RUFFO, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 89 (2017)

RUFFO, Antonio

Maria Concetta Calabrese

– Ultimogenito del duca di Bagnara, Carlo, abile politico e uomo d’affari appartenente a una tra le prime famiglie di feudatari del Meridione, e di Antonia Spatafora, proveniente da una delle più cospicue famiglie del patriziato messinese, nacque forse a Messina nel 1610, pochi mesi dopo la morte del padre. Con il matrimonio dei suoi genitori ebbe origine il radicamento del lignaggio calabrese dei Ruffo in Sicilia.

Sposando Antonia, la secondogenita del barone Federico Spatafora, Carlo Ruffo acquistò una posizione di primo piano anche a Messina. Ne è segno manifesto il fatto che nel 1595, qualche anno dopo il matrimonio, fu tra i fondatori del prestigioso ordine militare della Stella, che annoverava nelle sue file l’aristocrazia cittadina. Ruffo viveva con la moglie in Calabria, ma soggiornava anche a Messina e si recava spesso pure a Napoli, dove nel 1602 risulta iscritto nelle matricole dell’arte della seta.

Il commercio della seta era in grande espansione e i Ruffo ne trassero consistenti guadagni. Agli albori del Cinquecento Messina era diventata la piattaforma logistica del circuito commerciale della seta, che si dipanava in maniera tentacolare da Genova con i suoi hombres de negocios fino a Napoli, a Messina, alla Calabria.

Dopo la morte di Carlo, nel 1610, in Calabria nel castello di Monteleone, fu la moglie a prendere le redini dei suoi affari: si iscrisse alle matricole dell’arte della seta a Napoli e tornò nella sua città d’origine, Messina. Antonia, che ebbe dal marito la tutela dei figli, giocò con sapienza le sue carte ed ebbe successo: per il primogenito Francesco ottenne in moglie Imara, figlia secondogenita del principe di Scilla, e il matrimonio si rivelò particolarmente vantaggioso. Scelse poi delle ereditiere per i figli cadetti, avviò alla carriera ecclesiastica Flavio, fece entrare Bernardo nell’Ordine dei cavalieri di Malta, non consentì il matrimonio all’unica figlia Ippolita. Collocò così i figli in posizioni strategicamente funzionali ai suoi progetti: il primogenito Francesco ereditò, quindicenne, il titolo di duca di Bagnara e rimase in Calabria; per Flavio, abate di S. Bartolomeo a Sinopoli, uomo d’affari e collezionista, la madre scelse la sede di Napoli e il ruolo di consigliere per lei e per il fratello ultimogenito Antonio; per l’altro cadetto Pietro, in Sicilia con la madre, venne negoziato nel 1625 il matrimonio con Agata Balsamo, ereditiera della viscontea di Francavilla di Sicilia.

Già dall’adolescenza Antonio spiccò per intelligenza e curiosità intellettuali e trascorse a Napoli presso il fratello Flavio periodi che furono formativi per la sua cultura e personalità. Il giovane ribaltò la sua posizione iniziale di cadetto grazie alla predilezione della madre e agli appoggi della potente rete di legami familiari ed economici di cui disponeva sulle due sponde dello stretto. Una tappa importante della sua ascesa fu rappresentata dalla costruzione di un palazzo che doveva rappresentare nello spazio urbano della città del Peloro il nuovo lignaggio siciliano della famiglia Ruffo. Fu ancora una volta Antonia a stipulare un accordo con il Senato della città nell’aprile 1645 per innalzare un palazzo a livello di quelli già esistenti per continuare «decorosamente» la strada Emmanuella. La costruzione del palazzo s’inquadra nella realizzazione della famosa ‘palazzata’ di Messina voluta dal viceré Emanuele Filiberto di Savoia.

La realizzazione dei palazzi sul ‘teatro marittimo’, che terminava a forma di falce, doveva essere l’orgoglio della città, il segno della sua grandezza, la proiezione spaziale della nobiltà e della borghesia impegnate nei traffici mercantili. Una descrizione di fine Seicento definisce la dimora come un «tenimento grande di casa con dodeci balconi della parte dentro la città, e con nove balconi della parte verso la Marina, sito e posto nella città di Messina nella Marina di essa città seu strata Emanuela contrata del Regio Campo» (Calabrese, 2000a, p. 249).

