DEL GRANDE, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 36 (1988)

DEL GRANDE, Antonio

Manfredo Tafuri

Figlio di Ludovico, nacque a Roma (Pollak, 1909, p. 159), ma la data della sua nascita non è documentata; deve porsi comunque intorno al 1607 perché in una nota stesa il 14 nov. 1657 Virgilio Spada affermava che il D. aveva cinquanta anni ed era sposato e senza figli (Heimbürger Ravalli, 1977, p. 302 n.). Lo Spada aggiungeva che in gioventù il D. era stato "scultore di legname". Nel 1665, secondo quanto scrisse lo stesso D. al card. Girolamo Colonna, aveva tre figli in giovane età (Pollak, 1909, p. 152). Sul suo apprendistato e la sua prima attività di architetto non abbiamo per ora notizie.

Portoghesi (1964) scrive che il suo nome appare fra i conti del convento di S. Lucia in Selci a Roma, insieme a quelli di A. Casoni, G. De Vecchi e F. Peparelli, ma la notizia non è confermata: nei fogli di giustificazione del fondo di quel convento, dal 1622 in poi, il nome del D. non appare; anche la data di nascita 1625 poposta da Portoghesi (1982, p. 539) è senza fondamento.

Dal 1642, almeno, il D. risulta invece a Bologna, al servizio del cardinale Girolamo Colonna, arcivescovo della città dal 1632: dal 30 ag. 1642 al 31 sett. 1647 vennero emessi pagamenti a favore dell'architetto e del tagliapietra Domenico Facchetti, per una scalinata e un'inferriata di fronte all'altare maggiore e per la confessione del duomo (Bologna, Arch. arcivescovile, Fabbrica di S. Pietro, Giornale 1641-1676, 30 ag. 1641-30 dic. 1644; filza 1644, 31 ott. 1647). Come ulteriore testimonianza di tali lavori, rimane una lettera del D. al cardinale (3 ott. 1643), in cui viene prospettata la possibilità di finanziare gli stessi con "i denari della sacrestia" (Roma, Arch. Colonna, II, CN, p. 72, lett. 4655). Dei lavori del D. in S. Pietro, comunque, nulla è rimasto dopo le ristrutturazioni settecentesche, mentre non sembrano esistere documenti che attestino la sua partecipazione all'ampliamento del seminario bolognese voluto dal Colonna. Nel 1645 Girolamo Colonna rinunziò alla cattedra episcopale bolognese e tornò a Roma e probabilmente il D. vi tornò nello stesso anno: nel 1646 venne nominato "misuratore", per conto della duchessa Camilla Virginia Savelli Farnese, della fabbrica borrominiana di S. Maria dei Sette Dolori (Bosi, 1971). Malgrado un'ipotesi di A. Blunt (1983, p. 121), non esistono elementi che permettano di coinvolgere il D. nell'opera. Ugualmente, va profondamente rivista l'ipotesi di Pollak (1909, p. 151) - accettata da Carandente (1975, pp. 104 ss.) e Hoffmann (1981) e rifiutata da Hempel (1926) e Blunt (1983, p. 222) - che, sulla base di una lettera del 7 febbr. 1665, ha attribuito al D. la ristrutturazione del palazzo di Spagna a Roma.

In realtà, il D. citava, nella sua missiva al cardinale Colonna, soltanto la condotta d'acqua da lui realizzata a partire dal retro di palazzo Mignanelli al cortile del palazzo di Spagna, "dove si sta facendo una bella fontana che si vedrà passando per la Piazza"; la fontana è riconoscibile nella pianta inedita del palazzo, del 1727, conservata nell'Archivo general di Simancas, III, 28. È pertanto indubbio che il Borromini abbia curato il progetto originario per la ristrutturazione dell'edificio - cfr. il disegno 1162 dell'Albertina di Vienna - di cui egli parla nell'OpusArchitectonicum (cap. XI); al D. spettano, sempre stando alla lettera citata, lavori di "conservatione e mantenimento" e rilievi eseguiti per questioni giurisdizionali. Alcuni di tali rilievi vanno forse riconosciuti in alcuni disegni conservati nell'Archivo general di Simancas (sull'attribuzione del palazzo, cfr. anche Portoghesi, 1967; sui disegni di Simancas, Principe, 1982; sulle trasformazioni subite dall'edificio, Hoffmann, 1981).

Nella sua lettera del 1665, inoltre, il D. ricordava le "fatighe" fatte per la "riparatione di S. Pietro Montorio".

Nel 1628 Filippo IV assegnò 6.000 ducati per restauri e dopo il 1638 Domenico Caramuel provvide a lavori nella cripta del tempietto bramantesco (Fabbriche romane del primo '500, Roma 1984, pp. 30 s.). Il D. potrebbe essere stato implicato in questi ultimi o in altri lavori per ora non identificabili. Si noti, comunque, che il cardinale Colonna, vissuto alla corte di Filippo IV, era protettore della Spagna: quasi certamente, egli fu il tramite fra il D. e la committenza spagnola.

