CESARI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 24 (1980)

CESARI, Antonio

Sebastiano Timpanaro

Nacque a Verona il 16 (secondo i biografi; ma il 17 secondo una sua testimonianza in Lettere, a c. di G. Manuzzi, II, p. 236) genn. 1760 da Pietro, "primo scritturale" di un mercante di seterie, e da Domenica Nadalini, che morì quando egli aveva nove anni. La famiglia paterna era oriunda di Lucca (Guidetti, in Cesari, Biografie, elogi..., Reggio Emilia 1908, p. IX). Egli fu il secondo di dieci figli, di cui alcuni morti prematuramente (albero genealogico in Guidetti, A. C. giudicato..., pp. 498 s.). Di salute cagionevole, affetto da gravi disturbi nervosi (che più tardi guarì, o credette di guarire, con forti dosi di oppio), compì i primi studi nel seminario di Verona. Il 5 nov. 1777 fu accolto nella Congregazione dei padri dell'oratorio; ma, in seguito a malattia, poté entrare in convento solo nel gennaio del 1778, e vestì l'abito di chierico il 7 febbr. dello stesso anno (ibid., p. 95). Con intensi studi approfondì la sua cultura teologica e letteraria. Della prima si valse per esercitare, di lì a non molti anni, l'ufficio, di predicatore (che poi continuò con grande zelo per tutta la vita, vincendo l'iniziale timidezza) e per redigere varie opere di argomento religioso, di cui diremo più avanti. Ma il suo interesse più forte fu, nella prima parte della sua vita, linguistico-letterario. Conobbe sufficientemente il greco (cosa non comune a quei tempi in Italia), bene il latino (come risulta, fra l'altro, dalle epigrafi da lui composte: ché, a differenza del Giordani, del Muzzi e di molti altri puristi, egli fu ostile all'epigrafia in volgare), con particolare predilezione l'italiano antico. Sull'ordine in cui si susseguirono le sue letture di trecentisti (Vite dei ss. Padri di D. Cavalca, Fioretti di s. Francesco, Dante, Petrarca, Boccaccio) i biografi ottocenteschi divergono alquanto; ma tutti concordano nell'affermare che la prima lettura, che lo accese di grande amore per la lingua del Trecento, fu lo Specchio di vera penitenza del Passavanti: "lettura fortuita" (Bresciani, p. 6), e ciò è credibile, anche se il suo trecentismo sarà stato più tardi rafforzato dall'influsso dei teorici che già nel sec. XVI avevano propugnato la stessa tesi (Bembo, L. Salviati) e di alcuni puristi veronesi del primo e medio Settecento, come Giulio Cesare Becelli e Giuseppe Torelli. A sua volta egli, insieme col suo amico Giuseppe Pederzani, convertì allo studio dei trecentisti il roveretano Clementino Vannetti, morto prematuramente nel 1795 con grave dolore del C., che ne scrisse una Vita (Verona 1795, 2 ed., ibid. 1808, poi in Biografie..., pp. 9-99).

La sua prima pubblicazione fu la traduzione dell'Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis (Verona 1785; 2 ed., ibid. 1815): una delle sue migliori e forse la sua migliore prosa, è preceduta nella prima edizione da una prefazione (in Opuscoli linguistici e letterari, a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1907, pp. 3-9) in cui sono già espresse alcune idee puristiche fondamentali del Cesare. Da allora tutta la sua vita fu dedicata a un alternarsi, e spesso a un fondersi, di apologetica cattolica e di attività restauratrice della trecentesca, che egli concepiva come due aspetti di un unico programma restauratore (Opuscoli linguistici..., pp. 452 s.). Tuttavia il suo cattolicesimo, benché chiuso a fermenti innovatori (ancora poco prima di morire sospetterà il Manzoni di larvato giansenismo, e non farà in tempo a leggere la lettera di autodifesa inviatagli dal Manzoni: cfr. Guidetti, L'amicizia, la religione..., pp. 50-60), non gli impedì di giudicare con una certa libertà in fatto di letteratura e di stile, di ammirare, per es., Lucrezio più di Virgilio (Opuscoli linguistici..., pp. 205 s.) e di tradurre autori considerati licenziosi, come Terenzio, Orazio, Petronio, suscitando anche qualche protesta da parte di spiriti timorati (cfr. quanto riferisce P. Giordani, in Bertoldi, Prose critiche..., p. 206).

In politica egli fu sempre, intimamente, un fautore della conservazione; ma, come molti, si piegò alle esigenze dei tempi; alternatamente imprecò ai francesi repubblicani e a Napoleone e li esaltò; avvenuta la Restaurazione, giunse fino a far stampare "per l'immaginario nascimento d'un figliuolo di Ottaviano Augusto" una canzone scritta, e già divulgata, per la nascita del re di Roma (Rime gravi, traduz. poetiche..., a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1912, pp. 182, 206-221, 268-273, 282-297; Bonfanti, pp. 23, 25, 117-121). Il suo caso è alquanto diverso da quello, tanto più noto, del Monti. Non si trattò, come nel Monti, di mutevolezza di idee e di sentimenti, di volta in volta sinceri, almeno in massima parte. Idee e sentimenti del C. rimasero sempre antifrancesi e legittimisti, sicché, come dice non senza abilità il Bresciani (p. 11 n.), "la sua penna, non propriamente il suo cuore, servì a quei torbidi tempi". D'altronde, come sarebbe impossibile ogni ingenua apologia di questo comportamento - quale fu tentata dal Guidetti, A. C. giudicato..., (pp. 494 ss.) -, non sarebbe neppure equo applicare a un uomo della sua formazione criteri di giudizio ispirati a un'anacronistica severità "risorgimentale". Bisogna anche tener presente che egli provò il dolore di vedere sciolto nel 1810 dal governo napoleonico l'Ordine dei filippini, sicché dovette continuare a esercitare il proprio ministero religioso come prete secolare (Biografie..., p. 577; Lettere, a cura di G. Guidetti, p. 106), per ritornare filippino col ripristino della Congregazione avvenuto dopo il congresso di Vienna.