Nel 1646 il palazzo fu ultimato e Ruffo, che l’anno precedente era diventato senatore, vi andò ad abitare con la moglie Alfonsina e la madre Antonia. In quello stesso anno, quasi a suggellare l’esito felice di tanti sforzi, nacque il primogenito, Placido. Cinque anni prima, infatti, il 6 luglio 1641, Antonio aveva sposato un’ereditiera parente della madre, Alfonsina Gotho, appartenente a una delle famiglie più antiche e illustri della nobiltà messinese e destinata a fregiarsi in seguito del titolo di baronessa della Floresta, in quanto erede del fratello Antonino.

Dopo la costruzione del palazzo in città, il patrimonio di Ruffo si arricchì in maniera consistente: dalla villa al Faro all’acquisto del feudo di Scaletta e del relativo titolo di principe; dall’acquisizione del feudo di Floresta tramite matrimonio alla molteplice attività finanziaria e commerciale in città e fuori, che andava dalla gestione dei principali appalti fino al commercio della seta e di vari prodotti, tra cui il frumento e la neve.

Centrale in questa attività fu la commercializzazione della seta, dove Ruffo operò come procuratore di Giovan Battista Raggi, rappresentante del grande mondo imprenditoriale e finanziario degli hombres de negocios genovesi legati alla monarchia asburgica. Antonio fu un personaggio in cui si coniugarono prudenza in politica, abilità negli affari, notevole ricchezza, una grande passione per l’arte, la grande pittura in particolare, di cui fu intenditore e collezionista, e ancora originalità di gusti e profondità di interessi. Quando, da giovanetto, era stato ospite del fratello Flavio a Napoli, forse aveva avuto l’occasione di vedere collezioni d’arte. Era celebre la grande pinacoteca di Gaspare Roomer, mercante e armatore di Anversa, oltreché collezionista. Nel 1634 la sua raccolta presentava «quanto di più moderno ed efficace si fosse prodotto nei primi decenni del secolo fra Napoli e Roma, prima del trionfo della cultura barocca» (Ruotolo, 1982, p. 6).

Palazzo Ruffo si arricchì di raccolte di argenti e gioielli, mobili, tendaggi, tappeti. La quadreria fu splendida e non paragonabile a quella di altre nobili famiglie messinesi, certamente una delle più importanti dell’Italia meridionale.

È significativo che Roberto Longhi (1918) abbia definito il saggio pubblicato da Vincenzo Ruffo sulla galleria del suo avo «lo studio archivistico più importante [...] per la storia del grande Seicento, dopo quello del Bertolotti» e che abbia rilevato come nella galleria Ruffo fossero rappresentate le maggiori correnti pittoriche non solo italiane. Il lavoro di Vincenzo Ruffo comprende anche una raccolta di 182 lettere dal 1646 al 1673 e offre, attraverso la corrispondenza di Antonio con pittori, agenti, parenti e amici, una fonte di estremo interesse non solo dal punto di vista artistico, ma anche storico.

Ruffo si serviva, per contattare gli artisti, della rete dei suoi agenti e anche dei suoi parenti: il fratello Flavio e i nipoti, il religioso domenicano Tommaso Ruffo e Fabrizio, balì dell’Ordine di Malta, priore di Bagnara. L’epistolario e gli elenchi delle opere d’arte pubblicati da Vincenzo Ruffo ci informano sui dipinti della galleria, dove trovavano posto Guercino, lo Spagnoletto, Pietro Novelli, Rembrandt, Anton Van Dyck, Guido Reni, Polidoro da Caravaggio, Tiziano, Pietro da Cortona, Nicolas Poussin, Abraham Brueghel, Albrecht Dürer, Mattia Preti, Artemisia Gentileschi, Alonso Rodriguez, Salvator Rosa, Abraham Casembroth e molti altri.

