QUERENGHI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 86 (2016)

QUERENGHI, Antonio

Uberto Motta

QUERENGHI (Quarenghi), Antonio. – Nacque a Padova nel 1546, secondo figlio di Niccolò e di Elisabetta Ottellio. Il fratello maggiore Marco ereditò il nome del nonno paterno, che aveva sposato Paola Gardellini, sorella del giureconsulto bassanese Antonio, nel cui ricordo egli fu battezzato.

Nel 1548, alla morte del padre, i due fratelli vennero affidati al nonno materno, Gaspare Ottellio, notaio presso la curia vescovile di Padova e cancelliere del capitolo della cattedrale. Marco, dopo un periodo di formazione, gli succedette nell’incarico, mentre Antonio venne avviato a studi umanistici e giuridici. All’Università di Padova frequentò le lezioni di illustri esponenti della scuola aristotelica, laureandosi nel 1571 in utroque iure, poi nel 1573, in teologia.

Sperone Speroni lo accolse tra i propri discepoli fra i quali strinse amicizia con i quasi coetanei Torquato Tasso, Iacopo Mazzoni, Paolo Beni. A questi anni risale il suo esordio poetico, latino e volgare: nel 1566 pubblicò l’egloga piscatoria Almon (Padova, s.n.t.); due anni più tardi, tre carmina e un sonetto furono inclusi nel Tempio in omaggio di Geronima Colonna d’Aragona (Padova, L. Pasquati). Dodici sonetti e dodici carmi, tra il 1568 e il 1570, videro la luce nelle due raccolte promosse dall’Accademia degli Occulti di Brescia (Brescia, V. di Sabbia). Dal 1573 si legò all’Accademia degli Animosi. Un suo lungo e impegnativo poemetto in esametri fu pubblicato, nel 1576, come introduzione al trattato De perfectione rerum del veneziano Niccolò Contarini (Venezia, G.B. Somasco); nello stesso anno, un più facile carme comparve a stampa quale premessa alle Academicae contemplationes di Stefano Tiepolo (V. Deuchino). Nel 1577 Francesco Patrizi, scrivendo L’amorosa filosofia, assegnò a Querenghi il ruolo di interlocutore principale. Una sua ode saffica Ad naturam venne quindi edita nel 1579, in appendice all’orazione sull’alchimia che Alessandro Carriero aveva recitato tra gli Animosi (Padova, L. Pasquati).

Tra il 1579 e il 1580, trasferitosi a Roma, entrò alle dipendenze del cardinale Flavio Orsini. Alla sua morte, nel 1581, passò al servizio del cardinale Iñigo de Avalos, presso il quale rimase fino al 1592. Accolto da papa Gregorio XIII nella cerchia dei suoi protetti, nel 1582 pubblicò un carme celebrativo per la nuova sede del Collegio romano. Anche Sisto V tenne Querenghi tra i suoi dotti collaboratori, ricompensandolo con la prepositura della Scala Santa. Nel 1586 commemorò, con cinque eleganti carmi, la traslazione dell’obelisco egizio dal circo di Nerone a piazza S. Pietro. La vasta cultura e l’elegante conversazione lo imposero all’attenzione nei salotti dei cardinali Ottavio Acquaviva, Alessandro Farnese, Cinzio Aldobrandini, Scipione Gonzaga. Insieme con Federico Borromeo, a cui lo legarono rapporti di stima, frequentò l’oratorio della Vallicella e Filippo Neri, condividendone gli orientamenti spirituali. Nel 1592 il neoeletto Clemente VIII lo volle segretario del Collegio cardinalizio, successore di Silvio Antoniano; e di lì a poco Querenghi lasciò il cardinale Avalos per accasarsi presso il cardinale nipote Cinzio Passeri Aldobrandini, che in Vaticano aveva radunato una privata accademia, dove egli ritrovò Francesco Patrizi e Torquato Tasso. A quest’ultimo, in particolare, fu assai vicino fino alla morte, nel 1595, avendone in cambio un omaggio in distici elegiaci.

