LOSCHI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 66 (2006)

LOSCHI, Antonio

Paolo Viti

Nacque a Vicenza forse nel 1368, comunque non molto prima, da Ludovico di Niccolò e da Elena di Regle del Gallo.

Il padre, giureconsulto, era stato a Firenze, forse nel 1350, come vicario e legato di Antonio Della Scala, signore di Vicenza e nel 1385 fu capitano di Sirmione; fin dal sec. XII la sua famiglia ebbe un ruolo non secondario nella vita amministrativa di Vicenza.

Il L. dovette frequentare a Padova le lezioni di Giovanni Conversini fra il 1379 e il 1382, per passare a Verona presso Antonio Della Scala; non risultano notizie sul ruolo da lui avuto fino al 1386, quando si trasferì a Firenze per conoscere Coluccio Salutati. Con la fine del dominio del Della Scala (18 ott. 1387) rientrò a Vicenza, passata ai Visconti.

Col vescovo di Vicenza Pietro Filargis il L. iniziò una familiarità che sarebbe durata a lungo; divenne pure amico di Ugolotto Biancardo, governatore milanese della città. Forse anche in base a queste relazioni, già prima del giugno 1388 si trasferì a Pavia, sede dello Studio, dove seguì i corsi del grammatico Giovanni Travesio insieme con Gasperino Barzizza. Nel 1389 il L. divenne arciprete a Padova, e in tale veste si recò a Roma per chiedere a papa Bonifacio IX la concessione del canonicato di S. Iacopo della cattedrale di Padova, già di Francesco Petrarca e al momento vacante; la richiesta fu accolta l'11 febbr. 1390.

Nell'anno successivo il L. entrò nella Cancelleria di Gian Galeazzo Visconti, collaborando col cancelliere Pasquino de' Cappelli. Quando nel 1398 un'accusa di tradimento fece destituire dalla carica Cappelli, il L. ne prese il posto; fu responsabile della Cancelleria, e continuò l'incarico anche sotto Giovanni Maria Visconti fino al 1405-06, quando fu sostituito da Uberto Decembrio.

Il passaggio di Vicenza sotto la dominazione veneziana, avvenuto nel 1404, dette al L. la possibilità di inserirsi nella nuova realtà politica. Già nel giugno 1406 per conto del doge Michele Steno fu inviato a Roma come ambasciatore presso Innocenzo VII per chiedere la nomina a vescovo di Vicenza del veneziano Angelo Barbarigo al posto di Iacopo Rossi, come in effetti avvenne. È rimasta, inedita, l'orazione tenuta in tale circostanza dal L. al cospetto del papa (Milano, Biblioteca Ambrosiana, B.116 sup., cc. 124r-125r). Pochi mesi dopo il L. fu ancora ambasciatore a Roma per l'omaggio al nuovo pontefice, Gregorio XII, che subito lo nominò "secretarius et familiaris". Da allora fino al 1436 il L. fu segretario apostolico, ma sui primi anni e sulle forme del suo impiego presso la Curia non si ha documentazione precisa.

Insieme con Filargis il L. partecipò al concilio di Pisa, apertosi il 25 marzo 1409, che, dopo aver deposto Gregorio XII, il 5 giugno 1409 elesse papa proprio Filargis (Alessandro V); il L. preparò ma non lesse l'orazione Pro unienda Ecclesia, un'accorata denuncia del "magnum vulnus" costituito per la Chiesa dallo scisma e forte invito a ricomporre l'unità del mondo cristiano. Il 22 settembre il L. divenne scrittore delle lettere apostoliche e seguì il papa a Pisa e a Bologna. Col nuovo papa Giovanni XXIII succeduto ad Alessandro V nel maggio del 1410, il L. iniziò la sua proficua presenza nella Cancelleria e nella Camera apostolica, intensificatasi con la nomina a notaio e con la promozione ad "abbreviator de parco maiori". Compì anche varie missioni diplomatiche fra il 1410 e il 1413, come quella in Germania forse a Sigismondo di Lussemburgo, re d'Ungheria e re dei Romani, traendone vari benefici (fra cui il feudo di Barbarano). Andò a Costanza nel 1414 e prese parte ai lavori del concilio come primo notaio papale. Dopo la fuga del papa, il L. tornò a Vicenza.

