SEGNI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 91 (2018)

SEGNI, Antonio

Antonello Mattone
Salvatore Mura

– Nacque a Sassari il 2 febbraio 1891, da Celestino e da Annetta Campus. La famiglia paterna era di lontane origini liguri: il padre, cattolico e di orientamento politico moderato, avvocato e libero docente di economia politica nell’Università di Sassari, fu consigliere provinciale e comunale e, durante l’età giolittiana, vicesindaco per un breve periodo.

Segni si laureò con lode in giurisprudenza a Sassari nel luglio del 1913, discutendo una tesi dal titolo Il vadimonium, un pregevole lavoro sulla procedura civile nel diritto romano. Perfezionò gli studi a Roma con Giuseppe Chiovenda, di cui divenne l’allievo prediletto; nello studio dell’autorevole giurista conobbe Piero Calamandrei, inaugurando un sodalizio umano e scientifico che sarebbe durato tutta la vita. Con l’inizio del primo conflitto mondiale fu richiamato alle armi come ufficiale di artiglieria. Congedato, si dedicò alla professione forense continuando ad approfondire gli studi di diritto processuale civile, in particolare il tema dell’intervento (L’intervento adesivo studio teorico-pratico, Roma 1919; L’intervento volontario in appello, Sassari 1920). Nel 1920 iniziò la carriera accademica come docente nella Libera università di Perugia, dove insegnò sino al 1925, ottenendo in quella sede lo straordinariato. Nel 1921 sposò Laura Carta Caprino, appartenente a una ricca famiglia della borghesia agraria, da cui ebbe quattro figli: Celestino (1926), Giuseppe (1928), Paolo (1937) e Mariotto (1939); quest’ultimo divenne un esponente politico di livello nazionale – deputato democristiano dal 1976 al 1996 e poi eurodeputato dal 1994 al 1999 – e svolse un ruolo di primo piano nella fase di transizione dalla ‘prima’ alla ‘seconda’ Repubblica.

Nel contempo Segni aderì al Partito popolare italiano e, nel 1923, ne divenne consigliere nazionale. L’anno successivo fu candidato alla Camera dei deputati nel collegio sardo, risultando il primo dei non eletti. Durante la crisi seguita all’assassinio di Giacomo Matteotti (1924) prese parte al comitato delle opposizioni. Con l’inasprirsi del regime fascista, tuttavia, si dedicò quasi esclusivamente agli studi giuridici, ai problemi dell’università sassarese, all’avvocatura e alla gestione delle proprietà fondiarie.

Nel 1925, dopo aver vinto il concorso a cattedra sia per l’ateneo sassarese sia per quello cagliaritano, optò per il secondo, di cui divenne preside della facoltà giuridica. Nel 1929, però, si trasferì a Pavia, dove insegnò soltanto per un anno. Tornò quindi alla docenza di diritto commerciale a Sassari, dove fu preside per due bienni consecutivi. Insieme a Lorenzo Mossa diresse la rivista Studi sassaresi e fu direttore dell’Istituto giuridico.

Seguì da vicino i lavori per la riforma del codice di procedura civile: intervenne criticamente in particolare sul progetto Solmi, considerato come una manifestazione dell’autoritarismo processuale, e accettò sostanzialmente le linee ‘chiovendiane’ del progetto Grandi, elaborato in realtà da Piero Calamandrei, che manifestò il suo apprezzamento per un’ampia rassegna critica di Segni sulle opere processualcivilistiche dei giuristi tedeschi (Scritti giuridici, I, 1965, pp. 196-214). Nell’aprile del 1943, dinanzi agli universitari cattolici sassaresi, colse l’occasione per avanzare un attacco coraggioso al regime fascista, agli esasperati nazionalismi e alla ‘statolatria’. All’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 mostrò un’insospettata energia, divenendo di fatto (prima dell’arrivo di Emilio Lussu, nel 1944) il più autorevole esponente dell’antifascismo sardo. Fu tra i principali fondatori e il capo, sostenuto dall’episcopato sardo e in collegamento con Alcide De Gasperi e Giuseppe Spataro, della Democrazia cristiana (DC) isolana.

