VIVALDI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 100 (2020)

VIVALDI, Antonio (Lucio). – Nacque a Venezia il 4 marzo 1678, secondogenito di Giovanni Battista (1655 ca.-1736)

Michael Talbot

e da Camilla Calicchio.

Morta infante la prima figlia, degli altri otto fratelli e sorelle minori nessuno conseguì gran che nella vita: Cecilia (1683-1767) sposò però un copista di musica, Giovanni Antonio Mauro, che dalla metà degli anni Dieci fu il principale amanuense di Vivaldi; fino a non molto tempo fa la sua mano è stata spesso scambiata per quella del padre di Vivaldi. Il quale, di professione barbiere, era anche un abile violinista, tanto che fu assunto nell’orchestra di S. Marco. Per il colore dei capelli era noto con l’appellativo di Giovanni Battista ‘Rossi’: un’eco di tale nomignolo risuona nel soprannome «il Prete rosso» spesso associato ad Antonio, che dal genitore aveva ereditato il rutilismo (la prima occorrenza documentata del soprannome è tardiva, negli atti di un processo a carico del fratello Giuseppe, nel 1729).

Da ragazzo Vivaldi imboccò una doppia carriera, musicale e clericale. Dal padre violinista dovette ricevere il primo (e forse l’unico) addestramento strumentale. Non si sa chi lo abbia avviato alla composizione, ma il fatto che Giovanni Battista Rossi risulti autore di un’operina allestita a Venezia nel 1688 (La fedeltà sfortunata) fa ritenere che non gli mancassero le competenze per trasmettere al figlio almeno i rudimenti dell’arte. Tra la tonsura (giugno 1693) e l’ordinazione sacerdotale (marzo 1703), Vivaldi fu educato nelle scuole sestierali della città. Era comune che i figli maggiori di famiglie povere puntassero al sacerdozio per poter fruire di un’educazione, un reddito e un certo riconoscimento sociale: tanto più a Venezia, dove il servizio reso a una chiesa poteva sostituire il requisito di un patrimonium ecclesiasticum. Peraltro in Venezia al prete secolare (o ‘abate’) era concesso di esibirsi in pubblico come musicista professionista, anche in teatro.

La famiglia d’origine aveva una ragione in più per assicurare al giovane un mestiere non meccanico. Sin dalla nascita Antonio patì di «strettezza di petto» (così in una sua lettera del 1737; White, 2013, p. 235), presumibilmente una bronchite asmatica, cronica, che lo condizionò nella mobilità e ne acuì la dipendenza dai congiunti, in particolare nei viaggi. La proverbiale agilità delle dita di Vivaldi nel suono del violino può quasi essere vista, in chiave psicologica, come una compensazione della debilità degli arti inferiori; e alla medesima disabilità si possono forse ricondurre certi tratti di un’indole volubile, non esente da tendenze paranoidi.

Prima che nel 1711, ad Amsterdam, venissero in luce i dodici Concerti dell’ Op. III, sotto il titolo L’estro armonico – la sua prima, capitale raccolta di composizioni strumentali –, Vivaldi operò nel cono d’ombra del genitore. La prima sortita di cui si abbia notizia risale alla vigilia di Natale del 1696, come violinista soprannumerario in S. Marco. Poté affiancare il padre anche in alcuni impegni sulla Terraferma. In seguito, i loro ruoli pubblici si capovolsero; ma sullo sfondo Giovanni Battista continuò a guidare e ad assistere il figlio, che solo nel 1733 si emancipò legalmente dal padre.

Nel settembre del 1703 Vivaldi fu assunto tra gli insegnanti di musica nell’ospedale della Pietà, l’opera di carità per trovatelli sovvenzionata dal governo veneziano.

Al raggiungimento dell’età adulta, i trovatelli maschi, ricevuta un’educazione di base e un avviamento professionale, lasciavano la Pietà; le femmine invece continuavano a risiedervi in permanenza, a meno che trovassero marito o si monacassero. Un gruppo appositamente selezionato e addestrato di quaranta e più donne e ragazze, il cosiddetto cor’, dava regolari esibizioni vocali e strumentali nelle funzioni della cappella della Pietà: il che fruttava all’istituto donazioni e lasciti, la loro conclamata eccellenza musicale attirando un flusso costante di visitatori, stranieri e nobili in primis.

