LABRIOLA, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 62 (2004)

LABRIOLA, Antonio

Stefano Miccolis

Nacque a Sangermano (l'odierna Cassino) il 2 luglio 1843, da una "famiglia patriottico-liberale" (scriveva egli stesso a Friedrich Engels il 14 ag. 1891) di modeste condizioni economiche ma di più che dignitoso livello culturale. Il padre, Francesco Saverio (1809-74), fu cultore di archeologia e docente di lettere nei ginnasi; la madre, Francesca Ponari (1808-90), era imparentata con la nobile famiglia De Vio di Gaeta. Allo zio, Gaetano Labriola (1820-77), ascriveva d'averlo "allevato e istruito nella sua infanzia" (Carteggio, I, p. 606) e di certo compì i suoi studi secondari nel collegio dell'abbazia di Montecassino; dove (secondo C. Fiorilli) ricevette "la prima educazione a filosofare" dall'abate S. Pappalettere, uomo di sentimenti liberali. Raccomandando senza esito (23 luglio 1861) il diciottenne L. a F. De Sanctis ministro della Pubblica Istruzione, A. Tari lo presentava come "un valoroso giovane, cultore e speranza della nostra filosofia" (Carteggio, I, p. 3).

Nell'autunno 1861 la famiglia si trasferì a Napoli, per consentire al L. di frequentare l'Università. In una lettera di presentazione a B. Spaventa, rimasta in abbozzo tra le sue carte, A. Tari gli attribuiva una "intelligenza decisamente filosofica", e "una ferrea volontà di studiare […] conosce già originalmente Aristotile, Spinoza, Kant; e divora e si assimila quanto di Hegel gli capita alle mani" (La Critica, 1910, p. 214). Fiorilli, amico di quegli anni napoletani, diceva di lui che "sapeva benissimo di greco e di latino", che "aveva imparato il tedesco leggendo giornali e riviste di quella nazione", e che "andava all'Università quasi esclusivamente per le lezioni di B. Spaventa; con lui entrava e con lui usciva dall'aula, e quasi sempre accompagnava a casa il Maestro". Non risulta che il L. abbia conseguito la laurea: di certo non fa riferimento a essa tutte le volte che produce i suoi titoli al ministero. Con tutta probabilità, le disagiate condizioni economiche della famiglia lo costrinsero a trovare una qualsiasi forma di occupazione retribuita. Spinto dalle "privazioni più dure", al fine di "vivere senza arrossire, e studiare coscienziosamente", tentò senza riuscirvi, tra l'agosto 1862 e il marzo 1863, di ottenere un posto di bibliotecario a Napoli. Per interessamento di Silvio Spaventa, sollecitato dal fratello Bertrando (13 giugno 1863) a soccorrere quel "giovane di moltissimo ingegno" (che vive "in una miseria spaventevole"), il L. fu nominato (con decreto 13 dic. 1863) applicato di pubblica sicurezza presso la questura di Napoli; in una nota autografa, segnata su di una lettera indirizzatagli dal padre (27 dic. 1863), S. Spaventa scriveva di averlo "raccomandato molto" al marchese R. D'Afflitto, prefetto della città. Il L. accettò l'impiego (doveva occuparsi di brigantaggio), ma col fermo intento di poterlo conciliare con lo studio, "ed affrettare così gli elementi per domandare con più ragione" a B. Spaventa "l'adempimento delle sue promesse" (Carteggio, I, pp. 30 s.).

Due mesi prima era cominciata la relazione sentimentale (ed epistolare) con Rosalia von Sprenger (1840-1926), una tedesca di confessione evangelica, maestra alla "scuola Garibaldi" (asilo e scuole elementari, aperte subito dopo la cacciata dei Borboni presso la chiesa di Scozia), "donna di forte spirito e d'animo elevato" (scrive il L. a Engels il 29 dic. 1892), che sposò il 23 apr. 1867 e fu la compagna della sua vita.

Il L. visse il "meschinissimo impiego" alla questura in uno stato di "profonda scontentezza"; l'aveva "accettato solo a titolo di provvisorio", e nutriva risentimento verso chi (B. Spaventa) "poteva (o doveva!) pensare" a lui, ma non si adoperava per mutare la sua "trista posizione" (Carteggio, I, pp. 84, 120, 128). Conseguito nel settembre 1865 il diploma di abilitazione per materie letterarie nel ginnasio inferiore, insegnò nel ginnasio dell'ex seminario (1865) e poi al Principe Umberto (1866-71), impartendo anche lezioni nell'istituto privato di D. Borselli e presso la scuola tedesca di Napoli.

La "educazione (rigorosamente) hegelliana" (a Engels, 14 marzo 1894) ricevuta alla scuola di B. Spaventa traspare da due suoi scritti, rimasti a lungo inediti: Una risposta alla prolusionedi Zeller, datato 3 maggio 1863 (è un lapsus calami il 1862 appostovi dal L.); e Della relazione della Chiesa allo Stato, non datato, ma collocabile nel 1864-65. Nel primo il L. si pronunciava contro il ritorno a Kant propugnato dal già hegeliano E. Zeller nella sua prolusione (Significato e compito della teoria dellaconoscenza) dell'ottobre 1862, sostenendo il principio della "immanenza dell'Ideale in ogni esplicazione Storica", insomma la coincidenza fra ragione e realtà, in modo che la scienza sia "consapevole ed intima contemplazione della vita reale dell'Universo" (Opere, I, p. 47). Nel secondo il L. definiva lo "Stato vero" "tutta la sostanza etica d'un popolo", nel quale la Chiesa, in quanto istituzione della società civile, "non può stare che in una relazione di subordinazione".

