per una revisione storica delle interpretazioni dell'A.: A. Omodeo, V. Gioberti e la sua evoluzione politica, Torino 1941; M. Mirri, Proprietari e contadini toscani nelle riforme leopoldine, in Movimento operaio, VII(1955), pp. 173-229. Sul pubblicista politico: G. Volpe, Italia moderna, III, Firenze 1952, pp. 531 s. e pp. 621 s.; G. Rossini, Un contributo alla biografia di G. Donati, in Civitas, n. s., VII (settembre-ottobre 1956), pp. 65-77. R. Romeo, Storia regionale e storia nazionale, in A. Saitta, Antologia di critica storica, III, Bari 1958, pp. 344, 345, 348, 349.

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