In quella fase scrisse sui giornali sardi una serie di articoli sull’ente Regione, in cui criticava il federalismo di marca azionista, ma soprattutto il centralismo delle destre e delle sinistre. Per Segni l’ente Regione era «un’unità naturale» impressa nel suolo italiano; una «realtà geografica, economica, se non anche etnica»; un «organo autonomo» e non un «nuovo organismo intermedio» che avrebbe appesantito la burocrazia statale; un «ente autarchico non statale», il quale in determinate materie (agricoltura, industria e commercio, ad esempio) si doveva sostituire allo Stato (Scritti politici, a cura di S. Mura, 2013, pp. 27-57).

L’8 ottobre 1943 era stato nominato dal comando militare alleato della Sardegna commissario straordinario per il governo amministrativo dell’Università di Sassari, carica che avrebbe mantenuto sino al 10 aprile 1945 per poi essere eletto rettore (si dimise nel 1951 perché diventato ministro della Pubblica Istruzione). Il 12 dicembre 1944 entrò a far parte del secondo governo Bonomi come sottosegretario del ministero dell’Agricoltura, guidato dal comunista Fausto Gullo. Si trattava, fra l’altro, di applicare il decreto di proroga dei contratti agrari (d.l. 3 giugno 1944 n. 146) e in particolare il decreto Gullo del 19 ottobre 1944 n. 279 sulle concessioni pluriennali di terre incolte a favore di contadini e associati. La convinta adesione alla politica governativa lo mise in contrasto con quei settori della DC, meridionale e sarda, che tutelavano gli interessi della grande proprietà.

Diventato ministro dell’Agricoltura il 14 luglio 1946, anche grazie ai risultati personali e della DC ottenuti nel collegio sardo alle elezioni del 2 giugno e al sostegno di personalità come Paolo Bonomi, si concentrò anzitutto sulla crescita della produzione, funzionale al miglioramento delle condizioni alimentari dell’Italia. Il primo tentativo di riforma che Segni cercò di portare avanti fu quello dei contratti agrari, su cui incontrò, tuttavia, la netta opposizione delle destre e di settori rilevanti della DC, e lo stesso De Gasperi raccomandò prudenza. Il fallimento di questa proposta legislativa accelerò i tempi dell’elaborazione della riforma fondiaria.

Già nel 1947 il pensiero di Segni aveva iniziato a definirsi. Il memorandum trasmesso al presidente del Consiglio il 21 settembre si era chiuso con un’accorata perorazione: «ti scongiuro di interessarti al problema della terra. Non dobbiamo mancare alle promesse fatte, alle nostre direttive sociali. Dobbiamo lavorare per risollevare le regioni del Sud arretrato, sollevare le condizioni dei braccianti agricoli, fornire la trasformazione della terra e la formazione della piccola proprietà» (Dipartimento di storia dell’Univesità di Sassari, Archivio Antonio Segni, Carteggio, f. 8, lettera di Segni a De Gasperi).

Nell’autunno del 1949 le lotte contadine, che si svilupparono soprattutto nel Mezzogiorno, spinsero il governo ad affrettare i tempi per il varo della riforma: il 2 dicembre Segni presentò al Senato il disegno di legge Provvedimenti per la valorizzazione dell’Altopiano della Sila, un territorio che presentava una particolare concentrazione della proprietà fondiaria assenteista. Il provvedimento, che sarebbe diventato la legge Sila (l. 230 del 21 maggio 1950), costituì la prova generale dell’avvio della riforma. Parallelamente, il 17 marzo 1950, alla Camera Segni inoltrò il disegno di legge Norme per la espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione dei terreni ai contadini, la vera e propria riforma fondiaria italiana, ispirata ai principi costituzionali (artt. 1, 3, 42, 44). Segni aveva elaborato in prima persona le norme di riforma, avvalendosi della collaborazione di diversi economisti agrari e fra questi Mario Bandini e Manlio Rossi-Doria. Fu De Gasperi che, contrario alla riforma agraria nazionale, lo esortò a concentrarsi in quelle regioni, in particolare meridionali, caratterizzate dalla diffusa presenza del latifondo. La ‘legge stralcio’ (l. 841 del 21 ottobre 1950) fu approvata dal Parlamento nel 1950, ma Segni, che lasciò il ministero dell’Agricoltura per la Pubblica Istruzione nel luglio del 1951, non poté seguirne direttamente l’attuazione.