Negli anni 1866-67 cade la redazione di una memoria su Origine e natura delle passioni secondo l'Etica di Spinoza, anch'essa rimasta inedita e pubblicata postuma. Nel concetto spinoziano di sostanza il L. vedeva "un progresso immenso sul dualismo cartesiano" e "una vittoria completa sopra ogni presupposto di trascendenza" (Opere, I, p. 63); Spinoza aveva raccolto e compreso il programma di Shakespeare (una delle sue letture giovanili preferite), che, "quasi altro Colombo", aveva saputo mostrare "come partendo dall'uomo si possa tornare all'uomo" (ibid., p. 120). Il L. non ne allegò copia nella domanda (8 apr. 1873) per il concorso di Roma, "perché non ci ten[eva] punto" (Carteggio, I, p. 321); ma nel 1897 confessò di aver saputo in giovinezza "a memoria gli scritti" di Spinoza, e di averne esposto la teoria degli affetti e delle passioni "con intendimento d'innamorato" (Discorrendo, p. 53). Nella stessa pagina diceva di aver vissuto "per anni con l'animo diviso fra Hegel e Spinoza".

Il L. collocava la crisi del suo hegelismo nel 1869, quando (scriveva a B. Croce il 2 genn. 1904) "ero già fuori di quell'ordine d'idee e mi preparavo a comporre quel lavoro su Socrate che apparve poi nel 1871". Il suo Socrate, in effetti, ricostruito secondo la testimonianza di Senofonte, non è l'hegeliano creatore del principio della soggettività (che a suo avviso era un "cardine della speculazione moderna", "legittima conseguenza del Cristianesimo"), ma un educatore della coscienza morale, teso a mettere chiarezza nel mondo etico quotidiano. Una figura dalla spiccata vocazione pedagogica, "né un rivoluzionario né un ozioso ricercatore", che col suo incalzante interrogare aveva contribuito alla formulazione di concetti sempre più "coscientemente appresi e pensati" (Opere, II, pp. 98, 35, 75). Una figura molto congeniale a uno come il L., che avrebbe confessato a Engels (9 nov. 1891) di "essere per natura più inclinato a parlare che a scrivere" ("son sempre un po' socratico nella mia vocazione!"). Esplicito è, nel Socrate, il debito verso l'herbartiano L. Strümpell, ed evidenti le suggestioni della Völkerpsychologie di M. Lazarus e H. Steinthal, diffusa da G. Lignana ma anche oggetto di interesse da parte di B. Spaventa.

Nell'estate del 1871, conseguita (19 agosto) la libera docenza in filosofia della storia nell'ateneo napoletano, il L. iniziò un'intensa attività giornalistica, inviando (settembre 1871 - dicembre 1872) corrispondenze sulla situazione politica italiana al quotidiano svizzero Basler Nachrichten e collaborando (autunno 1871) ai quotidiani Il Piccolo e Gazzetta di Napoli: giornali che facevano capo all'Unione liberale, un'associazione di moderati in polemica con il prefetto D'Afflitto, che aveva il suo leader in R. De Zerbi, direttore del Piccolo. L'Unione liberale propugnava il superamento della dialettica risorgimentale tra Partito d'azione e Destra storica, attraverso la costituzione di un terzo partito di centro, più attento alla buona amministrazione. Tramontato questo disegno già nel dicembre 1871, il L. entrò (febbraio 1872) nella redazione dell'Unità nazionale, il quotidiano diretto da R. Bonghi e voluto da D'Afflitto per contrastare più efficacemente la sinistra napoletana e i dissidenti dell'Unione. Gli articoli (non firmati) del L., sia nella stampa napoletana, sia, più tardi (autunno 1874), nel quotidiano moderato Monitore di Bologna, attendono una individuazione più filologicamente avveduta e convincente. Nessun dubbio, invece, sulla paternità delle dieci Lettere napoletane che il L. inviò alla Nazione di Firenze nel giugno-luglio 1872: un ritratto molto vivace, talvolta impietoso, della mentalità collettiva e dei costumi politici della città. Allo scarso senso civico della popolazione, e alla politica esercitata da una stretta schiera di mestieranti, convinti di essere "tanti Machiavelli", si aggiungevano però "i danni arrecati" a Napoli dalla perdita dello status di capitale, e "l'insufficienza governativa" (che aveva "spesso dato di sé pruova in questa città come in nessun'altra d'Italia"). Nell'autunno 1871 il L. decise di abbandonare il "penoso lavoro" di insegnante nei ginnasi, che non lo avrebbe condotto "ad alcuna carriera" (Carteggio, I, p. 249). Chiese e ottenne l'aspettativa senza stipendio per un anno, vivendo di collaborazioni giornalistiche e lavori occasionali di ricerca archivistica. Scartata, per motivi economici, nell'ottobre 1872 la proposta di Bonghi di divenire redattore della Perseveranza, dedicò l'anno successivo alla preparazione del concorso per la cattedra di filosofia morale e pedagogia dell'Università di Roma; risultato vincitore, con r.d. del 23 genn. 1874, tenne quell'insegnamento fino al 1902, quando passò (con r.d. 7 luglio) a filosofia teoretica.

Del 1873 sono due suoi saggi, Della libertà morale e Morale e religione, stampati per il concorso. Confessava d'avere scritto il primo (dedicato ad A. Graf) "in gran fretta" (Carteggio, I, p. 333); nella presentazione diceva di essersi attenuto "alla psicologia ed all'etica dell'Herbart", ma di non voler per questo "chiuder[si] in un sistema, come in una sorta di prigione". Seguirono altri due lavori: Dell'insegnamento della storia (1876) e Del concetto della libertà. Saggio psicologico (1878), ospitato dall'Archivio di statistica di L. Bodio. Nel novembre 1877 il L. fu nominato direttore del Museo d'istruzione e di educazione, struttura voluta (1874) da Bonghi a sostegno dell'istruzione elementare, per "offrire al Ministero criterî comparati su la legislazione" (Carteggio, I, p. 622). L'attività dell'istituto (conferenze pedagogiche annuali, ricerche coordinate dal L. sulla scuola popolare e l'insegnamento secondario privato in diversi paesi) fu intensa fino al febbraio 1881, quando G. Baccelli lo aggregò alla cattedra di pedagogia all'Università di Roma, privandolo della sua biblioteca. Il Museo sopravvisse per un decennio, fino alla soppressione decretata (settembre 1891) da P. Villari.