Il nuovo pontefice - Martino V, eletto a Costanza - era in buoni rapporti col L., che doveva conoscere fin dal viaggio a Roma del 1406. A Mantova, nel suo viaggio verso Roma, il papa lo accolse nella segreteria e il 12 dic. 1418 il L. prestò giuramento di fedeltà, ma non accompagnò Martino V nei successivi spostamenti. A Roma il papa giunse il 28 sett. 1420 e il L. sicuramente dopo l'estate del 1421; il 26 marzo 1422 gli fu concessa la cittadinanza romana. Oltre all'estensione di brevi, bolle e lettere diplomatiche (alcune, più di trecento, da lui riunite nel Liber brevium conservato a Parigi, Archives nationales, LL.4.A), il L. fu impegnato fra il 1424 e il 1426 in missioni diplomatiche: a Milano per la risoluzione della guerra nell'Italia settentrionale (nelle sue Commissioni Rinaldo degli Albizzi rivela anche l'intenzione del L. di voler vivere a Firenze) e a Buda per le guerre antiereticali del re Sigismondo, che lo creò conte palatino e, forse, lo incoronò poeta. Alla morte di Martino V, il 20 febbr. 1431, fu il L. a dettare l'iscrizione per il monumento funebre in S. Giovanni in Laterano.

Anche con il nuovo papa, Eugenio IV, il L. continuò il servizio in Curia e compì altre missioni non meglio conosciute. Il 28 marzo 1432 gli fu data facoltà di erigere una cappella nella cattedrale di Vicenza per sé e per i suoi familiari. Nel giugno 1434, quando il papa fuggì da Roma e riparò a Firenze, il L. lo seguì. Fu presente al famoso dibattito sulla lingua latina parlata al tempo di Roma tenutosi a Firenze nel 1435 nell'anticamera del papa e al quale, oltre al L. e a Leonardo Bruni, parteciparono altri segretari apostolici - Poggio Bracciolini, Cencio Rustici, Andrea Fiocchi - insieme con Biondo Flavio, che lo raccontò nel De verbis Romanae locutionis.

Agli inizi del maggio 1435 il L. dovette lasciare Firenze e il papa, chiudendo così il suo lungo periodo di servizio curiale. Ma ancora un anno dopo alcuni documenti pontifici recano la firma sua o di altri per lui. Nel 1440 tornò a Roma per incarico del duca di Milano Filippo Maria Visconti.

Al 23 febbr. 1440 risale la stesura da parte del notaio vicentino Donato da Sale del testamento, al quale il L. aggiunse un codicillo il 25 maggio 1441. Il L. morì a Vicenza fra il giugno e il settembre 1441.

Il L. aveva sposato Elisabetta Brivio, sorella di Giovanni, che scrisse un caldo elogio funebre del cognato. Da lei ebbe numerosi figli: Ludovico, Francesco (segretario apostolico), Niccolò (letterato e traduttore), Caterina, Maddalena, Tommasina.

Il L. fu figura di straordinaria importanza per la storia della cultura umanistica della prima metà del secolo XV, non solo per le opere da lui prodotte ma anche per la sua centralità nel panorama degli intellettuali del suo tempo, certo facilitata dal lungo servizio presso la Curia pontificia. Qui, accanto al L., convivevano figure di primo piano della cultura umanistica: Francesco da Fiano (col quale il L. ebbe uno scambio poetico), Leonardo Bruni (che gli dedicò le traduzioni della Vita Quinti Sertorii di Plutarco e del Fedro di Platone; ma nel 1410 gli fece anche leggere la traduzione della Vita Graccorum), Pietro Paolo Vergerio, Poggio Bracciolini (che lo inserì fra gli interlocutori del De avaritia, del De varietate fortune e di alcune Facetiae). Guarino Guarini nel 1411 gli dedicò la traduzione della Vita Flaminini di Plutarco; Lorenzo Valla nel De voluptate dice che il L. non poté intervenire all'incontro conviviale sull'argomento perché sofferente di podagra (Valla, De vero falsoque bono, p. 144); Biondo Flavio ricorda il L. come suo maestro in una lettera del 1458 a Galeazzo Sforza (Scritti, p. 175). Attraverso le lettere di Bracciolini è possibile ricostruire alcune delle più significative relazioni avute dal L. con molti intellettuali, fra cui Niccolò Niccoli, di certo conosciuto nel pur breve e giovanile soggiorno fiorentino, il vescovo Pietro Donato, il Bruni, Antonio Beccadelli detto il Panormita (racconta che il L. gli restituì l'Hermaphroditus dopo averlo letto e lodato), con Francesco Barbaro, con Guarino Guarini. In una lettera dell'aprile 1429 Francesco Filelfo lo informa circa il deterioramento dei rapporti nell'ambiente fiorentino in cui vive (Epistolarum familiarium libri, c. 9r).