Ma la sua vera coerenza, pur con le interne tensioni a cui accenneremo, va cercata nella sua attività di linguista normativo. Durante i secoli XVII-XVIII l'Accademia della Crusca, con la terza e la quarta edizione del Vocabolario, si era dimostrata non insensibile a caute esigenze di innovazione e di superamento dei criteri rigidamente trecentisti-cinquecentisti (cfr. M. Vitale, in Acme, XIX[1966], pp. 109-153 e in Studi linguistici offerti a S. Pellegrini, Padova 1971, pp. 675-704); il "florentinismo" stesso non era più considerato soltanto quello dei trecentisti grandi e minori, ma anche quello dell'uso contemporaneo, con un timido precorrimento di idee manzoniane. Contro queste aperture, che pur erano ancora molto limitate, insorse il Cesari. Valendosi anche di materiali raccolti dal defunto Vannetti e da altri, egli pubblicò il Vocabolario dell'Accademia della Crusca ... cresciuto d'assai migliaia di voci e modi de' Classici..., dedicato a S. A. Imperiale il principe Eugenio vice-re d'Italia (Verona 1806-11).

L'"accrescimento" consisteva in voci trecentesche: si trattava, come diceva il manifesto divulgato in precedenza nel 1805 (Opuscoli linguistici..., p. 59), di "arricchir la lingua" restituendole "la natural dote, e le native ricchezze, che il tempo, o la negligenza degli uomini le aveva fatto perdere". E nella prefazione al Vocabolario (p.96) il C. polemizzava contro la "Firenze d'oggidì", tralignata linguisticamente da quella d'un tempo, e rivendicava a se stesso, "lombardo", il diritto di fare ciò che i Fiorentini più non sapevano o non volevano, così come quasi tutti i più grandi scrittori latini non erano nati a Roma (p. 99).

La Crusca veronese diede subito luogo a vivaci polemiche. In tre dialoghi pubblicati a puntate sul Poligrafo del 13 e 20 giugno e 4 luglio, del 12 e 19 sett. 1813 e del 27 febbr. 1814, Vincenzo Monti accusava il C. di ignoranza, misoneismo, gusto del "ribobolo" volgare e incomprensibile, scarsa attenzione ai testi da cui erano state tratte le nuove voci, sicché parecchie si rivelavano addirittura dovute a errori di copisti dei codici. In difesa del C., nella discussione che si svolse soprattutto sul Poligrafo (ostile) e sul Giornale dell'Adige (favorevole), intervenne fra gli altri il fiero giacobino Luigi Angeloni, di idee politiche e religiose ben distanti da quelle del C., ma suo accanito fautore in fatto di lingua. Tutta la disputa fu alquanto viziata da un'insufficiente distinzione tra linguistica normativa e linguistica storica: mentre era anacronistico e votato all'insuccesso voler rimettere in circolazione parole e modi disusati, non sarebbe stato affatto fuor di luogo registrarli in un dizionario storico, per la comprensione dei testi italiani antichi; e per questo secondo scopo (che tuttavia per il C. era secondario) la Crusca veronese ebbe una certa utilità, menomata però dalla cattiva base filologica degli spogli eseguiti dal C. e dai suoi collaboratori.

Mentre ancora attendeva alla Crusca veronese, il C., incoraggiato da un bando di concorso dell'Accademia di scienze, lettere ed arti di Livorno (1808: "Determinare lo stato presente della lingua italiana, e specialmente toscana; indicare le cause che portar la possono verso la sua decadenza; ed i mezzi acconci per impedirla"), scrisse quello che, in rapporto alle sue idee, va considerato il suo capolavoro: la Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana (autunno 1808 - primi mesi del 1909; premiata nel dicembre 1809, pubblicata a Verona nel 1810).