È comunque al servizio di casa Colonna che decollò l'opera del D., impegnato in tutte le fabbriche intraprese dal cardinale Girolamo, principe di Paliano e duca di Marino, erede, dal 1639, dei feudi colonnesi nello Stato della Chiesa. Con le opere affidate al suo architetto a Genazzano, Marino, Paliano, Rocca di Papa, il cardinale consolidò e dette forma eloquente alla riunificazione e alla riorganizzazione amministrativa compiute nelle terre dei Colonna dal padre, Filippo [I]. La particolare relazione istituitasi fra il D. e il suo committente parla esplicitamente dei condizionamenti cui sottostavano volontariamente, nel XVII secolo, artisti alla ricerca di sicurezza professionale: fu pertanto il legame con il Colonna che offrì al D. occasioni molteplici di intervento, e non, come si è talvolta supposto, una non documentata amicizia col Borromini.

In una lettera del 21 ott. 1649, il D. pregò il cardinale di intervenire a suo favore presso il "Priore della Certosa", segnalando un intrigo a proprio danno intessuto da un architetto, non nominato, favorito dal cardinale Spada, in cui veniva coinvolto il figlio di Paolo Maruscelli, rimasto da poco orfano. Dal contesto emerge che il D., in quanto "giudice compromissorio", curava gli interessi di Maruscelli junior relativi alle Paludi pontine, la cui bonifica era stata affidata al padre del ragazzo nel 1646 (Roma, Arch. Colonna, II, CN, p. 14, lett. 1282 bis; Connors, 1980, p. 111).

Nel corso del 1650 il D. diresse i lavori relativi a un acquedotto a Supino, presso Frosinone: delle difficoltà incontrate e delle sue intenzioni per una mostra d'acqua egli scrisse al cardinale in data 25 ottobre (Ibid., II, CN, p. 78, lett. 5104 bis); il 20 maggio 1652 si stipularono i patti con i mastri per il proseguimento del condotto (Arch. di Stato di Roma, Trenta Notai Cap., uff. 13, vol. 324, cc. 108r-109v, 144r; alle cc. 110r-111v la copia dei capitoli e patti stipulati con il cavatore G. Santucci), ma il 14 ott. 1652 i lavori non risultavano ancora terminati (Roma, Arch. Colonna, II, CN, p. 94, lett. 6212). La prima opera progettata per il cardinale Colonna che è possibile interrogare circa la personalità artistica del D. è la collegiata (duomo) di S. Barnaba a Marino.

Il 26 ag. 1651 vennero stipulati i patti con mastro Giacomo Alto per il completamento della fabbrica secondo i disegni dell'architetto (Ibid., III, AA. 95, n. 18), ma da alcune lettere del D. del 1649 e del 1650 risulta evidente che il cantiere, aperto negli anni precedenti, era rimasto bloccato da cause esterne (Ibid., P. 14, lett. 1282 bis; P. 18, lett. 5104 bis. Jacob [1975, p. 78] cita un documento dell'Archivio Colonna, oggi irreperibile, che dà la chiesa fondata il 22 genn. 1640). Il 15 maggio 1652 il D. scriveva che i lavori procedevano "benissimo"; il 25 luglio 1653 rappresentò il cardinale alla stipula dei patti per l'esecuzione del paliotto dell'altar maggiore (Arch. di Stato di Roma, Trenta Notai Cap., uff.13, vol. 328, cc. 535r-538r); nell'ottobre 1652 si lavorò al lanternino e nel 1661 si procedette a rifiniture (Arch. Colonna, P. 93, lett. 6158 bis; P. 94, lett. 6212; P. 14, lett. 1283).

L'organismo di S. Barnaba fu progettato dal D. variando uno schema consueto, dominato da una navata centrale coperta a volta e commentata da cappelle laterali fra loro comunicanti; una cupola si eleva all'innesto della navata nei transetti, mentre una profonda tribuna a fondo piatto conclude la prospettiva centrale. La cupola, segnata da nervature piatte e illuminata, oltre che dal lanternino, da quattro occhi ellittici, è denunciata all'esterno da un volume ottagonale. In un disegno della Kunstbibliothek degli Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz di Berlino Ovest (Hdz. 1109: cfr. Jacob, 1975, p. 78) il D. aveva studiato una facciata più equilibrata rispetto a quella eseguita, in cui il finestrone superiore offre una timida e incoerente interpretazione delle innovazioni linguistiche borrominiane. Nell'Archivio Colonna (III, AA, 95, n. 19) sono conservati anche i patti per l'esecuzione dell'altare delle reliquie e del monumento con il ritratto del cardinale Colonna su disegni del D., che calcolò il 23 ag. 1655 le spettanze dello scalpellino Gabriello Renzi per ornamenti aggiunti all'opera di mastro Carlo Spagna.