Fin da giovanissimo il L. si cimentò nella composizione di carmi in latino. Fra questi uno in onore di Carlo III d'Angiò Durazzo (entrato nel 1379 in Vicenza alla testa dell'esercito ungherese alleato di Genova nella guerra contro Venezia) e forse un poema celebrativo degli Scaligeri. È probabile che prima di andare a Firenze abbia rivolto a Salutati poesie in cui anticipava il desiderio di frequentarlo, come afferma lo stesso L. in un'epistola al poeta Matteo da San Miniato, scritta forse a Firenze nel 1386. Un'altra epistola, del 1386 o degli inizi del 1387, rivolse a Salutati lamentando le tristi condizioni dell'Italia e di Roma. Del carteggio con Salutati sono rimaste poche lettere: solo due di Salutati (Ep. VII, 23 e VIII, 7, databili fra il luglio e il settembre 1393), dove si parla del progetto del L., poi non portato avanti, di tradurre l'Iliade, e dell'attesa e poi del ricevimento di un codice contenente le Epistolae ad Atticum di Cicerone; e tre del L., due in poesia e una in prosa.

Dal suo ufficio di cancelliere, il L. appoggiò e celebrò le mire espansionistiche del duca di Milano, intenzionato ad ampliare il suo dominio ben oltre i confini dello Stato milanese. Questo programma trovava ostacoli nella posizione assunta da Firenze ed espressa da Salutati, che vedeva nella salvaguardia della "Florentina libertas" il baluardo contro il "tiranno" Gian Galeazzo Visconti.

In tale clima il L. partecipò attivamente all'elaborazione della propaganda viscontea non solo come cancelliere, direttamente contrapponendosi a Salutati, ma pure come scrittore. Nel 1396 indirizzò al Visconti un componimento poetico, Imperiose comes, secli nova gloria nostri, in cui lo esortava a regnare sull'Italia dopo una guerra portatrice di pace e dopo la distruzione di Firenze, colpevole dei mali italiani. Nel marzo 1397 il L. scrisse una violentissima Invectiva in Florentinos, che provocò altrettanto forti risposte, quali la Responsiva di Cino Rinuccini e la Invectiva in Antonium Luschum Vicentinum di Salutati (scritta però nel 1403 a guerra ormai conclusa, forse dopo un primo abbozzo iniziale), fino alla Laudatio Florentine urbis di Leonardo Bruni, oltre a numerosi altri più o meno incisivi testi in prosa e in poesia.

L'assunto da cui muove il L. nell'Invectiva in Florentinos è l'accusa rivolta a Firenze di opporsi al piano di riunificazione dell'Italia pensato da Visconti e di negare così la libertà dei popoli esercitando una vera e propria tirannide sugli altri Stati. Sono i temi oggetto anche di uno scambio di sonetti fra Salutati e lo stesso L. in cui veniva rispettivamente criticato e difeso Gian Galeazzo Visconti (Lirici toscani, II, pp. 462 s.). Il testo dell'Invectiva in Florentinos, ricordato dallo stesso Salutati ancora in una lettera del 1405 (Epistolario, IV, 1, p. 76), fu inglobato da Salutati nella sua Invectiva di risposta (ma non mancano codici che lo tramandano autonomamente come il ms. 1436 della Biblioteca statale di Lucca, cc. 129r-132v, e il ms. Bywater 38 della Bodleian Library di Oxford, cc. 250-255v, e il ms. Vat. lat. 3134 della Biblioteca apost. Vaticana), che confuta la posizione del L., dimostrando come al signore di Milano vada attribuita la responsabilità di destabilizzare l'Italia e come solo Firenze sia in grado di tutelare la libertà dei popoli.