Le motivazioni del trecentismo del C. sono in buona parte diverse da quelle dei suoi predecessori, e risentono potentemente del concetto settecentesco di "natura" (Dionisotti, pp. 99 s.; cfr. Vitale, Il purismo..., p. 10; Timpanaro, Il Giordani..., pp. 159-165). La lingua toscana (toscana e non italiana, insiste il C., contrario a qualsiasi teoria di koiné linguistica o di "volgare illustre": e anche qui il distacco da quelle che saranno poi le tesi del Monti e del Perticari è netto) raggiunse poco dopo i suoi inizi, nel Trecento, la massima perfezione, non tanto per virtù dei sommi poeti e scrittori di quel secolo, ma perché l'intero popolo toscano, "in quel benedetto tempo", parlava e scriveva bene, ignaro ancora di artifici linguistici e morali insieme, e prossimo alla natura "più bella e gentile". Nei tempi successivi vi fu maggiore erudizione, stile più scaltrito, ma quella grazia nativa non riapparve più, nemmeno nel Cinquecento; e dopo il Cinquecento sempre maggiore si è fatta la corruzione. Per guarirne non gioverebbe la imitazione del linguaggio fiorentino attuale, tralignato anch'esso dal felice stato di natura (è dunque respinta la soluzione poi adottata dal Manzoni e già sostenuta, come si è accennato, da alcuni "fiorentinisti": anche verso la Crusca, di cui fu eletto socio corrispondente solo il 28 genn. 1817, il C. ebbe sempre un atteggiamento piuttosto sprezzante: cfr. Campani, pp. 683, 690 ss. e passim). Giova solo il ritorno al Trecento, che è in grado di offrire tuttora (non tanto per le singole parole, tra le quali il C., a dire il vero, non volle mai includere quelle che anche a lui parevano vere e proprie "anticaglie", quanto per i "modi di dire", le locuzioni) un patrimonio linguistico atto ad esprimere tutto il pensiero moderno. Ma questo appello al Trecento si colora di una certa tristezza nostalgica, di una consapevolezza dell'irrecuperabilità di quello stato di infanzia perduto: e qui il "pedante" C. ha accenti che possono sembrare rousseauiani o leopardiani, ai quali anche un purista di orientamento mentale complessivo così diverso come il Giordani fu molto sensibile.

A ribadire e completare le idee della Dissertazione, il C. pubblicò poco dopo (Verona 1813; ed. solo parziale in Opuscoli linguistici..., pp. 256-340) un lungo dialogo in tre parti, intitolato Le Grazie dal luogo (la villa delle Grazie presso Verona, di proprietà di Clementino Vannetti) in cui s'immagina che si sia svolto nel 1794. Interlocutori del dialogo - interlocutori che per lo più, come nel De oratore di Cicerone, non pronunziano brevi battute veramente dialogiche, ma lunghi discorsi didascalici - sono il Vannetti, sempre vivo nel rimpianto del C., e i suoi amici, puristi anch'essi, Giuseppe Pederzani e Antonio Benoni, ai quali si aggiungono nella parte terza due altri, messer Lizio e Gherardo.

Le Grazie hanno lo scopo di integrare la Dissertazione, fornendo quella documentazione di parole e locuzioni del Trecento che a giudizio del C. meritavano di essere resuscitate, e che vengono amorosamente assaporate come "ghiottonerie". Impossibile, come già era stato accennato nella Dissertazione, motivare razionalmente la bellezza di queste voci e frasi: essa è avvertita, d'accordo con precedenti teorici settecenteschi, come un "non so che", "come non si sa perché è bello il sole". Nella prima parte l'epoca attuale è violentemente vilipesa, con una frase tolta alla prima satira del Menzini, come "secoletto miterino" (degno di esser messo alla berlina con una mitra di carta in capo): ingiuria non limitata, evidentemente, alla sola decadenza linguistica, e che il Monti rintuzzerà con giusto sdegno nella Proposta (I, 1, Milano 1817, pp. 207-239) .Malgrado la forma che dovrebb'essere più "artistica", Le Grazie rappresentano per ogni aspetto un passo indietro in confronto alla Dissertazione: si è attenuata la motivazione del ritorno al Trecento come secolo vicino alla natura, e meno forte il senso dell'irrecuperabilità di quella fase aurorale della lingua: la pedanteria strettamente puristica tende a sopraffare quell'ispirazione settecentesca che rappresentava il germe più nuovo e vitale del pensiero del Cesari.

Avvenuta la Restaurazione, il Monti, che ancora nel 1813 tendeva a difendere contro le "esagerazioni" del C. la Crusca fiorentina, rivolgeva contro questa (rea di aver respinto la collaborazione dell'Istituto di scienze e lettere di Milano per redigere un nuovo e più moderno vocabolario) il suo attacco principale; e, insieme col Perticari e con altri collaboratori, dava inizio alla Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca. Quigli attacchi al C. non mancano (abbiamo già citato il più esteso; e nel vol. I, 2, pp. 95-112, è ripubblicato il primo dialogo già uscito sul Poligrafo);tuttavia non mancano nemmeno i riconoscimenti (per es., ibid., pp. 29 s.): il Monti, facile alle ire violente come alle riconciliazioni, considera ormai il C. come un avversario secondario, col quale si può talvolta perfino essere alleati contro la Crusca fiorentina. Nello stesso tempo c'erano amici comuni che desideravano vederli rappacificati. Il Giordani, che fin dal 1810 stimava il C. come purista e ne era stimato (Bertoldi, Prose critiche..., p. 180 n. 1; G. Ferretti, P. Giordani sino ai quaranta anni, Roma 1952, p. 136), nel 1816 entrò in corrispondenza epistolare con lui e, al di là del dissenso politico-religioso, sorse tra i due una viva amicizia (Bertoldi, cit., pp. 182 s.). Fra l'altro, premeva al Giordani che il C. proseguisse la sua benemerita, anche se filologicamente non rigorosa, attività di editore di testi volgari antichi che da tempo non si trovavano in commercio (già nel 1798 aveva ripubblicato a Verona lo Specchio del Passavanti, e nel 1799 le Vite dei Padri del Cavalca e la versione trecentesca della Vita di Tobiae Tobiuzzo dalla Bibbia; sempre a Verona ripubblicò nel 1817, incoraggiato dal Giordani, la Vita del beato Colombini di Feo Belcari, nel 1822 i Fioretti di s. Francesco). Amico del C. come del Monti, preoccupato che le dispute meramente linguistiche facessero troppo scalpore in Italia distraendo gli animi da questioni più sostanziali, il Giordani si adoprò per la loro conciliazione (Timpanaro, Il Giordani..., pp. 169-171). Nello stesso senso agirono alcuni veronesi amici anch'essi del C. come del Monti: la contessa Clarina Mosconi, il frate Francesco Villardi che era stato difeso in questioni letterarie e beneficato dal C. e aveva pubblicato un Discorso accademico ... sopra le accuse dateal P. A. Cesari dal Cav. V. Monti, Verona 1818, con intento conciliatorio (G. L. Patuzzi, La società veronese...; Guidetti, La questione linguistica..., pp. 45-90; Monti, Epistolario, a c. di A. Bertoldi, V, p. 368 e passim). Finalmente nel maggio 1820, in occasione di un viaggio del Monti a Verona, i due s'incontrarono cordialmente, e l'incontro si ripeté ad Arbizzano, presso Verona, nel novembre 1821, poi ancora a Pesaro nel 1822, presente anche il Perticari, i cui rapporti col C. erano stati sempre improntati a minore asprezza.