La collocazione del proprio cenotafio nella tribuna del duomo di Marino aveva, per Girolamo Colonna, un significato specifico: come poi a Genazzano e a Paliano, la chiesa è monumentum del rinnovamento urbano eseguito sotto il segno colonnese, come testimonia un epitaffio, non messo in opera, citato in G. e F. Tomassetti (La campagna romana..., Roma 1910-1926: "Terram hanc ad formam civitatis reduxit / vias novas aperuit / silicibus munivit, domus addidit, suburbis ampliavit"). Il duomo, con le sue forme sostanzialmente conservatrici, è fulcro e cerniera della nuova città, saldandosi, tramite la piazza, al palazzo Colonna: Marino, in sostanza, viene confermata cardine dello "Stato colonnese". (Calabrese, 1980).

Su labili indicazioni contenute nella lettera del 7 febbr. 1665, sono state attribuite al D. altre opere a Marino, ma finora nessun elemento oggettivo è intervenuto a confermare tali ipotesi (Calabrese, 1980, pp. 297 s.).

In data 20 giugno 1653 il D. firmò, come perito di parte (controperito F. Righi), la stima di una casa nei pressi di S. Maria Maggiore per conto di Paolo Sforza (Arch. di Stato di Roma, Notai AC, 6670, c. 559r e v).

Durante i lavori al duomo di Marino, il D. iniziò ad occuparsi della fabbrica che lo impegnò costantemente nei decenni '50 e '60: la ristrutturazione e l'ampliamento di palazzo Colonna ai Ss. Apostoli a Roma (cfr. Corti, 1937; Lavagnino, 1942; Schlumberger, 1957; Zeri, 1966; Golzio, 1971).

Anche tali lavori vennero seguiti da vicino dal cardinale, cui il D. scriveva periodicamente riferendo circa la situazione del cantiere. Nel 1649 (lettere del 17, 20 e 21 ottobre) e nel gennaio 1650, erano registrate opere di finitura e decorazione (Arch. Colonna, II, CN, P. 14, lett. 1282 bis e 1282; perg. III, AA, 59), ma nel maggio 1652 "si lavora da tutte le parti". Il D., citando le camere "gialla e turchina" dell'appartamento superiore e la "medusa", annunciava che l'indomani si sarebbe dato inizio alla nuova scala (Ibid., P. 94, lett. 6212). In data 14 luglio 1652 si stipularono i patti per lavori di falegnameria (Arch. di Stato di Roma, Trenta Notai Cap., uff. 13, vol. 324, cc. 453r-454v, 459r-460v), mentre il 4 giugno 1653 il cardinale stipulò il contratto per la decorazione dei soffitti nelle "stanze fatte de nuovo... sopra il gioco della pallacorda", stabilendone l'iconografia (Ibid., vol. 328, cc. 202r-203v, 244r). Si tratta dei nuovi appartamenti del cardinale e dello scalone nell'ala già Della Rovere, che nel 1653 risultavano terminati.

Da tale momento, la fabbrica iniziò a espandersi con un progetto ambizioso: nel novembre 1654 iniziarono i lavori nel braccio prospiciente l'attuale via Quattro Novembre, e quelli relativi al "giardino segreto" (Pollak, 1909, p. 139). Nell'Archivio Colonna è conservato un fascicolo di conti saldati nel 1656 (I, A. 28, misure e stime datate 30 luglio 1654), mentre nell'Archivio di Stato di Roma (Trenta Notai Cap., uff. 13. vol. 333, cc. 22r-23v, 52r e v) sono i patti per la sistemazione del giardino segreto confinante con il gioco di pallacorda, abbassato al livello del cortile "in livello del teatro che si ritrova al piano dell'appartamento di Sua Em.za". Sono dunque del D., come testimoniano anche un disegno della Kunstbibliothek di Berlino Ovest (Hdz. 1108: Jacob, 1975) e uno schizzo prospettico inedito conservato nell'Archivio Colonna (cassetta LXVI), la galleria delle statue e il progetto per il giardino antistante. Per tale episodio - oggi sfigurato fino all'irriconoscibilità - il D. adottò un linguaggio semplificato ma originale: al di sotto di un piano ritmato da finestroni alternati a nicchie ovali per busti, si apre un profondo portico a sette assi, arricchito da ulteriori nicchie per sculture; l'effetto prospettico e atmosferico è accentuato da un'originale successione di nicchioni ad archi ribassati, scavati nel perimetro della corte-giardino. Con assai maggiore coerenza che a Marino, il D. esperimentò in tale episodio un linguaggio che aspira a libertà sintattiche affini a quelle che perseguirà nel vestibolo di palazzo Pamphili.