A Vivaldi, in quanto ‘maestro di violino’, competevano la docenza delle suonatrici di strumenti ad arco di grado avanzato, le prove d’orchestra, la fornitura regolare di nuovi brani strumentali. Nel contempo gli spettava il beneficio (la cosiddetta mansione) della messa da celebrare per un benefattore defunto, ma nel 1706 vi dovette rinunciare per via degli accessi d’asma. Prima che uscisse L’estro armonico aveva fatto stampare in città due libri di musica strumentale: uno di Sonate a tre (Op. I, 1705), l’altro di Sonate per violino (Op. II, 1709). Entrambi ben accolti, lasciavano però solo vagamente presagire le esplosive novità dell’Op. III. Nell’autunno del 1705 gli venne offerta l’occasione di comporre parte delle musiche di un’opera, Creso tolto a le fiamme (libretto di Aurelio Aureli), allestita nel teatro di S. Angelo (White, 2013, pp. 50-54). La circostanza palesa le mire nutrite da Vivaldi compositore: non pago di essere un mero violinista-compositore nella scia di Arcangelo Corelli, ambiva al rango di un compositore ‘universale’ (paragonabile, poniamo, a Georg Friedrich Händel). Qualche critico opinò che tale aspirazione a eccellere nei molti e diversi generi della musica tanto strumentale quanto vocale fosse al tempo stesso presuntuosa e deleteria. Il flautista e teorico Johann Joachim Quantz (1752), per esempio, nell’elogiare i primi Concerti di Vivaldi annotò che praticando la musica teatrale era infine scaduto in una certa qual «capricciosa frivolezza» (p. 309).

In questo primo decennio Vivaldi iniziò ad attrarre committenti, acquirenti e studenti privati, sia locali sia forestieri: tipico l’esempio dei dedicatari delle prime due opere a stampa, il nobiluomo bresciano Annibale Gambara e il re di Danimarca e Norvegia, Federico IV, in visita a Venezia. Vivaldi sempre oscillò tra i vantaggi di un impiego fisso (come quello della Pietà), che gli garantiva un reddito sicuro ma gli poneva dei limiti, e le occasioni dell’attimo, stimolanti e remunerative sì, ma anche effimere. Per tutta la carriera tentennò tra queste due opzioni, ma a conti fatti lo spirito imprenditoriale lo indusse a preferire una rischiosa indipendenza anziché i legami sicuri.

Nel febbraio del 1709 la sua carriera subì una prima battuta d’arresto quando, in occasione della riconferma annua dei ‘ministri’, i direttori della Pietà decisero di non rinnovargli l’incarico, più per contenere i costi che non per riserve circa l’esercizio della didattica o la condotta morale. Ma il compositore tornò a ricoprire l’incarico già nel 1711. E il 1713 fu per lui un annus mirabilis: si fece valere in generi diversi, con la prima uscita di un’opera e di un oratorio integralmente composti di suo pugno, e le sue prime musiche da chiesa su vasta scala.

L’opera, Ottone in villa (libretto di Domenico Lalli), venne data in maggio a Vicenza. La scelta di un palcoscenico fuori Venezia era conforme all’intento di tenere il proprio debutto al riparo dagli sguardi censori dei concittadini. Lo spettacolo ebbe successo e Vivaldi, prima di tornare in Laguna, lo consolidò con un oratorio, La vittoria navale. Più tardi, nel corso dell’anno, affiancò il padre nel sobbarcarsi la gestione finanziaria e musicale di un teatro veneziano, il S. Angelo, relativamente piccolo, ma governato da un consorzio di nobili che concedeva ampia libertà d’azione a impresari, librettisti e musicisti. In tal modo poté disporre di un’invidiabile e quasi totale capacità di controllo, che gli permise di disseminare nel cartellone parecchie opere sue, tra l’una e l’altra revisione di partiture altrui e opere d’altri compositori. Nell’estate del 1718, con lo Scanderbeg (libretto di Antonio Salvi) composto per la Pergola di Firenze, cominciò a ricevere commissioni di partiture operistiche dal resto d’Italia: un filone che continuò poi per il resto di sua vita. Non c’è dubbio che Vivaldi trovasse maggior soddisfazione e tornaconto nella veste dell’impresario e dell’operista di successo che non in quella del virtuoso itinerante di violino, talché nel corso dei due decenni seguenti questa seconda attività cedette a mano a mano il posto alla prima.