Nel novembre del 1595 ottenne da Clemente VIII la nomina a canonico del capitolo della cattedrale di Padova, anche grazie all’intercessione di Borromeo, il quale, nello stesso anno, si adoperò presso il duca di Parma Ranuccio I Farnese, affinché gli fosse affidato il ruolo di storiografo di corte, per narrare le imprese compiute da Alessandro, padre di Ranuccio, nei Paesi Bassi. Nella primavera del 1597, partito da Roma, sostò a Parma per definire le fonti, i modelli e le linee principali della sua Belgica historia. Nonostante le premesse, però, l’impresa si protrasse indefinitamente, così che Ranuccio l’accusò di scarsa applicazione, mentre, ancora nel 1610, egli si difendeva chiamando in causa la mancata cooperazione di segretari e archivisti farnesiani. Dell’opera, che non venne mai completata, sopravvive un’Epitome la quale, manoscritta, circolò tra l’Italia, la Francia e la Spagna. Altre due volte, nel corso della sua carriera, Querenghi disattese i compiti storiografici, rinunciando a prestigiose commissioni: nel 1606-07, quando ricusò una storia dell’Interdetto richiestagli da Paolo V, e nel 1613, quando il cardinale Alessandro d’Este gli propose la stesura di una storia della guerra del Monferrato. Nei tre casi desistette ammettendo, sia pure cautamente, l’impenetrabilità degli arcana imperii.

Di nuovo a Padova dalla fine del 1597, rimase nella città natale fino all’aprile del 1605, allontanandosene solo per due soggiorni a Parma (nel 1599-1600 e nel 1603). La sua dimora divenne un luogo di studio, favorevole alla circolazione delle idee e dei libri che egli, spaziando dall’antiquaria alla teologia, dalla storiografia all’astronomia, selezionò per la sua ricchissima biblioteca. Il 12 marzo 1600 fu accolto nell’Accademia dei Ricovrati e si adoperò affinché Silvestro Aldobrandini, pronipote di Clemente VIII, accettasse la nomina a rettore dell’istituzione. Per un’adunanza dei Ricovrati stese l’erudito discorso Dell’antro platonico, o vero della circonduzione socratica, al fine di spiegare il significato dell’impresa dell’Accademia (l’antro delle naiadi descritto nel canto XIII dell’Odissea con il motto boeziano Bypatens animis asylum). Nella medesima temperie fu dedicatario del Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la stella nuova, redatto dai benedettini Girolamo Spinelli e Benedetto Castelli con la collaborazione di Galileo Galilei, e pubblicato nel 1605, per confutare, e irridere, l’interpretazione aristotelica dei movimenti celesti. Tra i Ricovrati, inoltre, il 7 giugno 1604 fu recitato un suo testo in endecasillabi sciolti, poi stampato con il titolo Panegirico in lode della poesia (in Poesie volgari, Roma, G. Facciotto, 1616).

Ritornato definitivamente a Roma nel 1605, fu chiamato in Vaticano da Paolo V, prima come precettore del nipote Giovan Battista Vittori e poi come cameriere segreto e referendario dei tribunali supremi della Segnatura di grazia e giustizia. Nel 1607, insieme con Gaspar Schopp, promosse una duplice manovra per tentare di comporre i rapporti tra il pontefice e, da un lato, Paolo Sarpi (dopo la rimozione dell’Interdetto) e, dall’altro, Tommaso Campanella, prigioniero nel carcere napoletano di Castel Sant’Elmo. Fu allora tra i primi a leggere le carte manoscritte del filosofo calabrese, che nel luglio di quell’anno gli indirizzò un’epistola colma di gratitudine ed elogi.

Il 13 febbraio 1609 divenne segretario del cardinale Alessandro d’Este, prendendo dimora nel palazzo romano della famiglia. L’incarico fu occasione di almeno due viaggi a Modena, nello stesso 1609 e nel 1612, durante i quali fece valere il proprio magistero sui letterati raccolti intorno alla famiglia ducale (fra loro Fulvio Testi, Camillo Molza e il giovanissimo Agostino Mascardi). Tramite Battista Guarini, con il quale tra il 1609 e il 1612 scambiò lettere di reciproca ammirazione, nel 1611 fu ammesso nell’Accademia degli Umoristi. Nel 1613 venne prescelto dal pontefice per dettare le tre epigrafi latine, in esametri, che furono incise sul basamento della colonna classica drizzata nella piazza di S. Maria Maggiore. Tra il 1614 e il 1615 fu consigliere di Alessandro Tassoni, al tempo della prima redazione della Secchia rapita, e partecipò alla revisione del testo, cercando – invano – di portarlo alla stampa. Nel 1616, poi, collaborò all’editio princeps dei primi 17 capitoli del XXXIII libro della storia liviana, pubblicata contemporaneamente a Roma, Venezia e Parigi e dedicata al cardinale nipote Scipione Borghese.