Nei successivi governi si impegnò nella lotta contro l’analfabetismo, nell’edilizia scolastica e per il miglioramento dell’attività didattica. Non proseguì, però, l’opera riformatrice avviata dal suo predecessore, Guido Gonella. Tentò di attuare la riforma per gradi, ma incontrò forti resistenze, anche nei ministeri che avrebbero dovuto finanziare i provvedimenti. Se la sua proposta di sostituire l’esame di maturità con una prova di ammissione all’università non fosse stata respinta, quella legge avrebbe legato il suo nome a un cambiamento importante nella storia della scuola italiana. La sua azione, che pure raccolse diversi apprezzamenti anche dalle opposizioni perché meno attenta agli interessi ecclesiastici rispetto a quella di Gonella, non si rilevò in realtà tenace e coraggiosa.

Nel 1954 Segni fu chiamato presso l’Università di Roma a coprire la cattedra che era stata del suo maestro Chiovenda: insegnò diritto processuale civile ma ebbe anche un incarico di procedura penale. A Roma Segni si adoperò per la chiamata di Salvatore Satta, da tempo suo stretto conoscente e che continuò a frequentare allorché fu eletto al Quirinale.

Il 6 luglio 1955 divenne presidente del Consiglio dei ministri, alla guida di un governo di coalizione – con la DC, il Partito socialdemocratico italiano (PSDI), il Partito liberale italiano (PLI) e con l’appoggio esterno del Partito repubblicano italiano (PRI) –, che sarebbe stato uno dei più importanti nella storia della ‘prima’ Repubblica. L’ammissione dell’Italia all’ONU e la firma dei Trattati di Roma, il 25 marzo 1957, consolidarono il ruolo internazionale dell’Italia. Per Segni la strada dell’integrazione europea, in un mondo governato dalle grandi potenze, era la sola possibile. Mostrò un forte e convinto europeismo e si prodigò in particolare per rafforzare ulteriormente i rapporti con la Germania federale. Nella complicata crisi di Suez del 1956 si era impegnato a difendere gli interessi economici dell’Italia, tenendo sempre presente la necessità di salvaguardare la solidarietà atlantica. Con Amintore Fanfani ebbe divergenze di vedute: il segretario della DC riteneva, infatti, che il governo dovesse avere un atteggiamento più critico nei confronti delle scelte anglo-francesi. Allargarono ulteriormente le distanze fra Segni e Fanfani i fatti di Ungheria del 1956. Contrario a un intervento legislativo anticomunista, minacciò, in polemica con il segretario della DC, le dimissioni. Nel suo diario annotò: «I fatti d’Ungheria destano rumore e sono oggetto purtroppo di speculazioni politiche repressive. [...] Mi rifiuto di specularvi ancora su» (Diario (1956-1964), a cura di S. Mura, 2012, pp. 101 s.).

Durante il suo governo il processo di attuazione della Costituzione fece un significativo passo avanti: fu approvata la legge istitutiva del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, il disegno di legge sul Consiglio superiore della magistratura superò l’esame del Senato, ma soprattutto entrò in funzione la Corte costituzionale. «Il primo fatto di storica importanza – gli scrisse l’amministrativista Mario Bracci – è che tu hai dato vita alla Corte costituzionale. Da solo non ci saresti riuscito, ma senza la tua fermissima volontà di attuare questo punto del tuo programma, che da otto anni era un vano punto dei programmi di tutti i ministeri, che si sono succeduti, nessuno vi sarebbe riuscito» (Dipartimento di storia dell’Univesità di Sassari, Archivio Antonio Segni, Attività politica 1955-57, f. 4: lettera di Bracci a Segni, 26 maggio 1957).

Il suo governo entrò in crisi per una serie di cause: il conflitto con il presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, il quale aveva una visione della politica estera italiana diversa da quella del ministro degli Esteri, Gaetano Martino, creò forti tensioni. Ancora una volta si rivelò un grande ostacolo la riforma dei contratti agrari: insoddisfatti dalle disposizioni sulla ‘giusta causa’, i liberali minacciarono più volte di ritirare il sostegno al governo, così come la Confederazione italiana sindacati lavoratori (CISL) di posizionarsi contro di esso. Dopo il passaggio del PRI all’opposizione, il 5 maggio 1957 anche il PSDI uscì dall’esecutivo e, l’indomani, Segni presentò le dimissioni.