Alla Pietà, intanto, Francesco Gasparini, maestro di coro titolare, si era preso un’aspettativa che inopinatamente si trasformò in congedo definitivo. Ben presto la Pietà si trovò a dover coinvolgere Vivaldi, in via temporanea, nel principale adempimento del maestro di coro: fornire nuove musiche vocali da chiesa e, di quando in quando, un oratorio. Sino ad allora, l’unica sua composizione in questo genere era stato lo Stabat mater (1712) scritto per una chiesa di Brescia. Di lì a quando partì da Venezia alla fine del 1717 Vivaldi adempì assiduamente questo ruolo interinale, con piena soddisfazione del pubblico. Da quel momento in poi fu richiestissimo come musicista da chiesa e le sue composizioni ebbero vasta circolazione Oltralpe. Nel 1717 l’Accademia filarmonica di Bologna gli commissionò un Dixit Dominus o Magnificat: ma pare che il progetto non abbia avuto seguito.

Al successo dell’Op. III tennero presto dietro altre raccolte strumentali, tutte pubblicate ad Amsterdam presso l’editore Roger (lo stesso dell’Op. III): Op. IV (1716; dodici Concerti per violino), Op. V (1716; quattro sonate per violino e due sonate a tre) e Op. VI (1719; sei Concerti per violino). L’Op. VII (1720) consta in parte di opere spurie: già a quest’altezza la fama di Vivaldi induceva editori e copisti, vuoi per ignoranza vuoi per calcolo, a mandar fuori sotto il suo nome composizioni altrui.

Nella primavera del 1716 l’impiego alla Pietà attraversò un’altra crisi, ma infine Vivaldi poté coronare il sogno, a lungo covato, di una promozione da maestro di violino a ‘maestro de’ concerti’. Già nella primavera del 1718 abbandonò però per scelta propria questa posizione, per diventare «maestro di cappella da camera» del governatore tedesco di Mantova, il principe Filippo di Assia-Darmstadt.

In questo ruolo Vivaldi era tenuto in particolare a fornire musiche vocali, opere teatrali incluse. Il biennio o poco più trascorso a Mantova si rivelò un successo solo parziale. Produsse musica in discreta quantità, ma lo infastidì il controllo esercitato dalla corte sulla gestione teatrale ed ebbe scarse occasioni di varare opere nuove. Su un versante più positivo, invece, il periodo mantovano confermò un graduale cambio d’indirizzo nello stile musicale e un riorientamento delle mire imprenditoriali, dalla committenza e dal sistema teatrale italiano verso i territori dell’impero: si trattò di uno sviluppo vivificante. Questa ‘germanofilia’ si era peraltro già manifestata in alcune musiche composte a intenzione di un ristretto gruppo di musicisti da camera – tra loro il discepolo e amico Johann Georg Pisendel, virtuoso di violino – venuti a Venezia nel 1716 al seguito del principe elettore di Sassonia, Federico Augusto il Forte.

Ritornato a Venezia nel 1720, in breve tempo ristabilì la sua posizione dominante. Quanto al principe Filippo, non pare che si sia soverchiamente risentito per la dipartita di Vivaldi da Mantova: il compositore conservò il titolo e continuò all’occasione a fornire musiche sue al governatore. Fu uno dei principali bersagli della satira Il teatro alla moda (1720) di Benedetto Marcello: a molti dovette parere sotto sotto un complimento mascherato. Il nuovo decennio fu il più frenetico quanto ai viaggi e il più ferace quanto alla composizione. Nelle stagioni di Carnevale del 1723 e del 1724 ebbe scritture di spicco nel teatro Capranica di Roma. Tra le altre città italiane dove concertò le proprie opere vi furono Milano, Mantova, Reggio e Firenze. In generale, preferiva lavorare con cantanti malleabili anziché con i grandi divi. Nel 1723 la Pietà lo riassunse, ma stavolta fu lui a dettare le condizioni: si impegnò a fornire in tutto e per tutto due concerti al mese e a tenere le prove quando si trovava in città. L’accordo rimase in vigore fino a fine 1729.