Nel frattempo, il D. venne coinvolto in un'eccezionale impresa di carattere pubblico: la costruzione delle "carceri nuove" in via Giulia. L'iniziativa, voluta da Innocenzo X, venne fatta precipitare dopo una denuncia del Collegio inglese, che lamentò l'intento di ingrandire, su case del Collegio stesso, le carceri di Corte Savella (Bibl. Ap. Vaticana, Vat. lat. 11258, cc. 109-110). Virgilio Spada, "deputato sopra la Congregaz. delle Carceri di casa Giulia", fece eseguire il rilievo di Corte Savella (ibid., cc. 111 e 117) e incaricò il D. di redigere un progetto di ristrutturazione, ma Innocenzo X decise di procedere all'edificazione di nuove prigioni fra via Giulia, il Tevere e piazza Padella (Tafuri, 1973; Heimbürger Ravalli, 1977, pp. 288 ss.; Paglia, 1980).

Il nuovo istituto di pena, enorme per l'epoca, anticipava molti caratteri del carcere moderno; la razionalizzazione voluta dal papa, inoltre, introdusse moduli conventuali per quella che venne presentata come scuola di "rieducazione collettiva" (Paglia, 1980). Il D. fu quindi impegnato a dar forma a un frammento tutt'altro che secondario della politica urbana innocenziana.

Il D. realizzò le "carceri nuove" tra il 1652 e il 1656, seguendo un dettagliato programma funzionale steso dallo Spada (cod. Vat. lat. 11258, c. 125), e tenendo presenti le carceri di Tordinona (ibid., c. 130r): l'edificio fu organizzato differenziando il blocco delle rappresentanze e dei parlatori, su via Giulia, da quello delle segrete; l'innesto fra i due corpi fu assicurato da una galleria aperta sui cortili laterali. Rimangono studi di localizzazione (ibid., cc. 133r, 134r, 135r, 127r) e di progetto (cc. 137r, 138r, 140r), mentre disegni più vicini alla soluzione realizzata sono nel cod. 31, B, 14 della Biblioteca Corsini (Tafuri, 1973, pp. 364 ss.; documenti sulla fabbrica e un consuntivo di spese del 25 ag. 1658 sono nell'Archivio Spada: cfr. Heimbürger Ravalli, 1977, p. 290). L'imponente fabbrica, conclusa da un grande cornicione a gola, esibisce laconicamente la propria essenzialità: solo il gioco dei volumi a geometrie deformate introduce la propria austera parola nel tessuto di via Giulia, mentre il portale trapezoidale commenta perentoriamente il programma dell'edificio, considerato, ancora nel '700, modello di casa di pena umanitaria. La singolare forma planimetrica - che richiama una spada che sta fuoriuscendo da un'elsa - potrebbe contenere un'allusione allegorica, riferibile sia alla giustizia innocenziana sia allo Spada, sovraintendente della fabbrica.

In data non registrata il D. Presentò querela al governatore di Roma contro Francesco Lughi, da lui fatto imprigionare "per insulti et altri misfatti", e che, una volta scarcerato, l'aveva assalito e ferito (Arch. di Stato di Roma, Tribunale del governatore, Misc. Artisti, b. 2, fasc. 175).

Un disegno del cod. Vat. lat. 11257 (c. 223), con schizzi di porte (non eseguite) per il coro della chiesa di S. Maria dell'Angelo a Faenza, è riferibile al Del Grande.

La nota a margine, in cui è evidente la sua calligrafia, stabilisce che le porte stesse andranno realizzate "simili a quelle del Altare", mentre per i frontespizi "si puol pigliare licenza". Si tratta di idee che traggono spunto dalle porte poste accanto all'altar maggiore della chiesa faentina iniziata da Girolamo Rainaldi (Heimbürger Ravalli, 1977, pp. 61 ss.); è dunque probabile che V. Spada si sia rivolto al D. per una consulenza, offerta con i due schizzi che accolgono ecletticamente motivi rainaldeschi e borrominiani.

Una lettera inedita (Arch. Colonna, II, CN, P. 36, lett. 2564) permette di far risalire al maggio 1656 la stipula dei capitoli relativi alla ristrutturazione del palazzo Colonna di Genazzano, che domina in forma castellana la cittadina (Timo-Vetronile, 1984, pp. 92, 94).

Il 5 maggio il D. avvertiva il cardinale Girolamo di avere aggiunto clausole tratte dai capitoli delle "carceri nuove". Come più tardi a Paliano, la nuova facies del palazzo di Genazzano consolida la presenza colonnese nel feudo: la ristrutturazione comporta manipolazioni sull'antico nucleo tese a dare un volto moderatamente "moderno" all'edificio. I lavori furono tutt'altro che rapidi: nel febbraio e nel maggio 1665 l'architetto riferiva sullo stato della cappella, che il 26 dicembre non era ancora finita (Arch. Colonna, II, CN, P. 94, lett. 6212). Gli interventi riguardarono il consolidamento della fabbrica, con speroni murari sui lati, e il rifacimento della triplice loggia affacciata sul cortile; inoltre, nel corpo dell'edificio il D. inserì uno scalone ricco di espedienti visivi (in tre disegni dell'Archivio Colonna, cassetta LXVI, III, 15, 16, 18, non del tutto coincidenti con la realizzazione, sono documentate le trasformazioni seicentesche). La linea elastica delle arcate della loggia mostra una notevole spregiudicatezza, corrispondente al gusto per il "nuovo" esibito dal committente.