Nel 1887 ottenne l'incarico, cui tenne sempre moltissimo, di filosofia della storia. Ne stampò la prolusione (28 febbraio) con il titolo I problemi di filosofia della storia.

Il L., che si muoveva nell'orizzonte teorico herbartiano, criticava le visioni totalizzanti e "monistiche" (l'hegelismo e l'evoluzionismo spenceriano), negando la possibilità di una "storia universale" come svolgentesi in modo astrattamente unitario. Affermava la molteplicità dei "centri primitivi di civiltà", e indicava nella teoria "epigenetica" la capacità di cogliere le differenze qualitative delle "neo-formazioni", contro ogni inverosimile "preordinazione germinale"; rifiutava l'uso dell'idea di progresso a mo' di "regolativo d'interpretazione" (perché nella storia era dato di vedere anche il "regresso"), e - difendendo la "peculiarità" della storiografia - definiva la filosofia della storia "una semplice ricerca su i metodi, su i principii e sul sistema delle conoscenze storiche".

Il sentire politico del L. non mutò per tutti gli anni '70. Gli anni di governo della Sinistra furono da lui vissuti, non diversamente da S. Spaventa e dagli altri irriducibili della Destra storica, come una caduta sostanziale del livello etico-politico, come degenerazione progressiva dello Stato a strumento di potere di una parte. Osservava Croce (1904) che "in quel suo antico conservatorismo" c'era "molto radicalismo da intellettuale"; e una certa influenza sul suo "spirito critico, riflesso, e ragionativo" (ad A. Fratti, 28 ag. 1889) dovette averla il concetto - mutuato dal socialismo giuridico (del quale si interessò negli anni 1883-85) - dell'utilità sociale come misura della validità degli istituti giuridici. Il distacco pubblico dalla Destra storica avvenne nella primavera del 1886, quando tentò di candidarsi alle elezioni politiche nel secondo collegio di Perugia (che comprendeva Foligno, Spoleto, Terni e Rieti).

Così sintetizzava la sua posizione in una lettera (8 apr. 1886) a G. Carducci: "Radicali e progressisti dovrebbero accordarsi nel combattere il governo personale che mena alla reazione, e per ricondurre il parlamento alla sua vera funzione". Gli sembrava che occorresse ristabilire una chiara dialettica politica, e costruire quindi una "opposizione ben definita" al trasformismo del Depretis. Gli si frapponevano (insieme con gelosie e rivalità, che ebbero la meglio) "due difficoltà": d'essere "meridionale, ed amico dell'on. Spaventa" (alla prima non poteva "portar rimedio. Della seconda mi onoro altamente"); e aggiungeva con orgoglio di non essere "creatura di nessun partito" (Carteggio, II, pp. 332 s.).

La mancata candidatura non attenuò, nel triennio 1887-89, l'impegno democratico del L., che a Fratti si dichiarava (27 ag. 1888) "radicale non repubblicano, e socialista sereno".

Tenne discorsi pubblici contro la conciliazione tra Stato e Chiesa (all'Università di Roma, 12 giugno 1887), e per l'organizzazione di un grande partito democratico, fautore della sovranità del Parlamento e delle autonomie comunali (a Terni, 16 dic. 1888); perorò con fervore l'esigenza di una rinnovata "scuola popolare"; per alcuni mesi (1888) presiedette la sezione romana dell'associazione irredentista Giovanni Prati; commemorò Garibaldi, caldeggiò l'erezione di monumenti a Mazzini e Giordano Bruno; fu attivo socio del Circolo radicale di Roma, del quale divenne (1889) vicepresidente. Condensò la sua visione politica in una lettera aperta (14 nov. 1887) ad A. Baccarini, nella quale definiva giusta e legittima "la lotta contro il trasformismo", per "ristabilire la retta funzione del Governo parlamentare". Affermava, dichiarandosi "teoricamente socialista", la necessità "di ripigliare le vie legali della sovraeminenza dello Stato sulla Chiesa" (in modo che "la formula di libera Chiesa in libero Stato, che per un certo rispetto è una finzione, per un altro rispetto non diventi minaccia di gravi pericoli"); e di avviare una opportuna "politica sociale", a cominciare dalla "assistenza legale" per gli inabili al lavoro. Problema, questo della prevenzione degli infortuni sul lavoro, sul quale reintervenne nell'autunno 1889 (Carteggio, II, pp. 517-519).

Andò incontro a un secondo insuccesso pratico, quando (novembre 1889) tentò di candidarsi alle elezioni comunali di Roma; e pochi mesi dopo ruppe definitivamente con la democrazia radicale. In una lettera aperta a E. Socci, presidente del Circolo radicale (Proletariato e radicali, 5 maggio 1890), il L. affermava esserci "deciso distacco" fra "politica borghese e socialismo (due periodi distinti della storia!)"; ai "radicali politici" riconosceva la funzione di garantire "le generali condizioni di libertà", ma il proletariato non poteva che "fidare unicamente in se stesso", organizzandosi in "partito di lavoratori". Ad abbracciare le nuove idee lo avevano condotto (così nella conferenza Del socialismo, giugno 1889) "il disgusto del presente ordine sociale, e lo studio diretto delle cose"; ma si diceva convinto che "le nuove forme" potessero "innestar[si] sul comune tronco delle istituzioni liberali".

A partire dal 1890 - anno in cui iniziò la sua corrispondenza con Engels e con Filippo Turati - il L. è disposto a battersi per il "partito operaio": purché ciò significhi "preparazione alla democrazia sociale, cioè ad un nuovo diritto, ad una nuova morale, ad una nuova forma di famiglia e di stato, ad una nuova civiltà in somma" (a C. Prampolini, 1° giugno 1890). La collaborazione con Turati fu intensa per tutto il 1890 e portò alla stesura dell'indirizzo di saluto dei socialisti italiani al congresso di Halle (ottobre) della socialdemocrazia tedesca. Ma il suo temperamento "estremo" e la sua morale risentita mal si conciliavano con i compromessi e le necessarie mediazioni della vita politica. Il L. - "acutissimo critico politico, ma appunto per questo ignaro della pacatezza di un politico vero" (Fubini) - non accettava la linea "ecumenica" e prudente di Turati, che si preoccupava di assicurare alla Critica sociale un largo pubblico ed era incline a tener conto dei ritardi storici e dell'immaturità politica del ceto operaio. Il L. tacciava di "fazioni di politicanti" sia i "legalitarî" (deputati e cooperative) adusi a pratiche compromissorie del governo, sia gli ingenui "antilegalitarî" (gli anarchici), ai quali pure riconosceva la buona fede.