Tuttavia le idee linguistiche e letterarie del Monti e del C. rimasero, a dispetto di ogni sforzo di mediazione, troppo distanti; e i loro rapporti ricominciarono a raffreddarsi, pur non dando più luogo, da parte del Monti, a pubblici attacchi così violenti come nel passato (vedi tuttavia Proposta, Appendice, Milano 1826, pp. 274-282 e, contro le Giunte veronesi in generale, pp. 293-340). Particolarmente spiacquero al Monti (che professava un dantismo del tutto diverso da quello del C., e che da tempo gli negava, del resto a ragione, il vanto di resuscitatore del culto di Dante: Cfr. Proposta, I, 1, p. 210) le Bellezze della Commedia di Dante, la cui edizione completa uscì a Verona in tre volumi nel 1824-26.

Un esemplare dei primi due volumi, posseduto da Augusto Campana, contiene postille del Monti (e di Giovanni Gherardini) aspramente polemiche; cfr. anche la lettera del Monti al Villardi, in Epistolario, cit., VI, p. 326. L'opera ha carattere dialogico nello stesso senso delle Grazie, cioè è un trattato rivestito di esteriore forma dialogica. Interlocutori sono alcuni puristi veronesi: Giuseppe Torelli, Agostino Zeviani, Filippo Rosa Morando, Girolamo Pompei. L'originalità delle Bellezze dovrebbe consistere nel presentarci un'analisi del poema dantesco non "contenutistica" (come per lo più nel dantismo contemporaneo o di poco posteriore al C.), ma "formale". Tuttavia non bisogna pensare a critica stilistica nel senso moderno del termine, e nemmeno (tranne qualche osservazione ben indovinata) a un felice impressionismo estetico. La prolissa trattazione è di tipo linguistico-retorico, e spesso si risolve in mere espressioni ammirative o in una degustazione del "fiore di lingua" fine a se stessa. La freddezza o l'ostilità con cui l'opera venne accolta, non solo dal Monti, ma dai più, è quindi sostanzialmente giustificata. Vedi anche, a precorrimento e completamento delle Bellezze, i vari Scritti danteschi raccolti, insieme ad altri di altro argomento, dal Guidetti (Reggio Emilia 1917): essi presentano fondamentalmente gli stessi difetti.

Nel periodo della sua vita che abbiamo percorso fin qui il C., accanto alla più importante attività di teorico del purismo, ne svolse un'altra, più copiosa, di traduttore in prosa e in versi, novelliere, poeta serio e burlesco. Le novelle (Alcune novelle, Verona 1810; quarta edizione accresciuta, ibid. 1825; ed. completa, Novelle e storiette pietose e liete, a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1914) vogliono continuare il genere boccaccesco e cinquecentesco, ma non sono che imitazioni artificiosamente facete, in realtà insipide, di quegli insigni modelli. Da una il C. trasse un libretto per opera comica (Il Macco, ora in appendice alla citata ediz. di Alcune novelle, a cura del Guidetti): recitato a Rovereto nel 1816, il dramma non trovò chi lo musicasse.