Nel 1657 il D. donò quattro lampade votive e un "telaro" alla chiesa di S. Giuseppe dei Falegnami e progettò una scala collegante la chiesa stessa al carcere (Zandri, 1971, pp. 28, 35): questi rapporti con l'Arciconfraternita dei falegnami confermano le notizie sulla sua attività giovanile.

Il 7 febbr. 1657 il D. fu chiamato a far parte della commissione destinata da Camillo Pamphili ad esaminare lo stato della fabbrica di S. Agnese in piazza Navona, in polemica con l'operato di Borromini (Montalto, 1958; Eimer, 1970-71, passim). Malgrado il carattere conservatore dell'iniziativa, tale convocazione dimostra il rilievo acquisito dal D. in seno alla cultura architettonica romana dopo la costruzione delle "carceri nuove". Egli rivide le misure e stime di Borromini e F. Righi (Eimer, 1970-1971, pp. 695-700" fu usato come perito e controllore di lavori (ibid., pp. 220,488-491), e viene indicato, in documenti del 1667, come colui che dovrà misurare lavori di scalpello e indoratura (ibid., p. 725). Nel giugno 1670, infine, dette disegni per un portale ligneo del collegio di S. Agnese e per otto porte di noce sotto i coretti (ibid., p. 567). L'opera più clamorosa eseguita dal D. per Camillo Pamphili fu tuttavia la nuova ala del palazzo Pamphili su piazza del Collegio Romano.

Il principe Pamphili era venuto in possesso del palazzo, già Della Rovere e poi Aldobrandini, sposando la principessa di Rossano, Olimpia Aldobrandini, ma il via alla nuova fabbrica venne dato da un breve di Alessandro VII del 26 maggio 1659 (Carandente, 1975, p. 108). Il pontefice ordinò inoltre al principe Camillo di costruire entro un anno le nuove ali della propria residenza, al fine di valorizzare la nuova platea aperta davanti al collegio dei gesuiti (Krautheimer, 1987, pp. 81-84). L'operazione fu affidata al D. (cfr. i disegni del Chig. P. VII/9 della Bibl. Ap. Vat., ff. 132, 133) che diresse con assiduità i lavori dal 1659 in poi (Carandente, 1975, pp. 108-130). Nel 1661 nacquero vertenze, presto risolte, con i canonici di S. Maria in via Lata; il D. firmò con Pietro da Cortona l'accordo che definì le competenze territoriali della chiesa e del palazzo (ibid., pp. 116 ss.).

Nel tentare di risolvere il difficile tema della struttura a L del palazzo verso la piazza, il D. differenziò la facciata principale con l'impaginato delle aperture e con l'introduzione di un trittico centrale a ordini sovrapposti più un attico. La ritmica adottata è complessa e discontinua: per rispettarla, tenendo conto degli spazi interni, il D. fu costretto a introdurre false finestre. I risultati Migliori sono raggiunti nei dettagli, in cui, malgrado la rinuncia a sostanziali innovazioni, egli dette prova di notevoli finezze interpretative. L'episodio di maggior interesse è comunque l'ampio vestibolo, la cui pianta ovale è suddivisa da due coppie di colonne libere. L'invaso si prolunga verso il "cortile dei melangoli" mediante un atrio a tre navate, il cui spazio è scandito da pilastri affiancati da colonne. Le irregolarità planimetriche, dovute ai vincoli preesistenti, sono sfruttate al fine di ottenere effetti visivi. Inoltre, il gioco delle volte e dei sostegni liberi crea una spazialità fluida e indeterminata: lo scalone, innestandosi sul vestibolo tramite un vano ovale minore, lascia intatto tale effetto di levitazione, che non ha precedenti diretti nell'architettura romana del '600. Nelle rampe, il D. usò un "ordine obliquo", curando attentamente le soluzioni di arrivo e i dettagli.

Nel gennaio 1663 il D. formulò una proposta per evitare la corrosione della strada romana presso la Gabelletta di Magliano (Scavizzi, 1979).

I servigi resi ai Pamphili non impedirono al D. di continuare la sua attività per il cardinale Colonna. In due lettere del 1665 egli citava lavori in nuove sale e per una "logia nova" nel palazzo Colonna a Paliano (Pollak, 1909, p. 154). Si tratta della ristrutturazione di un edificio preesistente; in altre lettere (26 dic. 1665 e 9 genn. 1666) il D. annunciava di aver terminato la copertura e che si stava procedendo alla costruzione della "galleria" (Arch. Colonna, II, CN, P. 94, lett. 6212; P. 93, lett. 6158 bis). L'architetto trasformò dunque il vecchio edificio costruendo il nuovo salone a due piani con la sua anticamera, e regolarizzando gli spazi posteriori: la costruzione di un nuovo braccio, con portico al livello terreno, dà alla corte una forma a U, analoga a quella che si apre sulla piazza.