Indirizzava lunghe lettere a Engels (a partire dall'estate 1892, si servì come tramite dello svizzero-polacco Adam Maurizio, al quale inviava - avvertiva Engels il 28 ott. 1892 - "chilogrammi di giornali, opuscoli, fogli volanti, […] commentando il tutto con note, chiose, dichiarazioni e biografie"), piene di notizie dettagliate su fatti e uomini del movimento operaio, convinto di fare opera "internazionalistica": come "relazioni, che tengan luogo dei giornali socialisti, i quali in Italia mancano; o non son degni d'esser presi sul serio" (a Engels, 31 luglio 1891). Il contrasto si accentuò con l'approssimarsi del congresso di Genova (agosto 1892): il L. preferiva un partito piccolo, ma rigoroso nel perseguire il disegno strategico della conquista dei pubblici poteri, ed esemplato su quello tedesco; e rifiutava l'"ecletticismo" di Turati, da lui tacciato di "ambiguità" e incoerenza. Non andò a Genova, dove pure i socialisti si distinsero alla fine dagli anarchici, e sottovalutò l'importanza di quel congresso; pur riconoscendo (a Turati, 22 ag. 1892) che vi si era data "l'avviata a un partito per lo meno embrionale". Preferì mettersi a "scriver libri", perché mancava "all'Italia mezzo secolo di scienza e di esperienza degli altri paesi", e bisognava "colmare questa lacuna" (a Engels, 3 ag. 1892).

Si dedicò all'intento con passione e scrupolo filologico, raccogliendo in pochi anni la più ricca biblioteca di scritti di Marx ed Engels e sul socialismo: la sua biblioteca (scriveva con orgoglio a Turati, 22 ag. 1892) era "a Roma la seconda dopo quella del Bonghi".

Dopo lungo meditare, ed esitare ("Temo la taccia d'incompetente", confidava a Engels, 2 sett. 1892), dette forma, nell'aprile 1895, al saggio In memoria del Manifesto dei comunisti, del quale (come dei successivi) si fece editore B. Croce. L'iniziale disegno, inteso a "popolarizzare le idee del socialismo scientifico" (a Engels, 3 nov. 1891), si convertì in una succosa e "aristocratica" interpretazione del pensiero di Marx. In uno stile asciutto e denso, che nulla concedeva alla retorica e al volgare sentimentalismo, il L. individuava il nocciolo della nuova ("nostra") dottrina nell'avere il comunismo trovato la "coscienza della sua propria necessità": di essere cioè "l'esito" risolutivo della società dei "paesi più progrediti", scossa dalle lotte di classe, appunto in forza delle "leggi immanenti al suo proprio divenire". Il Manifesto era "la rivelazione scientifica e meditata del cammino" percorso dalla "nostra società civile", che enunciava "nel fatto la necessità del fatto stesso"; la sua "previsione" era, "non cronologica, di preannunzio o di promessa", ma "morfologica". In questo, che è stato definito il più hegeliano e "più fiduciosamente socialista dei suoi saggi" (Zanardo), non mancavano peraltro il richiamo alle difficoltà della rivoluzione proletaria, l'invito a non "abusare" del termine "scienza" (e a intenderlo anzi "con la debita discrezione") e a non vivere di aspettazioni ravvicinate ("L'acquisizione della Terra al comunismo non è cosa del domani"). La riflessione del L. - che sosteneva la necessità di una "assimilazione secondo l'angolo visuale del cervello nazionale" (a K. Kautsky, 23 marzo 1896) - continuò con il saggio Del materialismo storico (1896). Nel quale invitava a non considerare già conclusa l'elaborazione della dottrina e a respingere ogni sua semplificazione "verbalistica" (la riduzione a puro determinismo economico del "multiforme e complicatissimo intreccio" della natura e della storia); la storia - diceva - "bisogna intenderla tutta integralmente", perché in essa (goethianamente) "nocciolo e scorza fanno uno". Il materialismo storico non era una "nuova filosofia della storia […] schematica, ossia a tendenza e a disegno", ma "soltanto un metodo di ricerca e di concezione", che non andava utilizzato per spiegare meccanicamente l'"universo scibile".

Nell'estate del 1896 il L. pervenne a una convinzione che il 24 settembre comunicò a E. Bernstein: che, cioè, lo sviluppo del socialismo avrebbe vissuto "una pausa relativamente lunga", e che ci sarebbe stato uno "spostamento" del mercato capitalistico dall'Atlantico al Pacifico. E poco prima (31 ag. 1896), scrivendo a R. Soldi del "lungo periodo di crisi" nel quale sarebbe entrato il socialismo, aveva aggiunto: "Le stesse teorie marxistiche (parlo delle vere) sono oramai in parte inadeguate ai nuovi fenomeni economico-politici dell'ultimo ventennio". Quel pessimismo di cui erano intrise le sue valutazioni, spesso aspre, del socialismo italiano, adesso coinvolgeva le prospettive politiche del movimento operaio internazionale, bisognoso a suo avviso di liberarsi dalle molte scorie di "utopismo" e attese "fantasiose".