Ancor più cariche di riboboli e di arguzie che, per voler essere trecentescamente vive e popolari, riescono spesso volgari e stonate, sono le poesie burlesche (Rime piacevoli, Verona 1807; nuova ed., Rime piacevoli, satiriche e burlesche, a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1913), in cui è spiccata l'imitazione del Berni, e alcune traduzioni: di Terenzio (Verona 1816, dopo alcune edizioni di singole commedie), piena di sguaiataggini che sono esattamente l'opposto dell'urbanitas terenziana, e, più tardi, delle lettere di Cicerone (Milano 1826-31: rimasta interrotta per la morte del C., fu portata a termine da Pietro Marocco; una singola epistola ciceroniana, la I, 1 ad Quintum fratrem, era stata già da lui tradotta in appendice alla versione del Facciolati, Verona 1804). Ma perfino nel tradurre lo stile alto dell'orazione Pro Milone (Verona 1828, ripubbl. in Opuscoli greci e lat. volgarizzati, a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1913, pp. 130-214) non si astenne da arguzie fuor di proposito: stultissimi homines èreso con "codesti cervelli di gatta". Dignitosa, invece, e meritoria in quei tempi di scarsa conoscenza del greco, la versione dell'Apologetico di Gregorio Nazianzeno (Verona 1787, rist. in Opuscoli greci e latini..., pp. 293-369); spigliata senza troppe volgarità la versione della Matrona Efesina, episodio del Satiricon di Petronio, compiuta nel 1825-26 (cfr. Lettere, ed. Manuzzi, I, pp. 81-84), ma pubblicata postuma soltanto in appendice alle Satire diPetronio Arbitro, tradotte da V. Lancetti, Venezia 1843, e di nuovo a cura di G. Guidetti (La Matrona Efesina o novella di T. Petronio Arbitro, Reggio Emilia 1897). Quanto, alle traduzioni in versi, non ispirate, ma almeno classicisticamente composte sono quelle dei Lavacri di Pallade di Callimaco e della Chioma di Berenice di Catullo (inserite nelle Rime diverse, Verona 1794 e nelle Rime gravi, ibid. 1823, nonché nell'ed. cit. delle Rimegravi del Guidetti, pp. 73-83), di alcune satire e di un'epistola di Orazio (ed. cit., pp. 221-236). Ben poco felice, perché scolasticamente petrarchesca e del tutto infedele allo spirito dell'originale, la versione delle Odi di Orazio (Verona 1788, Bassano 1789, edizioni incomplete; Verona 1793, 2 edizione 1817, complete e rivedute). Meritano di essere ricordate, più per l'originalità dell'assunto che per la felicità della resa poetica, le traduzioni-imitazioni in endecasillabi sciolti, eseguite attraverso una versione francese, di alcune favole di Ivan Andreevič Krylov (Kriloff), pubblicate prima a parte (s. l. né d., ma Genova 1828), poi incluse nelle Rime gravi, a c. di G. Guidetti, pp. 370-379. Quanto alle Rime gravi originali, esse sono ispirate a quello stesso petrarchismo di maniera che abbiamo notato nella versione delle Odi di Orazio.

Per quanto nella vita e nell'attività del C. non si possano tracciare nette partizioni, è innegabile che negli ultimi anni, pur non venendo meno né il gusto per composizioni letterarie e traduzioni (la versione della Pro Milone ciceroniana, abbiamo visto, è del 1828) né l'interesse per la questione della lingua (l'Antidoto pe' giovani studiosi contro le novità in opera di lingua italiana, in risposta a Francesco Villardi che per futili motivi gli era diventato nemico e denigratore, fu scritto anch'esso nel '28, poco prima della morte, e pubblicato postumo da G. Manuzzi, Forlì 1829; rist. in Opuscoli linguistici..., pp. 577-619), diventano prevalenti le scritture di carattere religioso, connesse con la sua attività di predicatore. Aveva già pubblicato a Verona nel 1816 le Lezioni storico-morali intorno la vita di alcuni santi, nel 1817 La vita di Gesù Cristo, nel 1821 I Fatti degli Apostoli, nel 1823 la Vita di s. Luigi Gonzaga e morti degli imperatori persecutori della Chiesa; pubblicò a Genova nel 1828 un volume di Orazioni sacre, mentre nello stesso anno uscivano a Verona la prima parte del Fioredi storia ecclesiastica (rimasto incompiuto) e a Venezia la Dissertazione sopra i beni grandissimi che la religione cristiana portò a tutti gli stati degli uomini. Altri sermoni e scritti religiosi da lui lasciati inediti, e tali rimasti oppure pubblicati sparsamente dopo la morte di lui nell'Ottocento, furono infine raccolti dal Guidetti nei volumi: Dei doveri degli ecclesiastici, Reggio Emilia 1923 (ediz. intrapresa da M. Ponza); Della educazione cristiana, ibid. 1925; Della fede e religione cristiana, ibid. 1926; Ascetica cristiana: sermoni inediti o sparsi, ibid. 1927; Gesù Cristo redentore, ibid. 1928; Maria, santi e benefattori insigni, ibid. 1930.

Questo spostamento di attività e d'interessi coincise con un certo mutamento del suo stile, che divenne meno arcaizzante e meno rigorosamente puristico, per obbedire a esigenze di accessibilità a larghe schiere di uditori e di lettori. Molti hanno perciò voluto vedere in questi scritti di argomento religioso un felice superamento di angustie puristiche: non del tutto a ragione, perché si trattò di un ritorno all'oratoria sacra tradizionale, senza originalità, laddove ciò che il C. aveva dato di più caratteristico, nel bene e nel male, alla storia della lingua e della letteratura italiana era stato il trecentismo a oltranza della Dissertazione, col suo richiamo alla "natura" vergine e incorrotta.