L'opera più famosa del L. è la tragedia Achilles, parte di un genere che ebbe una certa diffusione nell'ambito veneto, insieme con la Ecerinis di Albertino Mussato e la Progne di Gregorio Correr, che variamente la imitò. La stesura dell'Achilles dovrebbe collocarsi fra il 1387 e il 1389 e comunque prima del 1390, anno in cui al L. fu assegnato il canonicato padovano di S. Iacopo. Ebbe però una diffusione piuttosto scarsa, essendo testimoniata solo da cinque manoscritti, il più antico dei quali è il Gonzati 26.1.13 (335) della Biblioteca comunale Bertoliana di Vicenza, rivisto dallo stesso L. e da lui offerto al cardinale Angelo Correr, poi papa Gregorio XII e zio del Gregorio autore della Progne. La tragedia, scritta in versi, è dunque una composizione giovanile del L., forse d'origine scolastica, ma dimostra una non trascurabile capacità di scrittura metrica nella ripresa non solo dei temi che il L. trovava nell'Historia de excidio Troiae di Darete Frigio (assai letta in età medievale in una traduzione latina che è la fonte primaria dell'Achilles), ma anche in non pochi passi delle tragedie di Seneca. Oltre al riuso di alcuni miti offerti dalle Metamorfosi di Ovidio, il L. dovette rifarsi anche all'Ecuba di Euripide, conosciuta attraverso la traduzione di Leonzio Pilato.

L'Achilles interpreta una versione romanzesca che attribuiva la morte di Achille non ad Apollo e Paride (come nell'Iliade), ma a un inganno volto a impedire il matrimonio di Achille con Polissena, figlia di Priamo, che doveva sancire di fatto la conclusione della guerra. Per siglare l'accordo all'interno del tempio di Apollo Timbreo, prossimo alle porte di Troia, Achille si era presentato disarmato, ma fu colpito da Paride.

Fin dal 1393 il L. aveva lavorato a un'opera intitolata Ulixes, interrotta e poi ripresa nel 1399 ma non portata a termine: forse si trattava di una tragedia dedicata alla narrazione del ritorno di Ulisse, piuttosto che una traduzione da Omero.

Le capacità poetiche del L. sono testimoniate da un gruppo di composizioni suddivise in epistole metrice e in Carmina. Le Epistole metrice costituiscono un corpus di oltre quaranta composizioni, collocabili fra il 1387 e il 1421, con le quali il L. si rivolge a personalità diverse della cultura del tempo. In notevole quantità queste poesie sono dedicate a tematiche politiche e soprattutto ai Visconti; in non pochi casi i componimenti del L. si inseriscono in scambi poetici che prevedono una risposta. I toni (attraverso un ricorso frequente a immagini mitologiche e a soluzioni metriche non prive di raffinatezza e di eleganza) sono spesso molto netti e decisi, a tutto vantaggio dei ruoli e delle imprese dei destinatari milanesi: Gian Galeazzo emerge come campione di libertà e di pace in rapporto all'Italia intera. Le Epistole metrice, raccolte in nove libri formati ognuno da un numero disuguale di testi, sono tramandate da manoscritti diversi, fra cui il fondamentale ms. 3977 della Biblioteca universitaria di Bologna, confezionato dal figlio del L., Francesco.

Nei Carmina sono raccolte composizioni diverse, scritte in circostanze differenti. Per esempio è del 1402 un epitaffio per il sepolcro di Gian Galeazzo Visconti. Sono inediti ancora, fra gli altri, carmi ed epigrammi per Giovanni Thiene, Iacopo Allegretti, Braccio da Montone, epitaffi per Martino V e per Carlo Malatesta, versi latini per il Petrarca. Un carme di 135 esametri in lode di Filippo Maria Visconti si trova nel Liber brevium oltre che nel manoscritto bolognese sopra citato.