Questa riflessione costituiva il momento culminante del terzo saggio, Discorrendo di socialismo e di filosofia (1897), nel quale dialogava sotto forma di lettere con G. Sorel. Ai socialisti occorreva "misurare le resistenze del mondo effettuale", prender atto dei mutamenti e della "enorme complicazione del mondo attuale", e smetterla di ritenere (in modo dottrinario) che "le idee proclamate per sé eccellenti" possano applicarsi "difilato al concreto" o siano "buone per ogni tempo e luogo", non potendo il futuro "costituire il criterio pratico di ciò che noi dobbiamo fare al presente". I Saggi erano la prima, meditata e originale (anche perché sostenuta da una solida formazione intellettuale), interpretazione europea del pensiero di Marx; e avrebbero contribuito a produrre - grazie anche alla loro immediata discussione, che coinvolse Croce e Gentile - quel rinnovamento e rinvigorimento della filosofia (come della storiografia) italiana, che caratterizzò i primi decenni del Novecento.

Pur lontano dalla vita del neonato partito (non metteva "più piede in una riunione romana" - scriveva ad A. Costa il 27 maggio 1894 - dal 1º maggio 1891), il L. ne seguiva con grande e minuta attenzione le vicende; né mancava di far puntualmente sentire la sua voce, nei momenti di più acuta tensione politico-sociale.

Dette il suo contributo, sia pure in forma riservata, allo scoppio (1893) dello scandalo della Banca romana; redasse un manifesto (agosto 1893), in risposta alle manifestazioni sciovinistiche contro la Francia suscitate dall'eccidio di operai italiani ad Aigues-Mortes; dopo un'iniziale valutazione negativa, seguì con entusiasmo il movimento dei Fasci siciliani, da lui ritenuto "il primo atto" del socialismo italiano (a R. Fischer, 12 nov. 1893), nel quale "la massa proletaria" aveva manifestato "la coscienza di classe oppressa" (a P. Iglesias, 9 apr. 1894). A tenerlo distante dalla militanza contribuivano l'irrequietezza e l'impuntatura temperamentale, ma anche l'irritazione per lo spazio che Turati concedeva al "ciarlatano" A. Loria, e il partito (ma persino il Vorwärts, che lo volle come corrispondente retribuito) al vanitoso e vuoto E. Ferri ("un uomo senza angoli", come lo definiva a Luise Kautsky, 10 marzo 1895). Se, delegato dalla sezione socialista di Napoli, partecipò al congresso dell'Internazionale di Zurigo (agosto 1893), fu soprattutto per incontrare Engels.

A Milano, del resto, non vedevano di buon occhio quel filosofo ipercritico, che dava lezioni di intransigenza al caffè Aragno, piuttosto che contribuire alla costruzione del partito. Quando la repressione di Crispi si abbatté sugli anarchici, fu però il L. a sostenere che non fosse il caso di "perdersi in vane e astiose discussioni contro i radicali e democratici" (a Engels, 27 luglio 1894). I fatti, nell'occasione, gli dettero ragione: estesasi nell'autunno la repressione ai socialisti, furono i "compagni milanesi" a mutare lo scontro con i radicali in stretta politica di alleanza elettorale.

Nel novembre 1896 il L. tenne il discorso inaugurale all'Università di Roma (L'università e la libertà della scienza), che suscitò violente polemiche. Croce, che se ne fece pronto editore (per pubblicarlo sull'Annuario erano state richieste modifiche dalle autorità accademiche), lo definì nella premessa uno "dei più elevati che si sieno mai sentiti nelle aule delle università italiane". Nel suo consueto stile incisivo, il L. affermava l'insopprimibile libertà dell'insegnamento ("Lo Stato, che definisce la scienza, è già una Chiesa"); invitava gli studenti a intendere la serietà del "lavoro" scientifico (che "non è improvvisazione"), augurando loro di vivere in un'Italia culturalmente cresciuta e "dalla moltiplicata potenza economica". A suscitare la reazione irritata del ministro dell'Istruzione E. Gianturco (e della stampa governativa), fu soprattutto l'accenno antifrastico alla politica delle "pitoccate alleanze" (la Triplice), e alle "imprese fantasticamente avventurose, che terminano poi in atti di prudenza che paiono viltà", con riferimento all'avventura africana (Adua) e all'atteggiamento rinunciatario del Rudinì. Quella disfatta militare (con la conseguente "prostrazione morale") ritornava - insieme con il tema della viltà - nel discorso Per Candia (27 febbr. 1897), dove compariva in forma esplicita il punto di vista dell'ultimo L. (che nel 1890 aveva proposto per l'Eritrea, "terra ancora libera da ogni titolo di diritti storici e stabiliti", un "esperimento di socialismo pratico", nella forma di cooperative agricole) sulla politica coloniale: la "conquista" della Tripolitania (da sottrarre ai "Turchi micidiali") era per l'Italia "legittima" (come dovunque "non sono nazionalità vitali"), oltre che "indicatissima": "Noi abbiamo bisogno di terreno coloniale" ("duecentomila proletari all'anno emigrano dall'Italia"); e i socialisti "ricordino che non ci può essere progresso nel proletariato, là dove la borghesia è incapace di progredire". A questa linea il L. si attenne nei successivi interventi di politica internazionale: sulla questione cinese (29 luglio 1900: "l'Italia non può volontariamente sequestrarsi dalla storia"), come nell'intervista sulla Questione di Tripoli (13 apr. 1902: quel territorio, rimasto disponibile, del Nordafrica come sbocco alla sovrapopolazione, addirittura come una "nuova Italia"), essendo ormai in lui solida la convinzione che la "sempre più acuita concorrenza" delle "nazioni civili" sarebbe stata per un pezzo "condizione di relativo progresso", "finché non s'avveri il socialismo" (Scrittipolitici, pp. 472 s.). Dal 1897 (ma l'avversione risaliva almeno agli anni dell'impegno democratico) al 1902 cambiava solo il giudizio sulla Triplice: da impaccio e insopportabile freno delle mire italiane, a garanzia dell'equilibrio europeo: di pace, o almeno di "non-guerra" (ibid., p. 495).

Tale posizione si comprende meglio, se si tiene conto che il L., come disse G. Sorel, era, "in una misura molto larga, sotto l'influenza dei sentimenti che dominarono nell'età del Risorgimento"; il che spiega anche perché si dichiarasse senza esitazione (maggio 1896) per l'indipendenza della Polonia, in polemica con Rosa Luxemburg e in dissenso dall'atteggiamento scettico e incerto assunto nella circostanza da Turati.