Egli desiderava possedere una collezione che fosse rappresentativa delle opere di tutti i maggiori pittori contemporanei e fu probabilmente questo il motivo che lo spinse a compiere i suoi acquisti più notevoli: i tre Rembrandt (Aristotele che contempla il busto di Omero, Alessandro il Grande e Omero cieco). Per Vincenzo Abbate (2011, p. 49) l’Aristotele che contempla il busto di Omero, oggi al Metropolitan Museum di New York, «rientra comunque nel clima di sentita meditazione sull’antico e sui suoi esempi morali, nettamente in contrasto con la decadenza dei tempi moderni». Rembrandt era ben conosciuto in Italia, ma non sempre apprezzato, tranne le acqueforti. Abraham Brueghel scriveva da Roma nel 1665 a Ruffo che i quadri del grande pittore olandese non erano molto considerati. Antonio trovò non di suo gradimento «la troppo libera pennellata artistica dell’ultimo periodo del grande maestro e respinse indietro l’Omero cieco perché fosse completato» (Haskell, 1966, p. 327). Nonostante ciò Ruffo ammirava moltissimo il pittore olandese e chiese al Guercino di dipingere un quadro da accoppiare all’Aristotele di Rembrandt nella sua «prima maniera gagliarda». Rosanna De Gennaro (2003, p. XVII) ha sottolineato come l’acquisto dei dipinti di Rembrandt sia stato il risultato di scelte precise del grande collezionista, favorite anche dalla nutrita presenza a Messina di mercanti e pittori fiamminghi. Oltre ai dipinti di Van Dyck, Rembrandt, Jacob Jordaens, giunsero da Amsterdam a palazzo Ruffo nel 1664 otto arazzi raffiguranti episodi della Vita d’Achille «su disegno di Pier Paolo Rubens». Il tramite fu Cornelis Gijsbert van Goor e qualcuno degli arazzi pare sia stato realizzato da Jordaens.

Un altro tassello della poliedrica personalità di Ruffo è costituito dal rapporto con Agostino Scilla, pittore, scienziato, collezionista, di casa a palazzo Ruffo, cui questi, fra l’altro, affidava l’incarico di ritoccare le tele cui il viaggio aveva procurato qualche danno. A Messina in quegli anni Scilla partecipò attivamente alla vita culturale della città. Fu tra i membri dell’Accademia della Fucina aperta nel 1639 da Carlo Di Gregorio, di cui facevano parte altri personaggi che ebbero un ruolo importante nelle vicende politiche e culturali che precedettero e accompagnarono la rivolta messinese. Tra l’ingegnoso e colto Scilla e il raffinato aristocratico intercorse un rapporto che andava al di là di quello che normalmente si instaura tra committente e artista. La ricerca spasmodica di dipinti e oggetti raffinati e preziosi da parte di Ruffo non fu solo amore per l’arte, ma desiderio di comprendere gli aspetti più vari della cultura e della natura sulla spinta di bisogni personali e di stimoli da parte di straordinari personaggi a lui vicini. È plausibile perciò pensare che Scilla sia stato l’ispiratore di alcuni acquisti preziosi e singolari del principe. Per cercare ciò che lo attraeva, Ruffo non esitava a usare tutti i mezzi che aveva a disposizione, ma da oculato uomo d’affari non trascurava il proprio tornaconto finanziario nell’acquisto di un’opera d’arte o di un oggetto raro, consapevole che si trattava di un investimento.

A palazzo Ruffo si recò anche don Juan José d’Austria quando fu viceré in Sicilia nel 1650-51, ospite anche più volte del casino Ruffo al Faro, dove d’estate si svolgevano i fastosi riti della socialità nobiliare messinese.

Quando a fine Seicento la tragica rivolta contro la Spagna infiammò Messina, Ruffo si rifugiò prudentemente in Calabria e tornò solo a rivolta finita, nel 1678. Morì a Messina nello stesso anno. La sua discendenza costituì la propaggine più importante dei Ruffo in Sicilia e occupò la posizione di maggiore prestigio nella gerarchia sociale di Messina.

Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Messina, Fondo Corporazioni religiose soppresse, vol. 170, cc. 16-17; Fondo Notarile Messina, voll. 887, c. 455r, 453, cc. 431r-449v, 620r-650r, 1072r-1075r, 1075v-1082v; Archivio di Stato di Napoli, Archivio Ruffo di Bagnara, voll. 63, cc. 5r, 13r-14r, 20rv, 197, cc. 34-43, 216r-285v, 401r-412r, 190, cc. 33r, 65r, 191, cc. 348r-383r; Archivio di Stato di Palermo, Archivio Spatafora, voll. 847, 848, cc. 21r-29r, 119r-144r, 148r-193v, 201r-243r, 220r-246v, 279r-333r, 849, cc. 357r, 364r-379r, 499r-576v, 612r-613r, 614r-637v, 638-655v, 856, cc. 302r-334r, 364r-376v; Genova, Dipartimento di economia dell’Università di Genova, Archivio Doria, Fondo Salvago Raggi, voll. 266, n. 18, cc. 1r, 21r, 267, s.n., 303, s.n.; Messina, Biblioteca regionale G. Longo, Fondo Nuovo, vol. 189, n. 3.

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