Una nuova presenza importante nella vita di Vivaldi comparve alla metà del decennio: Anna Tessieri, contralto, meglio nota come Anna Girò. Era nata a Mantova nel 1710 o poco prima, ed è possibile che Vivaldi l’avesse incontrata fin da bambina negli anni mantovani. Si stabilì a Venezia nel 1722 e debuttò nel 1723. Nel 1726 cantò nella Dorilla di Vivaldi. Da allora fu la prima donna d’elezione per Vivaldi e i due furono spesso visti assieme. In una missiva del 16 novembre 1737 al suo patrocinatore ferrarese Guido Bentivoglio d’Aragona dichiarò che «far l’opera senza la Girò non è possibile, perché non si può ritrovare simile donna» (White, 2013, p. 235). Presa alla lettera, l’affermazione è iperbolica – la cantante comparve anche in opere d’altri compositori e Vivaldi mandò in scena opere anche senza di lei – ma riflette esattamente il forte legame tra i due, poi vividamente descritto da Carlo Goldoni, che nel 1735 incontrò Vivaldi per discutere gli aggiustamenti da fare nella Griselda di Apostolo Zeno.

Non è invece comprovata la diceria di una relazione erotica, già ventilata all’epoca e ancor oggi da taluno accreditata. Come Vivaldi stesso sottolineò, musicista e cantante non convissero, e la sorellastra di Anna, Paolina, sempre la accompagnava a mo’ di chaperon.

I due maggiori libri strumentali degli anni Venti, pubblicati ad Amsterdam da Michel-Charles Le Cène, confermano la ‘svolta nordica’ di Vivaldi. I dodici Concerti dell’Op. VIII (1725), aperti con Le quattro stagioni, recano un titolo altisonante, Il cimento dell’armonia e dell’inventione. Sono dedicati al conte boemo Wenzel von Morzin, di cui Vivaldi era già da parecchi anni al servizio come «maestro di musica in Italia». I Concerti dell’Op. IX, La cetra (1727), puntavano ancor più in alto, essendo dedicati a Carlo VI. Nel settembre del 1728 l’imperatore venne a ispezionare il nuovo porto franco di Trieste e in viaggio attraverso l’Austria Interiore, a Lipizza, incontrò Vivaldi e un piccolo gruppo di musicisti veneziani, ch’egli regalò di medaglie commemorative. Vivaldi ne approfittò per presentare all’imperatore una seconda raccolta di Concerti per violino, manoscritta, che in parte coincideva con quella già stampata, sotto lo stesso titolo. Le opere dalla X alla XII apparvero ad Amsterdam nel 1729 a spese dell’editore Le Cène (così secondo i frontespizi) e perciò non recano dediche: si trattò di una raccolta di complessivi diciotto Concerti, pubblicata in tre libri. L’Op. X fu la prima in Europa che contenesse soltanto Concerti per flauto traverso, uno strumento che appunto in quel torno d’anni stava venendo in moda.

Alla fine del 1729 Vivaldi e il padre (grazie a un congedo speciale dall’orchestra di S. Marco) visitarono i territori asburgici, in particolare Vienna e Praga, dove presero contatto con committenti vecchi e nuovi. La musica popolare boema colpì Vivaldi, che in un Concerto per archi (denominato Conca) volle imitare il suono della conchiglia utilizzata nei riti contadini per invocare o scongiurare la pioggia. Nel maggio del 1731 i due fecero ritorno a Venezia. Nel complesso per il compositore gli anni Trenta furono segnati dal conflitto tra arte e guadagno. Nel decennio precedente, l’avvento dei compositori napoletani (e dei drammi metastasiani) sulle scene teatrali di Venezia aveva introdotto molte e notevoli innovazioni stilistiche, con le quali i compositori locali della generazione di Vivaldi si dovettero misurare per non perdere il favore del pubblico. Vivaldi si adoperò per tenersi aggiornato dei nuovi sviluppi, ma lo fece a mano a mano e con esiti non sempre convincenti. Non a caso incorporò sempre più spesso nelle sue partiture operistiche arie di compositori più giovani, imboccando per così dire una scorciatoia sulla via del gusto moderno. Smise di inviare le sue musiche agli editori e avviò invece un intenso smercio di partiture manoscritte vendute a una clientela disposta ad accettare i suoi metodi commerciali disinvolti ed esosi.

Ci furono contraccolpi anche nella sfera personale. Dapprima fu la morte del padre, nel 1736, a destabilizzare la sua vita. Poi il fallito tentativo del nipote Pietro Mauro di affermarsi come tenore a capo di una compagnia operistica che si esibiva nei piccoli teatri del Nord-Est: l’effimera avventura del giovane (divenuto poi un apprezzato copista di musica) naufragò in parte per via di uno scandalo sessuale che si ripercosse anche sulla reputazione morale dello zio.