Il L. sostenitore della compatibilità tra socialismo e "interessi nazionali" aveva accompagnato, se non preceduto, gli articoli nei quali Bernstein aveva dato l'avvio (autunno 1896) alla sua revisione del pensiero di Marx. In una nota al Discorrendo (p. 152), li aveva definiti "ingegnosi", giudicando poi "volgari" gli "ammaestramenti" impartiti da G.V. Plechanov a Bernstein, perché intrisi di "sovrano disprezzo dell'odierna filosofia tedesca", e passibili di "rendere ridicolo di fronte al mondo intero il socialismo scientifico" (a Kautsky e a Bernstein, 8 ott. 1898). Che la sua "posizione rispetto alla dottrina" fosse "alquanto critica", lo aveva già scritto a Kautsky il 10 sett. 1896; di se stesso diceva di essere "uno spirito alieno da ogni religione, ortodossia, fanatismi, etc." (a Croce, 3 marzo 1898), e di non essere stato "mai, né ripetitore, né glossatore di Marx" (a L. Bissolati, 28 maggio 1899). Non sopportava poi che molti considerassero il marxismo "una nuova forma di onniscienza": "Questa gente non capisce che, anche se sono buoni marxisti, per poter parlare di storia, filosofia, etc., devono studiare tutto dal principio, come tutti gli altri uomini. Un giovane Marx nel 1898 si metterebbe con modestia a studiare la logica in Wundt" (a Kautsky, 8 ott. 1898). Ciò nonostante, rifiutò di avallare la "crisi", fino al punto di ipotizzare un "complotto internazionale" che la utilizzasse come pretesto (a Croce e a Luise Kautsky, 5 apr. 1899).

Il fatto è che manteneva distinto il livello teorico da quello della applicazione pratica: il marxismo non perdeva di validità, sia pure nel "tempo indefinito"; subiva un arresto sul terreno politico, ma ciò non faceva che "confermare il materialismo storico" (a Croce, 8 genn. 1900). In Germania la cosa era seria, perché lì c'era stata una vera compenetrazione tra movimento operaio e marxismo: perciò riteneva (e l'aveva comunicato a Bernstein) che la "correzione" si dovesse fare "prudentemente e opportunamente dentro il partito stesso, e dentro i limiti del marxismo come dottrina progressiva" (a Luise Kautsky, 5 apr. 1899). Il dibattito sulla "crisi" ebbe tra gli altri come suoi protagonisti l'ex anarchico F.S. Merlino, T.G. Masaryk, e quel "letterato" dilettante di Sorel ("non sa una parola di tedesco" e "non ha studii speciali di economia": a Croce, 31 maggio 1898), che per vanità era arrivato "ad occupare militarmente un gran numero di riviste", e funzionava da "tromba internazionale" dell'antimarxismo (a Luise Kautsky, 5 apr. 1899). Discutendo in modo più meditato della "crisi" e analizzando (giugno 1899) le tesi di Masaryk, il L. affermava la possibilità di essere "seguaci all'ora presente del materialismo storico" (che, in quanto dottrina, era "una luce intellettuale portata sopra un ordine di fatti", ma di per sé non era "causa di nulla"), dopo aver posto la debita attenzione alla "nuova esperienza storico-sociale" e con una "conveniente revisione dei concetti". Sicché riconosceva "la irriducibilità di tutta la società presente alle due famose classi, data la sua più varia e complessa articolazione"; e l'eccessivo "primitivismo" con cui alcuni socialisti (Engels compreso) avevano "semplificato l'intreccio della storia", il che poteva indurli a "semplificare con soverchio arbitrio l'intreccio della società presente". Ammetteva gli "impedimenti all'internazionalismo" che nascevano da "spirito nazionale", e (invitando a distinguere la "crisi" dalla "critica" che aveva caratterizzato i suoi scritti) concludeva non poter essere la politica "se non la interpretazione pratica e fattiva di un dato momento storico": il socialismo doveva a suo avviso rifuggire sia dal "rivoluzionarismo tradizionale", sia dall'"acquiescenza" che poteva farlo "come sparire nell'elastico meccanismo del mondo borghese" (Saggi sul materialismo storico, pp. 303-319).

Il L. fu sorpreso dalle violente agitazioni sociali della primavera del 1898 ("questa prova generale di rivoluzione", scriveva al figlio Alberto Francesco l'8 maggio 1898), confessando di "non capir[ci] niente" (a Croce, 19 maggio 1898). Pochi mesi dopo si convinse che la reazione fosse "oramai vinta", ma anche che il socialismo italiano fosse "tutto in rovina" (a Croce, 1° luglio 1898). Più tardi condensò la sua analisi delle sommosse in "un caso inaspettato di anarchismo spontaneo", volutamente esagerato dal governo "per avere pretesto alle repressioni"; e il partito socialista doveva, a suo avviso, sia "difendersi" dalle persecuzioni, sia "stare in guardia contro le pazzie di quelli che credono che si deve fare la rivoluzione" (a Luise Kautsky, 18 maggio 1899). Ripigliando (giugno 1899) la "conversazione interrotta" con Turati ritornato "dalla forzata villeggiatura del reclusorio di Pallanza" - e augurandosi che la Critica sociale riprendesse il suo ruolo di "organo di politica pensata" -, il L. affermava che il partito socialista, lungi dal voler suscitare rivolte, si trovava invece "limitato nella sua azione normale e progressiva dal risorgere continuo delle agitazioni violente intempestive" (Scritti politici, pp. 442-446). L'assassinio di Umberto I ("nato e vissuto nell'orbita della rivoluzione liberale") lo "contristò profondamente", anche per le possibili "conseguenze politiche". I primi atti del ministero Saracco avevano diffuso la persuasione "che l'Italia non vuole, né la rivoluzione, né la reazione, e che Pelloux era stato un asino a volerla mettere artificialmente in tale bivio": adesso temeva si affacciasse "di nuovo la libidine della reazione", e alcune "manifestazioni monarchiche" avevano assunto "aspetto canagliesco"; ma sperava che Saracco superasse il "difficile momento coi soli mezzi di una politica liberale" (a L. Morandi, 3 ag. 1900). All'aprirsi del nuovo secolo, il L. consigliava ai socialisti di attenersi all'"attuabile", di non avere "un contegno di freddezza semi-ostile di fronte" alla "politica liberale" del governo Zanardelli-Giolitti, e di mirare ad alcune conquiste di "politica sociale" che riuscissero "di garanzia giuridica al proletariato" (Scrittipolitici, pp. 467, 477). Partecipando, "da uditore!", al congresso socialista, si diceva meravigliato "della forte compagine sopravvissuta a tante traversie e a tante persecuzioni", ma anche "della straordinaria moderazione della maggioranza dei congressisti". Pur differenziandolo "molte e molte cose" dai socialisti italiani: "Io sono innanzi tutto unitario, e molti di quelli sono federalisti. Io sono anticlericale ex-professo e molti di quelli passano sopra tale bagattella (!) del pericolo clericale. Io vengo dalla scienza […] e il più dei socialisti sono per il facilismo delle comode affermazioni e conclusioni" (a L. Morandi, 17 sett. 1900).