Nel 1665 il D. era impegnato in un altro centro dello "Stato colonnese", Rocca di Papa: la prima menzione della "fabbrica" è nella lettera citata del 7 febbraio, in cui è segnalata la lentezza dei lavori, "si bene nel borgo si sono fatte due case, una finita et l'altra a buon termine" (Pollak, 1909, p. 151). La fabbrica è con ogni probabilità quella della chiesa dedicata alla Vergine e a S. Carlo, voluta dal cardinale Girolamo, oggi chiesa dell'Assunta, completamente rimaneggiata nel XIX secolo: ugualmente irriconoscibili sono le due case, presumibilmente da reddito, costruite nel borgo.

Il D. continuò inoltre a prestare la sua opera per l'ingrandimento del palazzo del cardinale Colonna a Roma: il 19 ott. 1663 egli scriveva che nella "nova Galleria ... di già è fatto tutto il muraglione verso il vicolo sino al tetto" (Arch. Colonna, II, CN, P. 83, lett. 5396 bis).

Si tratta dell'opera più spettacolare progettata dal D. nel palazzo, che andava progressivamente assumendo la forma di un immenso complesso a più cortili, cui solo nel '700, con l'intervento prima di N. Michetti, poi di P. Posi, si tenterà di imporre unitarietà. La galleria - la cui volta risulta "arricciata" nel febbraio 1665 - verrà terminata da Girolamo Fontana, ma l'ampio organismo, suddiviso in tre spazi da due coppie di colonne corinzie libere, dimostra la capacità del D. di interpretare temi aulici evitando ogni eccesso retorico.

Nelle due citate lettere del 26 dic. 1665 e 9 genn. 1666, il D. informò il cardinale della propria attività contro la famiglia Muti, che intendeva fabbricare "nella piazza delli Olmi" (odierna piazza della Pilotta) il palazzo che sarà poi realizzato da Mattia de Rossi. Con orgoglio, il D. informava il Colonna del successo ottenuto con il disegno del catafalco e degli addobbi funebri per le esequie reali di Filippo IV (18 dic. 1665) in S. Giacomo degli Spagnoli: un addobbo, precisava, che "qui in Roma anco dalle fationi contrarie è stato lodato" (Arch. Colonna, II, CN, P. 94, lett. 6212). Il D. aveva già curato la regia, per gli Spagnoli, dei grandiosi fuochi d'artificio inscenati, nel febbraio 1662 in piazza Navona, per la nascita di don Carlos: la relazione di Bartolomeo Lupardi loda il "vivacissimo ingegno" del D. "emulo delle glorie del Cavalier Bernino" e "celebre Architetto" (Lupardi, 1662; Perez de Rua, 1666; Fagiolo Dell'Arco-Carandini, 1978, I, pp. 199, 218 s.; II, p. 25).

Il ruolo di informatore e consulente assunto dal D. emerge dalla lettera del 9 genn. 1666 (cit.) nella quale egli rendeva noto che monsignor Fano era stato nominato sovraintendente ai lavori relativi a una nuova strada fra Ariccia e Genzano, che, una volta realizzata, avrebbe permesso di eliminare la posta di Marino, danneggiando gli interessi colonnesi. Il D. suggerendo un intervento del viceré di Napoli, notificava di aver intanto fatto protestare le Comunità gravate da imposte e di aver scritto al gran contestabile.

Nel 1666 morì il cardinale Girolamo Colonna: privato del suo principale committente, il D. proseguì la sua attività a servizio dei Pamphili. Sulla base di una serie di lettere inedite, è possibile attribuire al D. un notevole episodio costruito nel palazzo fatto iniziare dal principe Camillo Pamphili a Valmontone. Il principe intendeva dar vita, nel feudo da lui acquistato nel 1651, a una nuova "città panfilia", dominata dal palazzo accanto al quale M. de Rossi realizzerà la collegiata, riecheggiante, in toni minori, la chiesa di S. Agnese in Agone.