Nel 1621, a Parigi, furono pubblicate le editiones principes della Secchia rapita di Tassoni e dell’Argenis di John Barclay: in entrambe le opere compariva il suo profilo, sia (mascherato) come personaggio della favola, sia – nei paratesti – quale garante del valore pedagogico della iocunditas perseguita dagli autori. Nell’autunno dello stesso anno, dopo la morte di Paolo V, si trasse dall’impiego presso la casa d’Este ed entrò al servizio del cardinale Ludovico Ludovisi, nipote del nuovo pontefice, Gregorio XV. Papa Urbano VIII lo indicò a esempio per le più giovani generazioni, quale interprete di una stagione culturale insieme remota ed esemplare: e come tale fu evocato da Vincenzo Gramigna nel dialogo Il Querenghi, overo della generosità, a stampa nel 1615. Si spiega in quest’ottica il successo delle sue due raccolte poetiche, lontane dalla vis concettista, in nome di una limpida eleganza al servizio di contenuti etici e sapienziali, ma capaci di compiacere il gusto del tempo. Le Poesie volgari furono stampate a Modena (1616), Roma (1616 e 1621), Padova (1622), Venezia (1626); i Carmina a Colonia (1616) e a Roma (1618, 1621, 1629).

Querenghi morì a Roma il primo giorno di settembre del 1633; compianto dalle Accademie degli Umoristi e dei Ricovrati, fu sepolto nella chiesa romana di S. Francesco a Ripa.

Fonti e Bibl.: G.F. Tomasini, Elogia virorum literis et sapientia illustrium, Patavii 1644, pp. 133-150; L. Gaudenzio, Il “Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene” e il canonico A. Q., in Scritti e discorsi nel IV centenario della nascita di Galileo Galilei, Padova 1966, pp. 159-165; E. Veronese Ceseracciu, La biblioteca di Flavio Querenghi, in Quaderni per la storia dell’Università di Padova, IX-X (1976-1977), pp. 185-213; L. Bolzoni, Il segretario neoplatonico, in La Corte e il “Cortegiano”, II, Un modello europeo, a cura di A. Prosperi, Roma 1980, pp. 133-169; Ead., Ercole e i pigmei, ovvero Controriforma e intellettuali neoplatonici, in Rinascimento, XXI (1981), pp. 285-296; G. Ronconi, Paolo Gualdo, A. Q. e le Accademie, in Atti e memorie dell’Accademia Patavina di scienze, lettere ed arti, Classe di scienze morali, lettere ed arti, CV (1992-1993), pp. 101-119; U. Motta, Q. e Galileo: l’ipotesi copernicana nelle immagini di un umanista, in Aevum, LXVII (1993), pp. 595-616; Id., Un testo inedito di A. Q.: Omero, Platone e le imprese accademiche degli amici padovani, ibid., LXVIII (1994), pp. 575-605; Id., Tra Paolo V e la Bibbia: la produzione epigrafica di A. Q., in Italia medioevale e umanistica, 1994, vol. 37, pp. 137-169; Id., A. Q. (1546-1633). Un letterato padovano nella Roma del tardo Rinascimento, Milano 1997; Id., Borromeo, Pinelli e Q.: letteratura e collezionismo librario tra Cinque e Seicento, in Studia Borromaica, XIII (1999), pp. 129-159; Id., La biblioteca di A. Q.: l’eredità umanistica nella cultura del primo Seicento, in Studi secenteschi, XLI (2000), pp. 177-283; Id., L’Ambr. S 77 sup. e l’inventario dei libri di A. Q.: antichi e moderni nell’erudizione di fine Cinquecento, in Italia medioevale e umanistica, 2000, vol. 41, pp. 243-400.

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