Rimaneva convinto della pausa che avrebbe subito il socialismo e ne individuava le cause nel "campo aperto al capitale dalla politica coloniale", nella "relativa resistenza dell'artigianato e della piccola proprietà", nell'"ignoranza delle moltitudini" (a Kautsky, 5 ott. 1900); nell'abbozzo di quello che avrebbe dovuto essere il quarto saggio (Da un secolo all'altro, 1901) aggiungeva gli inceppi nella diffusione della democrazia e del principio di nazionalità, il risorgere del "misticismo", la rinnovata potenza del "cattolicismo". Intervenendo (31 genn. 1903) sulla Opposizione al divorzio, cioè al disegno di legge governativo che proponeva di introdurre questo istituto, lo definiva "una legittima e naturale conseguenza logica" del concetto dello "Stato moderno". E argomentava che fosse il sintomo della nuova strategia della Chiesa di Roma: invece di fare una aperta battaglia politica, si era dedicata a "clericalizzare" la società; abbandonato l'intento di "ristabili[re] il potere temporale", mirava a provare di essere in grado di "arrestare l'azione dello Stato". Gli "illegittimi eredi" di quei "moderati" della Destra storica, che erano stati non conservatori ma "rivoluzionari temperati", dovevano tenere fermo, non tanto per "salvare" il divorzio quanto per tutelare "il prestigio di tutti i principî liberali". Vedeva anche rinascere l'"Idealismo", che insieme con lo "spirito borghese decadente" significava per lui, che pure aveva combattuto il positivismo evoluzionistico, "l'antistorico, l'antidivenire", "un arresto dello spirito scientifico" e in definitiva "un regresso" (a Croce, 7 sett. 1903).

Ormai stremato nel fisico, privato (per via di un tumore alla gola) dell'"organo pedagogico e democratico della voce" (Saggi sul materialismo storico, p. 334), e impossibilitato a ingerire persino della crema o del cacao, si lamentava (2 genn. 1904) col suo "benedetto Croce" - al quale lo aveva legato dal 1885 un intenso rapporto, "modello esemplare di quel che dovrebbero essere le relazioni fra maestri e discepoli, fra liberi maestri e liberi discepoli" (Fubini) -: "Peccato che il tuo neoidealismo non possa nulla contro la sprucida (spröde) materia".

Il L. morì un mese dopo, la mattina del 2 febbr. 1904, all'ospedale tedesco di Roma, e volle essere sepolto nel cimitero dei protestanti della capitale, all'ombra della piramide di Caio Cestio.

Edizioni degli scritti: I problemi della filosofia della storia, Roma 1887; In memoria del Manifesto dei comunisti, ibid. 1895; Del materialismo storico, ibid. 1896; Essais sur la conception matérialiste de l'histoire (trad. dei primi due Saggi), Paris 1897; L'università e la libertà della scienza, ibid. 1897 (rist., a cura di N. D'Antuono, Lanciano 1998); Discorrendo di socialismo e di filosofia. Lettere a G. Sorel, Paris 1898; Socialisme et philosophie (Lettres à G. Sorel), ibid. 1899; Scritti varii, editi ed inediti, di filosofia e politica, a cura di B. Croce, Bari 1906; Lettere napoletane, in Cronache meridionali, I (1954), pp. 558-584 (rist. in N. Siciliani De Cumis, A. L., 1868-1872, Firenze 1981, pp. 117-154); Opere, a cura di L. Dal Pane: I, Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza (1862-1868); II, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele (1871); III, Ricerche sul problema della libertà e altri scritti di filosofia e di pedagogia (1870-1883), Milano 1959-62; Scritti di pedagogia e di politica scolastica, a cura di D. Bertoni Jovine, Roma 1961 (2a ed. 1974); Saggi sul materialismo storico (con nota biobibliogr.), a cura di V. Gerratana - A. Guerra, Roma 1964 (3a ed. 1977); Scritti politici, 1886-1904, a cura di V. Gerratana, Bari 1970; Scritti filosofici e politici, I-II, a cura di F. Sbarberi, Torino 1973 (2a ed. 1976); G. Turi, Alcuni inediti di A. L., in Movimento operaio e socialista, n.s., I (1978), 3, pp. 247-257; R. Martinelli, L.: transigenti e intransigenti, in Rinascita, 1° giugno 1979, pp. 24 s.; Scritti liberali, a cura di N. Siciliani De Cumis, Bari 1981; S. Miccolis, La scuola popolare di A. L., in Riforma della scuola, XXVII (1981), 2, pp. 28-32; Id., A. L. e il "Monitore di Bologna", in Critica storica, XXI (1984), pp. 259-300; Id., A. L. e le elezioni comunali di Napoli del 1872, ibid., pp. 409-453; Id., Un inedito giovanile di L. sui rapporti tra Stato e Chiesa, in Giorn. critico della filosofia italiana, LXIV [LXVI] (1985), pp. 97-104; Id., Su A. L., Ruggero Bonghi e "La Cultura", in Nuovi Studi politici, XVIII (1988), pp. 43-70; Id., Frammenti politici di A. L., con una postilla bibliogr., in Giorn. critico della filosofia italiana, LXXII [LXXIV] (1993), pp. 473-488; La politica italiana nel 1871-1872. Corrispondenze alle "Basler Nachrichten", a cura di S. Miccolis, Napoli 1998; Id., Una recensione (1887) e sei lettere inedite (1884-1896) di A. L., in Scritture di storia, II (2001), pp. 299-316.