Anche i suoi amici, il suo ambiente mutarono alquanto in quest'ultimo periodo. Più rare si fecero le amicizie con letterati e uomini di cultura. Al raffreddamento dei rapporti col Monti (a cui concorse anche la rottura col Villardi, diventato montiano accanito) si è già accennato. Si andò dissolvendo, pur tra alti e bassi, anche l'amicizia col Giordani. Il motivo episodico che disgustò il Giordani fu la cessione, compiuta dal C. nel 1822, ad Antonio Galassi di Cesena delle lettere che il Giordani gli aveva inviato; il Giordani finì col convincersi che, il C., mosso da avidità di guadagno, le avesse vendute, mentre con tutta probabilità le aveva soltanto donate (Bertoldi, Prose critiche..., pp. 218 s. e n. 1; Guidetti, A. C. giudicato…, pp. 323 ss.); ma ad un uomo che aveva un così geloso senso dell'intimità della corrispondenza epistolare come il Giordani anche un semplice dono sarebbe apparso illecito. Più importa, comunque, vedere come a poco a poco l'eccessiva angustia puristica del C., la sua debole preparazione filologica (a differenza del Giordani e di altri, credette nell'autenticità della Guerra di Semifonte del Della Rena e del Martirio de' ss. Padri del Leopardi), il cattivo gusto di molte sue traduzioni traessero il Giordani a un giudizio fortemente limitativo, ben diverso da quello iniziale (Timpanaro, Il Giordani..., pp. 177-82, 186-90). Scarsi furono i rapporti col Leopardi, il quale, dopo un periodo di ammirazione, mostrò per il C. ben poca stima (vedi Zibaldone, p. 4249 dell'autografo; Epistolario, a cura del Moroncini, IV, pp. 5, 173; per quest'ultimo passo cfr. anche Leopardi, Le poesie e prose, a cura di F. Flora, II, p. 199; un'illusione ironica nei Paralipomeni della Batracomiomachia, VI, st. 35).

A questo relativo allontanamento dall'ambiente culturale fece riscontro un maggiore inserimento negli ambienti ecclesiastici ufficiali. La sua attività di predicatore, dapprima limitata quasi esclusivamente alla natia Verona, si estese e divenne più nota e ammirata da quando, vincendo le inibizioni nervose, intraprese frequenti viaggi. Nel 1821 fu a Milano. Nel '22, partito per Roma, sostò a Bologna (dove vide il Ferrucci, il Mezzofanti, lo Schiassi) e a Pesaro (dove s'incontrò, come si è già detto, col Monti e il Perticari); a Roma recitò vari sermoni, fu ricevuto dal pontefice Pio VII, corse anche voce di una sua nomina a cardinale (Guidetti, A. C. giudicato..., pp. 53 s.; ma per la sua scontentezza del faticoso soggiorno romano cfr. Lettere, a cura di G. Manuzzi, I, p. 42). Nel viaggio di ritorno soggiornò a Firenze, dove tenne dei sermoni variamente giudicati (Bonfanti, p. 168), e di nuovo a Bologna. Nell'estate del '25 fu ancora a Milano per l'edizione delle lettere di Cicerone, e s'incontrò col Leopardi. Nel 1827 fu a Parma, Modena, Genova (dove tenne applauditi discorsi religiosi, pubblicati poi lì stesso, come si e detto), di nuovo a Milano, dove conobbe personalmente il Manzoni. Intraprese l'ultimo viaggio nel settembre del 1828 per recarsi a visitare la tomba di Dante a Ravenna; passò per Modena, Bologna, Faenza, ma nel tratto da Faenza a Ravenna, assalito da violenta febbre, dovette fermarsi nella villa di S. Michele, proprietà del Collegio dei nobili di Ravenna; qui, dopo breve malattia, morì il 1º ott. 1828. Fu sepolto prima in S. Romualdo di Classe; poi, chiusa la chiesa al culto nel 1886, la sua tomba fu trasferita nella cattedrale di Ravenna (Guidetti, proemio a Cesari, Biografie..., p. XXXVI).

A Roma, sul Campidoglio, fu posta in suo onore un'epigrafe dettata dal Giordani: "Antonio Cesari veronese / cogli scritti e coll'esempio mantenne gloriosamente / la fede di Cristo e la lingua d'Italia": iscrizione eloquente, ma esagerata sia rispetto alla verità storica sia all'effettiva stima che il Giordani aveva, ormai, del Cesari.

Quando il grande linguista G. I. Ascoli, richiesto da G. Guidetti di un parere sul C., rispondeva nel 1897 che la sua dottrina "valse come un antidoto poderoso e forse più lungamente efficace che non paja a certuni" (pur aggiungendo che, applicata coerentemente, "doveva risolversi in un artifizio disperato": vedi G. Guidetti, L'amicizia, la religione..., pp. 225 ss.), si riferiva al ritorno di arcaismo che la lingua italiana letteraria subì nell'età della Restaurazione e alla lentezza e difficoltà con cui tornò - e solo parzialmente - alla scioltezza dello stile e alla spregiudicatezza in fatto di "purità" che l'avevano caratterizzata nel Settecento; all'Ascoli stesso una certa patina linguistica arcaizzante non spiaceva. Ma il massimo di efficacia diretta il C. lo esercitò appunto nel primo Ottocento: quando morì, i suoi seguaci si erano già molto ridotti. Il più fedele fu Giuseppe Manuzzi, che al C. dedicò il proprio Vocabolario della lingua italiana e pubblicò un'edizione, copiosa anche se tutt'altro che completa, e non ordinata cronologicamente, del suo epistolario (Delle lettere del p. A. C. ..., III, Firenze 1845-46). Ma perfino l'arcaizzante "scuola romana" raccolta attorno al Giornale arcadico pronunziò sul C. un giudizio assai limitativo (v. il necrologio dell'Odescalchi), ispirato alle idee del Monti e dei Perticari. E recisamente, anche se garbatamente, avverso al "sistema" del C. fu naturalmente il Manzoni (Opere inedite o rare, a cura di P. Brambilla-R. Bonghi-G. Sforza, V, Milano 1898, pp. 103, 180; Postille al Vocab. d. Crusca nell'ed. veronese, a cura di D. Isella, Milano-Napoli 1964), quantunque egli riconoscesse l'esistenza di un punto di contatto tra il fiorentinismo arcaizzante dell'abate veronese e il proprio fiorentinismo dell'uso contemporaneo.