Del L. sono rimaste anche alcune epistole latine in prosa, indirizzate a personaggi diversi: una del 1388 a Salutati, tre a Iacopo Dal Verme fra il 1388 e il 1402, una del 1406 a Giovanni Tinto Vicini da Fabriano, una del 1408 a Pietro Filargis sulle condizioni della Chiesa, una del 1409 a Niccolò d'Este sulla caduta di Ottone Terzi, signore e tiranno di Parma e Reggio, una del 1412 a Filippo Maria Visconti, signore di Milano, una del 1440 a Pier Candido Decembrio (cfr. i mss. 2387 della Biblioteca universitaria di Bologna, cc. 30v, 56r, e I.235 inf. della Biblioteca Ambrosiana di Milano, c. 54v). Sono inedite tre lettere ad Antonio da Romagno (che al L. mandò una "fabella" e un'egloga: ms. Vat. lat., 5223 della Biblioteca apost. Vaticana, c. 21r), composte fra il 1396 e il 1400. Una lettera al cardinale Baldassarre Cossa si trova nel ms. 170 della Biblioteca comunale di Treviso. Un'altra a Cosimo de' Medici del 1439, in volgare, è conservata in Arch. di Stato di Firenze, Acquisti e doni 383 (pubblicata in Zaccaria, 2002, pp. 70 s.). È facile pensare che siano andate perdute molte altre epistole del L. che testimoniavano i suoi rapporti con esponenti della cultura e della politica. Non è del L. la lettera con firma "Antonius Luschus" indirizzata a Lorenzo de' Medici nel 1477 (Arch. di Stato di Firenze, Mediceo avanti il principato, XXXV, t. 640).

Il L. nel 1389 scrisse un'Exhortatio ad serenissimum Ladislaum regem invitandolo a ripristinare le insegne paterne sulla sua flotta navale. Al 1396 risale l'Oratio pro magistro Matheo de Vitedono per la laurea in medicina dell'amico (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 5223, cc. 26v-30v).

Il volgarizzamento delle Declamationes dello Pseudo Quintiliano fu realizzato sul finire del Trecento ed è conservato in un discreto numero di manoscritti, fra cui il ms. II.I.26, cc. 81r-107v, della Biblioteca nazionale di Firenze, che indica il giugno 1392 come periodo della scrittura del testo. Nel prologo il L. lamenta che non pochi libri "utilissimi et bellissimi di gramatica", pur tradotti in volgare, non hanno avuto la diffusione che avrebbero meritato, rimangono "serrati in tenebre" o vengono "gittati come fango tra vilissimi piedi". Oltre che all'applicazione di evidenti intenti pratici, il lavoro del L. non rinuncia a dare una coerenza stilistica e retorica a un testo, trasferito in volgare con soluzioni assai varie: compendi, ampliamenti, soppressioni, che ne conservano però il tono oratorio entro una sostanziale fedeltà lessicale e linguistica.

La Inquisitio super orationes Ciceronis, composta nel 1395, uno dei testi più conosciuti in età umanistica, è un trattato di retorica in forma di commento a undici orazioni di Cicerone, fra cui la Pro Quinctio e la Pro Flacco, da poco recuperate e rimaste sconosciute anche al Petrarca. L'Inquisitio fu più volte stampata a partire dal 1477, insieme con le parti superstiti del commento alle orazioni di Cicerone di Quinto Asconio Pediano e con il commento ad altre orazioni ciceroniane di Sicco Polenton, modellato nel 1413 su quello del L., e con il De artificio Ciceronianae orationis pro Quinto Ligario di Giorgio Trapezunzio. L'Inquisitio è dedicata al compagno di studi del L. Astolfo Marinoni, segretario di Francesco Barbavara. Nella lunga prefatoria sono spiegati il ruolo dell'eloquenza e i compiti dell'oratore sulla base delle tesi di Cicerone e di Quintiliano, mentre nella sua esegesi il L. studia le parti delle orazioni di Cicerone e la loro struttura compositiva (esordio, narrazione, epilogo) e analizza argomento e contesto in cui si svolge l'orazione, nonché le figure retoriche con finalità anche didattiche e metodologiche, così come poteva trovare nei manuali retorici classici.

La traduzione della novella di ser Ciappelletto (Decameron, I, 1) risale forse al periodo visconteo del L., anche se, per la ricorrenza di moduli stilistici, potrebbe essere spostata al periodo del servizio in Curia in cui era presente Poggio Bracciolini. La traduzione - dedicata a un "vir optimus" non meglio identificato - rientra nell'intendimento umanistico di utilizzare il modello del Decameron per definire forme e soluzioni utili per la narrativa in lingua latina; non ebbe però particolare diffusione, essendo testimoniata dal solo ms. C.141 inf. della Biblioteca Ambrosiana di Milano, formulario di cancelleria in cui si trovano altri testi del L. (lettere a Iacopo Dal Verme e a Maddalena Scrovegni) accanto anche alla versione latina della novella boccacciana di Griselda (X, 10) effettuata da Petrarca e alla Declamatio Lucretie di Salutati.