Principali edizioni dell'epistolario: Lettere di A. Labriola a F. Engels, a cura di A. Tasca, in Lo Stato operaio, I-IV, 1927-30; Lettere a Engels, Roma 1949; 123 lettere inedite di A. Labriola a B. Spaventa, a cura di G. Berti, in Rinascita, XXI (1953), suppl. al n. 12, pp. 718-735; XXII (1954), suppl. al n. 1, pp. 65-87; Lettere a E. Bernstein, L. e K. Kautsky (1895-1904), a cura di B. Andreas - G. Procacci, in Annali dell'Istituto G.G. Feltrinelli, III (1960), pp. 285-341; Lettere di A. Labriola a L. Mariano e J. Guesde, a V. Adler e W. Ellenbogen, a G.V. Plechanov (1892-1900), a cura di A. Zanardo, ibid., V (1962), pp. 422-483; La corrispondenza di Marx e Engels con italiani, 1848-1895, a cura di G. Del Bo, Milano 1964, ad ind.; Lettere a B. Croce 1885-1904, a cura di L. Croce, Napoli 1975; Epistolario (1861-1904), I-III, a cura di D. Dugini et al., Roma 1983; Lettere inedite (1862-1903), a cura di S. Miccolis, Roma 1988; Il carteggio di A. L. conservato nel Fondo Dal Pane, a cura di S. Miccolis, in Arch. stor. per le provincie napoletane, CVIII-CIX (1990-91), pp. 1-409; Carteggio: I, 1861-1880; II, 1881-1889; III, 1890-1895; IV, 1896-1898, a cura di S. Miccolis, Napoli 2000-04.

Fonti e Bibl.: La Società napoletana di storia patria custodisce le lettere di B. Spaventa e, nel Fondo Dal Pane, quanto è rimasto del ricchissimo archivio del L. (oltre a lettere famigliari e varie, i manoscritti dei Saggi, di discorsi e conferenze, gli appunti dei corsi di filosofia della storia, e molte altre note autografe); in Roma, presso l'Arch. centr. dello Stato si conservano il fascicolo personale del L. e le lettere a C. Fiorilli e G. Ferrando. Consistenti parti dell'epistolario sono conservate presso: Amsterdam, Instituut Internationaal voor Sociale Geschiedenis (a Engels, Luise e K. Kautsky, Turati, W. Liebknecht, Ellenbogen ecc.); Mosca, Arch. statale russo di storia sociale e politica (a Engels, Bernstein, Fischer, Luise Kautsky ecc.); Firenze, Biblioteca nazionale (a L. Morandi, F. Protonotari, A. Chiappelli ecc.); Napoli, Biblioteca nazionale (a F. Fiorentino, P.E. e M.R. Imbriani ecc.); Imola, Biblioteca comunale (ad A. Costa); Bergamo, Biblioteca comunale (a S. Spaventa); Stresa, Centro studi rosminiani (a F. Bonatelli); Cambridge, Trinity College Library, P. Sraffa Collection (ad A.C. De Meis e D. Jaja); Mantova, Istituto mantovano di storia contemporanea (a R. Soldi); Napoli, Archivio Croce; Tredozio (Palazzo Fantini), Archivio Fratti.

Per la letteratura fino al 1979, qui limitata all'essenziale o integrativa, si rinvia alle bibliografie in appendice a Saggi sul materialismo stor., cit., e a S. Poggi, Introduzione a L., Bari 1982. G. Gentile, La filosofia di Marx. Studi critici, Pisa 1899 (poi in Id., Opere complete, Firenze 1955, pp. 23-44, 72-81, 125-155); B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica (1900), Napoli 2001, pp. 17-34, 67-118, 135-150; Id., A. L. Ricordi, in Il Marzocco, 14 febbr. 1904 (poi in Pagine sparse, II, Napoli 1943, pp. 35-39); C. Fiorilli, A. L.: ricordi di giovinezza, in Nuova Antologia, 1° marzo 1906, pp. 59-63; G. Sorel, rec. a Scritti varii, cit., in Le Mouvement socialiste, VIII (1906), pp. 486-490; R. De Cesare, Il giornalismo napoletano di quarant'anni fa, in La Critica, VIII (1910), pp. 110-115; B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, Napoli 1918 (poi in Etica e politica, Bari 1956, pp. 385-396, 407-411); Id., Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895-1900). Da lettere e ricordi personali, in La Critica, XXXVI (1938), pp. 35-52, 109-124; L. Valiani, Lettere di A. L. ai socialisti tedeschi e francesi (1890-1900), in Id., Questioni di storia del socialismo, Torino 1958, pp. 375-401; E. Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e socialisti italiani (1875-1895), Milano 1961, pp. 215-260, 283-356; V. Gerratana, introd. a Scritti politici, cit., pp. 9-101; N. Badaloni, L. politico e filosofo, in Critica marxista, IX (1971), pp. 16-35; G. Are, Economia e politica nell'Italia liberale (1890-1915), Bologna 1974, pp. 43-62; L. Dal Pane, A. L. nella politica e nella cultura italiana, Torino 1975; M. Fubini, rec. a Lettere a B. Croce, cit., in Giorn. stor. della letteratura italiana, XCII (1975), pp. 620-625; I. 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