Una "rinascita" delle idee del C. fu tentata con infaticabile zelo, tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del nostro secolo, da G. Guidetti, sia con le citate edizioni di scritti cesariani, sia con una nuova pubblicazione di Lettere ed altre scritture lasciate inedite dal Manuzzi (Torino 1896), sia con alcuni volumi di saggi e documenti; ma l'atteggiamento del Guidetti è troppo apologetico, e vano il suo sforzo di presentare concordi in un'unica dottrina linguistica il C., il Monti, il Giordani, il Leopardi, il Manzoni. Ancora una fioritura abbondante (ma, tranne alcune eccezioni, mediocre e spesso viziata da distorsioni nazionalistiche) di articoli e studi, generalmente brevi, sul C. si ebbe nel 1928-29, in occasione del centenario della morte; poco prima O. Tescari aveva dato un ulteriore contributo alla pubblicazione dell'epistolario (Lettere ined. di A. C. a G. Manuzzi, in La Rassegna, XXIX [1921], pp. 395-407; Contributo alla pubblicazione dell'epistolario completo di A. C., in Athenaeum, n. s., I [1923], pp. 264-279; II [1924], pp. 19-36, 81-88); altre lettere sono state messe in luce da E. De Troja, Spunti di linguistica e di filologia in un carteggio inedito dell'ab. C., in Italianistica, VI (1977), pp. 489-501. Infine a una valutazione storicamente più equa, non apologetica ma nemmeno superficialmente derisoria, della posizione del C. si è giunti nell'ambito del rinnovato interesse per la questione della lingua (M. Vitale, C. Dionisotti, S. Timpanaro, F. Tateo e altri).

Manca una bibliografia del tutto completa dei numerosissimi scritti del Cesari. La più completa è quella di G. Guidetti, nell'ed. cit. delle Lettere ed altre scritture, pp. XXIV-LIII; non prive di qualche utilità, tuttora, le due precedenti diBonfanti, pp. 265-272 e di Manuzzi, ed. cit. delle Lettere, pp. LXVII-LXXVIII.