Il bilancio dei ventidue mesi di governo era comunque positivo. «Nell’interpellare, ieri, autorevoli amici» – scrisse a Segni il sociologo Achille Ardigò – «ho trovato in tutti (da Pastore a Fanfani, dagli amici della “Base” ad Andreotti, a Oliva, a Giacchetto ecc.) una sincerità di consensi che andava ben oltre ogni giudizio o convenienza politica. Vorrei anche aggiungerle che non siamo in pochi ad aver capito che non sono mancati i suoi tentativi per un superamento delle ormai troppo rigide strutture del quadripartito: e, d’altra parte, il primo periodo del suo recente governo è, finora, insuperato per la coraggiosità [sic!] delle posizioni» (Dipartimento di storia dell’Univesità di Sassari, Archivio Antonio Segni, Attività politica 1957-58, f. 4: lettera di Ardigò a Segni, 15 luglio 1957).

Nelle elezioni politiche del 1958 Segni non riscosse il successo sperato. Nel collegio sardo un candidato cagliaritano, Antonio Maxia, gli sottrasse il primato delle preferenze. Ciò, se non gli precluse l’ingresso nel secondo governo Fanfani, indebolì la sua posizione. Segni, che ambiva al ministero degli Esteri, ottenne il ministero della Difesa e la vicepresidenza del Consiglio. In un momento in cui l’Italia sembrava spostarsi leggermente a sinistra, cercò di interpretare un ruolo di garanzia e di continuità: con determinazione si impegnò per rappresentare gli interessi delle forze armate (accrescere salari e pensioni, potenziare le dotazioni di attrezzature e armi); accettò le basi missilistiche per le armi atomiche, convinto che fossero uno strumento necessario per assicurare la difesa dell’Italia più che un pericolo che esponeva il Paese a possibili rappresaglie.

Dopo le dimissioni di Fanfani da presidente del Consiglio e segretario del partito, il 15 febbraio 1959 si costituì il secondo governo Segni, un monocolore democristiano con il sostegno esterno dei liberali. Senza una maggioranza compatta, e soccorso più volte dai voti ingombranti del Movimento sociale italiano (MSI), Segni tentò di rafforzare la solidarietà atlantica e mostrare agli alleati l’affidabilità dell’Italia, in un momento di tensione per la questione di Berlino e l’ambizione della Francia di ritagliarsi un nuovo ruolo internazionale. I segnali più confortanti, però, arrivavano dall’economia: l’industria e il commercio si espandevano; la disoccupazione diminuiva; l’Italia cresceva di oltre il 6%, un ritmo che la collocò fra i Paesi più dinamici del mondo.

Il governo, tuttavia, aveva intrapreso una direzione opposta rispetto a quella che intendeva perseguire il partito. Se il primo era orientato a destra, il secondo apriva a sinistra. Il segretario della DC, Aldo Moro, eletto anche grazie al sostegno di Segni, si muoveva per una nuova stagione politica. Il segretario del PLI, Giovanni Malagodi, ufficialmente perché non aveva condiviso alcune scelte governative – tra cui il tentativo di istituire le Regioni a statuto ordinario – ma anche per evitare di inasprire ulteriormente i malumori interni al suo partito, ritirò l’appoggio al governo. Segni, senza neppure considerare l’ipotesi di proseguire con i voti missini, annunciò le dimissioni. Il suo nome, comunque, rimase fra quelli più accreditati per la formazione di un nuovo governo: il presidente della Repubblica, infatti, gli conferì l’incarico, ma egli condusse le trattative con poca determinazione. La segreteria del suo Partito gli aveva raccomandato di costruire un governo di coalizione (DC, PRI e PSDI) con un programma di apertura ai socialisti. Le gerarchie vaticane, in particolare i cardinali Giuseppe Siri e Domenico Tardini, si espressero invece contro un governo orientato a sinistra, minacciando persino di creare un altro partito dei cattolici italiani. Il 21 marzo 1960 Segni rinunciò all’incarico.