G. B. Mola attribuisce a Francesco Fontana l'esecuzione dell'imponente e severa fabbrica a quattro piani (Mola, 1663, p. 132); secondo Eimer, Borromini sarebbe invece l'autore del "teatro" inserito nel cortile del palazzo (Eimer, 1970-71, pp. 431 ss.), ma l'ipotesi non regge a un'analisi filologica. Il D. appare infatti, in lettere di e a Francesco Buratti (capomastro), esecutore dei lavori ad iniziare dal 25 ag. 1666: Olimpia Aldobrandini, che curò gli interessi del figlio, Giovan Battista, dopo la morte del principe Camillo, cita sempre il D. come architetto della fabbrica di Valmontone (Roma, Arch. Doria Pamphili, scaff. 91, n. 82: Minutari di lettere della principessa di Rossano, 1665-1668; scaff. 100, nn. 2-4). In una nota anonima (ibid., scaff. 100, n. 4) sono elencati i lavori da finire. Come appare dall'epistolario, fra il D. e Buratti intervennero rivalità: quest'ultimo propose proprie soluzioni per una scala minore e accusò il D., nel 1667, di aver alterato conti di falegnameria a proprio favore (ibid., scaff. 100, n. 3). Nello stato di fatiscenza in cui versa il palazzo, molti elementi risultano pressoché illeggibili, ma il "teatro" - una loggia ad ampia concavità inserita nel cortile - è perfettamente riconoscibile nel suo stato di frammento.

Il linguaggio semplificato dell'ordine e il ritmo addensato al centro sono consoni ai modi del D., richiamando motivi dei palazzi Colonna a Genazzano e Pamphili a Roma: il variabile gioco atmosferico provocato dal loggiato in curva e la cesura provocata dall'interasse centrale, contratto, arricchiscono il colloquio fra lo spazio e i nodi plastici dei sostegni, facendo dell'"invenzione" un episodio tutt'altro che trascurabile del '600 laziale.

Il Pollak (1909, p. 158) scrive che il D. firmò fatture relative a fabbriche di Olimpia Aldobrandini; tali conti (oggi nell'Arch. Doria Pamphili, banc. 86, n. 38) si riferiscono però a piccoli lavori di giardinaggio e non appaiono fra essi pagamenti al Del Grande. Carandente (1975, p. 320 nota 156) cita inoltre lavori eseguiti dal D. per i Pamphili nel palazzo già Cornaro alla Fontana di Trevi (1666) e a Nettuno (1666-68). La firma del D. appare in una planimetria del 1668 che attesta la concessione alla Confraternita dei Fiorentini in Roma di un'area aggiuntiva necessaria per la costruzione del collegio Bandinelli in via Giulia (Arch. di Stato di Roma, Trenta Notai Cap., uff. 36, vol. 118, c. 159) che è stato attribuito al D. (Spezzaferro, 1973, p. 271). Krautheimer (1987, p. 193) ha inoltre segnalato un documento del 1666 relativo alla cessione al D. di un'area di pubblica proprietà nel Foro romano.

In una data imprecisata, il D. progettò un ampliamento del monastero di S. Anna, prospiciente il collegio dei barnabiti annesso a S. Carlo ai Catinari: la pianta relativa, firmata, è nel cod. Chig. P. VII/10, f. 112, della Bibl. Ap. Vaticana (Carandente, 1975, p. 112 e fig. 115).

Si è ritenuto finora che il D. sia morto fra il 1671 e il 1673, quando G. P. Moraldi gli succedette come architetto di casa Pamphili (Carandente, 1975, p. 90). Molti documenti, invece, attestano la sua attività per l'Arciconfraternita dei falegnami, per lavori di manutenzione e restauro, fino al marzo 1679 (Roma, Arch. del Vicariato, S. Giuseppe dei Falegnami, Arm. D, vol. L, alle date 1662-1669, maggio e luglio 1671, 4 marzo 1679). Il 27 agosto 1680 la firma è di un Nicolò Del Grande: è dunque presumibile che il D. sia morto fra la fine del 1679 e i primi mesi dell'anno successivo.