Fonti e Bibl.: Per le biografie, necrologi, profili biografici cfr.: C. Bresciani, Elogio del padre A.C., Modena 1828; P. Odescalchi, Necrol. del padre A.C., in Giornale arcadico, XXXIX (1828), pp. 389-403;F. Villardi, Vita del padre A.C., Padova 1832 (contiene alcuni dati biografici, ma in realtà è una replica all'Antidoto del C., che nel frattempo era morto); G. Bonfanti, Vita di A.C., Verona 1832 (è la più ampia e informata; dà ampio spazio alle polemiche del C. con altri letterati; reca in appendice Osservazioni intorno alla Vita del padre A.C. scritta dal padre maestro F. Fillardi); G. Guzzoni, A.C., in E. De Tipaldo, Biografia degli Italiani illustri..., II, Venezia 1835, pp. 319-25;T. Azzocchi, Elogio di A.C., Roma 1836 (ma già letto in pubblica adunanza nel 1829); F. Mordani, Elogio storico del padre A. C., in Prose varie di F. Mordani da Ravenna, Ravenna 1842 (stampato anche a parte, stesso l. e d.); G. Manuzzi, Della vita e delle opere di A.C., Prato 1842 (preceduto da osservazioni critiche di M. Colombo; una redaz. riveduta è premessa all'edizione delle Lettere del C., cit., I, Firenze 1845); V. Fontana, A.C., la sua vita e il suo epistolario, in Il Nuovo Risorgimento, VI (1896), pp. 361-74; Id., Nel primo centenario di A.C. ..., Verona 1928; E. Bellorini, Nel primo centenario di padre A.C., in Il Garda, III (1928), 11, pp. 29-31. Sulla questione della lingua cfr.: A. Bonci, A.C. precursore degli irredentisti, Pesaro 1893 (del tutto errato); A. Campani, A.C. e l'Accademia della Crusca, in Rassegna nazionale, 16 dicembre 1901, pp. 678-96; A. Butti, L'opera di A.C. nella novella, in Giorn. stor. d. letter. ital., XLII (1903), pp. 305-49;C. Trabalza, Storia d. grammatica ital., Milano 1908, pp. 494 ss.(sui criteri d'insegnamento della lingua italiana secondo il C.); P. Hazard, La Révolution française et les lettres italiennes, Paris 1910, pp. 307-17; E. Pecciarini, A.C. autore delle "Giunte veronesi" e delle "Bellezze della Divina Commedia", Firenze 1912; G. Boine, Il purismo, in La Voce, 8 ag. 1912; D. Cantarelli, Il purismo di A.C. nella "Dissertazione" e nelle "Grazie", Foligno 1913, G. Mazzoni, L'Ottocento, Milano 1913, I, pp. 116 ss., 135, 311 ss.; II, p. 1330 e ad Indicem; 2 ediz., ottava rist. con supplemento di A. Vallone, Milano 1964, I, p. 111; II, p. 649 (non contiene la bibliografia più antica); Id., Sopra le "Bellezze della Commedia di Dante" di A. C., in Dante e Verona, Verona 1921, pp. 253-65 (ripubbl. in Almae luces malae cruces, Bologna 1941, pp. 99-108); A. Baccelli, Il padre C. e la lingua ital., in Rivista d'Italia, XXXI (1928), t. II, pp. 565-71 (ripubbl. in Da Virgilio al futurismo, Milano 1931, pp. 253-66); C. Angelini, Il centenario di padre C.: il purista, in La Fiera letter., 7 ott. 1928; A. Orvieto, Il C. e le "Grazie", in Il Marzocco, 14 ott. 1928; L. Falchi, A.C. cent'anni dopo la sua morte, in Giorn. stor. d. letter. ital., XCIV (1929), pp. 105-29; G. Natali, Il ritorno di A.C., in Cultura e poesia in Italia nell'età napoleonica, Torino 1930, pp. 211-22; F. Neri, La poesia dei puristi, in Giorn. stor. d. letter. ital., CXXI (1943), pp. 134-57 (spec. 134-37); A. Vallone, L'opera di A.C., in Atti d. Accad. di scienze,lett. e arti di Palermo, s. 4, X (1949-50), parte II, pp. 191-213; M. Vitale, Il purismo di A.C., in Lettere ital., II (1950), pp. 3-35; A. Vallone, La critica dantesca nell'Ottocento, Firenze 1958, pp. 51-63; F. Flora, Storia della letteratura italiana, IV, Milano 1953, pp. 114-22; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1971, pp. 556 s., 564 s.; C. Dionisotti, Geografia e storia d. letter. ital., Torino 1967, pp. 99 s., 220 s.; S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell'Ottocento ital., Pisa 1969, pp. 382 ss.; F. Lanza, C.A., in Enc. dantesca, I, Roma 1970, pp. 925 s.; S. Timpanaro, Il Giordani e la questione della lingua, in P. Giordani nel II centenario della nascita, Piacenza 1974, pp. 159-65;F. Tateo, Da C. a Leopardi, I, L'intenzionalità estetica del purismo cesariano, in M. Dell'Aquila-A. Leone de Castris-V. Masiello-F. Tateo-M. Tondo, La cultura letter. ital. dell'Ottocento, Bari 1976, pp. 14-47; A. Marinari, La questione della lingua: purismo e classicismo, in La letter. ital., a cura di C. Muscetta, VII, 1, Bari 1977, pp. 113-18; M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1978, pp. 374-78, 380, 383 s., 486-89, 496;Id., Il purismo linguistico ital. e l'opera di A. C., in Cultura e scuola, XVII (1978), 67, pp. 7-16;Id., Storia del purismo, di prossima pubblicazione. Per quanto riguarda i rapporti con studiosi e altre personalità: G. L. Patuzzi, La società veronese e V. Monti, in Il Fanfulla della domenica, 6 giugno 1880; A. Bertoldi, L'amicizia di P. Giordani con A.C., in Prose critiche di storia e d'arte, Firenze 1900, pp. 177-234 (pp. 224-34 sui rapporti col Villardi); G. Guidetti, La questione linguistica e l'amicizia del padre A.C. con V. Monti, F. Villardi ed A. Manzoni, Reggio Emilia 1901 (ricchissima raccolta di notizie, ma giudizi spesso tendenziosi per troppo amore al C.; a pp. 134-204molti particolari sui rapporti C. - Villardi); Id., A.C. giudicato e onorato dagl'Italiani e sue relazioni coi contemporanei, Reggio Emilia 1903; O. Tescari, Lettore ined. ..., cit., pp. 402-07(rapporti col Villardi); G. Guidetti, L'amicizia, la relig. e la lingua nelle relaz. ... tra A.C., A. Manzoni e G. Leopardi, Reggio Emilia 1922 (è la seconda ed. accresciuta di una parte del libro, cit. del 1903); G. Lonati, Un amico gardesano di A.C., in Il Garda, III(1928), 8, pp. 36 s.; D. Bulferetti, Il centenario di padre C.: i contempor., in La Fiera letter., 7 ott. 1928; A. Zecchini, Contributo alla storia, letter. dell'Ottocento: il soggiorno di Padre C. o Faenza attraverso lettere e docum. inediti, Ferrara 1931 (cfr. recensione di V. Cian, in Giorn. stor. d. letter. ital., C [1932], pp. 337 s.); A. Bertoldi, Le ultime visite a Modena e la morte di A.C. in documenti modenesi, in Giorn. stor. d. letter. ital., CIII (1934), pp. 93-98; V. Monti, Epistolario, a cura di A. Bertoldi, Firenze 1928-1931, ad Indicem; G.Leopardi, Epistolario, a cura di F. Moroncini, Firenze 1934-1941, ad Indicem; F. Forti, L'"eterno lavoro" e la convers. linguistica di A. Manzoni, in Giorn. stor. d. letter. ital., CXXXI (1954), pp. 352-85 (spec. 383: giudizio del Manzoni sul C.); W. Binni, Classicismo e neoclassicismo nella letter. del Settecento, Firenze 1963, pp. 135 s., 142 s. (rapporti con C. Vannetti).

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