Fra gli altri scritti del L. sono da ricordare le Declamationes controversiales trasmesse dal ms. II.I.64 della Biblioteca nazionale di Firenze, cc. 85r-89v, contenente pure il carme Cum michi nec potum latices nec rivus anelo, cc. 90r-92v; esse rientrano nello schema delle esercitazioni scolastiche di discussione su casi di omicidio, di lesa maestà, di divisione di beni tra figli e genitori, di adulterio, di violazione di tombe. Dal ms. H. 5 della Biblioteca capitolare di Praga, che tramanda l'Africa del Petrarca, è stata pubblicata una "querela" di Didone contro Virgilio, in cui Didone esprime il desiderio che la sua contesa col poeta sia risolta da un arbitro, non nominato ma che si capisce essere di alta condizione e degno di essere celebrato con i grandi condottieri di Roma antica, al punto che è stato supposto essere Gian Galeazzo Visconti.

Al L. sono attribuiti anche altri scritti, in poesia e in prosa, fra cui un poema per Carlo III d'Angiò Durazzo re di Napoli, forse però appena iniziato; poesie per Antonio Della Scala; lettere a Ugolotto Biancardo e a Francesco Filelfo; un epitaffio per Bartolomeo da Montepulciano; argumenta in giambi latini premessi alle commedie di Plauto; un De vera amicitia non meglio precisato.

Manca un corpus unico dei testi del L. i quali, salvo alcune eccezioni, sono pubblicati all'interno di studi più generali; cfr. in particolare: G. de Delayto, Annales Estenses, in L.A. Muratori, Rer. Ital. Script., XVIII, Mediolani 1731, coll. 1065-1070; E. Baluze, Miscellanea novo ordine digesta( et aucta opera ac studio I.D. Mansi, IV, Lucae 1764, pp. 129-130; A.A. Pelliccia, Raccolta di varie cronache, diarii ed opuscoli( appartenenti alla storia del Regno di Napoli, I, Napoli 1780, pp. 325-332; C. Salutati, Invectiva( in Antonium Luschum Vicentinum(, a cura di D. Moreni, Florentiae 1826; Nobilissime nozze Loschi - Dal Verme, a cura di G. Rossi, Vicenza 1843; A. Loschi, Achilles, Patavii 1843; A. Loschi, Carmina quae supersunt fere omnia, a cura di G. Da Schio, Patavii 1858; Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Milano-Napoli 1952, pp. 7-37; Lirici toscani del Quattrocento, II, a cura di A. Lanza, Roma 1975, p. 463; A. Loschi, Achilles - G. Correr, Progne, a cura di V. Zaccaria - L. Casarsa, Ravenna 1981. A queste opere si aggiungano, tra le altre, quelle edite in Zaccaria, 1957-58, 1970-71 e 1975; Girgensohn, 1987; Albanese, 1997.

Fonti e Bibl.: Vicenza, Biblioteca Bertoliana, Archivio Loschi; Arch. segreto Vaticano, Reg. Vat., 335, 342, 345, 353-355, 371-373; Reg. Lat., 136, 140, 222, 317, 337; Camera apostolica. Div. Cam., 3, 17; Parigi, Archives nationales, LL.4.A; F. Filelfo, Epistolarum familiarium libri XXXVII, Venetiis 1502; Biondo Flavio, De Roma triumphante libri X(, Basileae 1531, p. 305; E.S. Piccolomini, Opera omnia, Basileae 1571, p. 600; L. Bruni, Epistolarum familiarum libri VIII, a cura di L. Mehus, Florentiae 1741, I, p. 89; II, p. 190; B. Facio, De viris illustribus, a cura di L. Mehus, Florentiae 1745, p. 3; Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per il Comune di Firenze, a cura di C. Guasti, II, Firenze 1869, pp. 102, 106, 113, 115, 130, 132 s., 150, 157, 167, 177-179, 182, 185-187, 191, 241, 245, 251 s., 259, 265, 278 s., 286, 292, 301, 356, 359, 363, 387, 425, 488, 525, 527; Der Briefwechsel des Eneas Silvius Piccolomini, I, a cura di R. 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