Nel successivo governo, quello di Fernando Tambroni che ottenne l’appoggio anche del MSI, divenne ministro degli Esteri, ma l’esecutivo ebbe vita breve e cadde all’indomani dei ‘fatti di Genova’, che suscitarono un forte sentimento antifascista. Segni comunque fu confermato agli Esteri nel nuovo governo Fanfani e vi rimase sino al 6 maggio 1962. In particolare, si sforzò di consolidare i rapporti con gli alleati senza tentennamenti o rivendicazioni di maggiore autonomia: così rappresentò l’alternativa rassicurante all’intraprendenza di Fanfani. Fu il guardiano dell’atlantismo italiano nella stagione dell’apertura a sinistra, il ministro pronto a frenare, se non a bloccare, qualsiasi apertura coraggiosa verso il mondo sovietico (accompagnò Fanfani a Mosca in uno storico viaggio nell’agosto del 1961). Un’attenzione speciale Segni ebbe per l’integrazione europea, convinto che il processo avrebbe dovuto fare passi avanti per rafforzare la coesione fra gli Stati ed evitare che prevalessero i nazionalismi. E tuttavia Segni assunse un ruolo di primo piano soprattutto nella questione dell’Alto Adige, rappresentando gli interessi italiani con abilità e prudenza, anche in sede ONU.

Il 6 maggio 1962, al nono scrutinio, fu eletto presidente della Repubblica. Il suo nome come possibile candidato circolava già dal 1955, ma fu necessaria un’attenta pianificazione perché le resistenze interne alla DC e tra gli alleati (il PSDI proponeva la candidatura di Giuseppe Saragat) non vanificassero l’elezione, avvenuta grazie ai voti determinanti dei missini. Anche se aveva inaugurato il suo mandato dichiarando «non a me spetta determinare gli indirizzi politici nella vita dello Stato» (Atti parlamentari, Camera-Senato, seduta comune dell’11 maggio 1962, p. 71), si impegnò perché il centro-sinistra avesse un carattere moderato. Un’area assai preoccupata per l’ingresso del Partito socialista italiano (PSI) nel governo – che comprendeva il governatore della Banca d’Italia Guido Carli, una parte dell’alta burocrazia, dell’alta magistratura, dei vertici delle forze armate, delle gerarchie vaticane, del mondo economico e finanziario – lo considerò un riferimento. Il suo potere di condizionamento crebbe ulteriormente all’indomani delle elezioni politiche del 1963, ma, alla fine dell’anno, Moro e il segretario del PSI Pietro Nenni vararono il primo centro-sinistra organico.

La crisi dell’estate del 1964 gettò un’ombra sulla sua opera. Alle accuse dell’Espresso, pubblicate nel 1967, di avere preparato un colpo di Stato insieme al generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, ex capo del Servizio informazioni forze armate (SIFAR), seguì una Commissione parlamentare d’inchiesta e poi ancora diverse indagini più o meno dirette della magistratura, come quella seguita alla querela di De Lorenzo contro il direttore dell’Espresso Eugenio Scalfari e il giornalista di quel periodico Lino Jannuzzi. Soltanto recentemente la storiografia ha ridimensionato il cosiddetto golpe (Franzinelli, 2014): il Piano Solo (così denominato perché riferito ‘solo’ all’Arma dei carabinieri) conteneva certamente misure inquietanti, come l’internamento di cittadini ritenuti pericolosi, ma l’obiettivo del presidente non era di instaurare un regime autoritario. Il suo intento era di garantire l’ordine pubblico, contro ogni tentativo – in realtà assai improbabile – di presa del potere da parte del PCI. Il 7 agosto 1964, durante un colloquio con Moro e Saragat, fu colpito da un collasso che si rivelò un grave e irreparabile danno al cervello. Sostituito dal presidente del Senato Cesare Merzagora, Segni si dimise il 6 dicembre dello stesso anno. Gli successe alla presidenza della Repubblica Giuseppe Saragat.

Morì a Roma il 1° dicembre 1972.

Scritti, articoli e discorsi. Scritti giuridici, I-II, Torino 1965; Diario (1956-1964), a cura di S. Mura, Bologna 2012 (con nota biografica alle pp. 7-13); Scritti politici, a cura di S. Mura, Cagliari 2013.

Fonti e Bibl.: L’Archivio Antonio Segni è a Sassari, presso il Dipartimento di Storia dell’Università, e documenti sono presenti nell’Archivio storico di quell’Università, nonché a Roma nell’Archivio storico dell’Istituto Luigi Sturzo, nell’Archivio storico del Senato della Repubblica e nell’Archivio storico della Presidenza della Repubblica. Inoltre, Roma, Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei ministri, Consiglio dei ministri, Verbali; Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione generale istruzione universitaria, Fascicoli professori ordinari (III versamento), b. 428, ad nomen; Università La Sapienza, Archivio storico, f. 4884, ad nomen; Atti e documenti della Democrazia cristiana: 1943-1967, I-II, Roma 1968.

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