Fonti e Bibl.: Bologna, Archivio arcivescovile, Fabbrica di S. Pietro, Giornale 1641-1676, filza 1644, 31 ott. 1647; Roma, Arch. Colonna, II, CN, lettere diverse; I, A, 28; III AA, 59; 95, nn. 18 e 19; cassetta LXVI, disegni 15, 16, 18 e diversi; Roma, Arch. Doria Pamphili, scaff. 91, n. 82; scaff. 100, nn. 2-4; banc. 86, n. 38; Arch. di Stato di Roma, Tribunale del Governatore, Misc. Artisti, b. 2, fasc. 175; Notai AC, 6670, c. 559rv; Trenta Notai Cap., uff. 13, 460v; vol. 328, cc. 202r-203v, 244r, 535r-538r; vol. 333, cc. 22r-23v, 52rv; uff. 36, vol. 118, c. 159; Roma, Arch. del Vicariato, S. Giuseppe dei Falegnami, Arm. D, vol. L; Archivo general de Simancas, III, 28; Bibl. Ap. Vaticana, cod. Vat. lat. 11257, c. 223; 11258, cc. 103-140; Chig. P. VII/9, ff. 132, 133; P. VII/10, f. 112; Roma, Bibl. Corsini, cod. 167, 31, B, 14, cc. 331-350; B. Lupardi, I luminosi splendori... nelle feste... nel gran Teatro delle meraviglie di Roma..., Roma 1662; G. B. Mola, Roma... l'anno 1663, a cura di K. Noehles, Berlin 1966, pp. 124, 132; A. Perez De Rua, Funeral hecho en Roma... a la gloriosa memoria del Rei Catolico... Felipe Quarto..., Roma 1666; O. Pollak, A. D. ein unbekannter römischer Architekt des XVII. Jahrhunderts, in Kunstgeschichtliches Jahrbuch der K. K. Zentralkommission, III (1909), pp. 133-161; Id., Italienische Künstler der Barockzeit, XIV, A. D., in Jahrbuch der Preussischen Kunstsammlungen, XXXIV (1913), pp. 18 ss.; E. Hempel, Borromini [1924], Roma 1926, pp. 85 ss.; G. Corti, Galleria Colonna, Roma 1937, passim; E. Lavagnino, Palazzo Colonna e l'architetto romano Nicolò Michetti, in Capitolium, XVII (1942), pp. 139-147; E. Schlumberger, Le Palais Colonna, in Connaissance des arts, 1957, n. 61, pp. 68-73; I. Faldi, Palazzo Pamphily al Collegio Romano, Roma 1957 ad Ind.; L. Montalto, Il drammatico licenziamento di Francesco Borromini dalla fabbrica di S. Agnese in Agone, in Palladio, VIII (1958), pp. 139-188; P. Portoghesi, Borromini nella cultura europea, Roma 1964, p. 105; F. Zeri, La Galleria Colonna a Roma, in Tesori d'arte delle grandi famiglie, a cura di D. Cooper, Milano 1966, pp. 21-46; P. Portoghesi, Borromini. Architettura come linguaggio, Milano 1967, p. 168; M. Del Piazzo, Ragguagli borrominiani, Roma 1968, p. 105; A. D., in Diz. enc. di arch. e urb., II, Roma 1968, p. 147; G. Eimer, La Fabbrica di S. Agnese in Navona, I-II, Stockholm 1970-71, ad Indicem; M. Bosi, S. Maria dei Sette Dolori, Roma 1971, pp. 15 s.; V. Golzio, Palazzi romani dalla Rinascita al Neoclassico, Bologna 1971, pp. 89-99, 109 ss.; G. Zandri, S. Giuseppe dei Falegnami, Roma 1971, pp. 12, 28, 35, 72; J. Garms, Quellen aus dem Archiv Doria-Pamphilj zur Kunsttätigkeit in Rom unter Innocenz X., Rom-Wien 1972, ad Indicem; R. Wittkower, Arte e archit. in Italia, Torino 1972, ad Indicem; L. Spezzaferro, in Via Giulia, Roma 1973, pp. 270 s.; M. Tafuri, ibid., pp. 359-367; S. Jacob, Italien. Zeichnungen der Kunstbibliothek Berlin. Architektur und Dekoration 16. bis 18. Jahrhundert, Berlin 1975, pp. 78 s.; G. Carandente, Il palazzo Doria Pamphilj, Milano 1975, ad Indicem; M. Heimbürger Ravalli, Archit., scultura e arti minori nel Barocco italiano. Ricerche nell'Arch. Spada, Firenze 1977, ad Indicem; M. Fagiolo Dell'Arco-S. Carandini, L'effimero Barocco. Strutture della festa nella Roma del '600, Roma 1978, I, pp. 197-202, 214-219; II, pp. 25, 168; E. Berckenhagen, Architekturzeichnungen 1479-1979, Berlin 1979, p. 57; P. Scavizzi, Fonti per uno studio del Tevere dal Cinquecento al Settecento, in Arch. d. Soc. rom. di st. patria, CII (1979), p. 253; V. Paglia, "La pietà dei Carcerati". Confraternite e Società a Roma nei secoli XVI-XVIII, Roma 1980, pp. 31-34; J. Connors, Borromini and the Roman Oratory, New York-London 1980, pp. 86, 111; F. Calabrese, in Villa e Paese. Dimore nobili del Tuscolo e di Marino, Roma 1980, pp. 297 ss.; Rione IV, Campo Marzio, parte III, a cura di P. Hoffmann, Roma 1981, pp. 90, 92, 94, 96; P. Portoghesi, Roma barocca [1966], Roma-Bari 1982, pp. 270 s., 466, 539; A. Blunt, Guide to Baroque Rome, London 1982, pp. 61, 110, 174 s., 179, 197 s., 245, 270; I, Principe, Il progetto del disegno. Città e territori italiani nell'Archivo general di Simancas, Reggio Calabria-Roma 1982, pp. 116 s.; A. Blunt, Vita e opere di Borromini [1979], Roma-Bari 1983, pp. 119, 121, 157, 222; Genazzano, a cura di P. Timo-E. Vetronile, in Storia della città, 1984, n. 28, pp. 83-94; R. Krautheimer, Roma di Alessandro VII..., Roma 1987, pp. 81-84, 181, 193; U. Thieme-F. Becker, Künstlerlexikon, XIV, pp. 503 s. (sub voce Grande, Antonio del).

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