Nel 1735 Vivaldi poté riconquistare la sua posizione di ‘maestro de’ concerti’ alla Pietà, con la promessa che si sarebbe allontanato meno spesso da Venezia. Anche dopo che nel 1738 ebbe perso quest’incarico, riuscì, dall’anno dopo, a vendere un certo numero di musiche vocali da chiesa all’istituzione, nell’interregno tra due maestri del coro.

Stava inoltre perdendo un po’ la mano come impresario indipendente, attività divenuta via via più vitale per assicurarsi la messinscena delle proprie opere in un contesto teatrale altamente competitivo. Tra il 1737 e il 1739 tre tentativi di allestire un’opera a Ferrara si rivelarono fallimentari, come documentano le lettere a Bentivoglio.

Nel 1737 sorsero dei dissidi circa il repertorio proposto e gli obblighi contrattuali sulle spese di copiatura. Nel 1738 il cardinal Tommaso Ruffo, arcivescovo di Ferrara, vietò a Vivaldi di gestire e concertare l’opera di persona, per motivi di decoro sacerdotale, costringendolo a valersi di sostituti che non si dimostrarono all’altezza. Nel 1739 la prima opera in cartellone fu accolta così male che la seconda venne annullata.

Tuttavia si concretarono progetti alternativi che gli permisero di restare a galla, tra di essi la richiesta di comporre un sontuoso Concerto per celebrare il centenario dello Schouwburg, il teatro di Amsterdam (1738).

Nell’estate del 1740 il compositore, ormai avanti con gli anni, volle intraprendere un altro viaggio Oltralpe. Dopo un’ultima vendita di concerti alla Pietà partì per Vienna: si è talvolta ritenuto che cercasse una sistemazione a corte; in realtà, puntava a dirigere una o più opere nel teatro di città, il Kärntnertortheater. Il progetto sfumò per la morte inattesa di Carlo VI in ottobre e la conseguente chiusura dei teatri: Vivaldi dové contentarsi di smerciare le sue composizioni a un pugno di nobili committenti, unica sua fonte di reddito.

Morì il 27 luglio 1741 nel suo alloggio viennese, vittima, secondo il necrologio, di un «innerer Brand» (un’infiammazione interna; White, 2013, pp. 266 s.).

Fu sepolto in un cimitero rionale. Non poté dunque assistere alla ripresa dell’opera L’oracolo in Messenia (data a Venezia nel 1737, derivata dalla Merope di Zeno), alla riapertura del teatro nel gennaio del 1742.

Dopo un periodo di popolarità pressoché universale negli anni Dieci l’apprezzamento di Vivaldi e della sua musica si polarizzò. In Italia, dove il fulcro dell’interesse si concentrava sulle opere teatrali e le altre composizioni vocali, il musicista fu a volte criticato per le pretese eccessive e la negligenza nei doveri clericali; seppe però anche sfruttare lo status sacerdotale nei rapporti d’affari e nelle cause legali, e non esitò a esibire un’ostentata pietà nelle sue private devozioni, come racconta Goldoni. Non passarono inosservati certi tratti eterodossi nel suo linguaggio musicale né la propensione a riciclare le stesse pagine.

In Inghilterra, dove i Concerti dell’Op. III assursero immediatamente al rango di classici, mentre le sue pagine più descrittive non furono gran che stimate, fu visto come un corruttore più che continuatore dell’eredità di Corelli. Viceversa i francesi considerarono l’Op. VIII, con Le quattro stagioni, la sua composizione più caratteristica (tanto più in quanto – cosa rara per un musicista italiano – rispondeva all’ideale francese dell’‘imitazione della natura’); e lo considerarono più un compagno d’armi che non un contrapposto di Corelli. All’apice della sua popolarità musicale, il Mercure de France (1725, p. 1418) vide in lui «le plus habile compositeur qui soit à Venise». Alle composizioni di circostanza commissionategli negli anni Venti dall’ambasciatore francese a Venezia seppe conferire un seducente, ancorché fittizio, spolvero francese. Furono però i musicisti dell’area tedesca, tanto professionisti quanto dilettanti, i più assiduamente esposti all’influsso di Vivaldi e i più calorosamente responsivi alla sua musica, in tutti i generi.

La personalità impetuosa di Vivaldi e la sua energia creativa – la «furie de composition», la qualificò esterrefatto un viaggiatore francese nel 1739 (De Brosses, 1799, I, p. 193) – sono ben catturate nelle effigi pervenute. Al di là della magistrale caricatura che ne schizzò Pier Leone Ghezzi a Roma nel 1723, un ritratto indiscutibilmente autentico è quello inciso da François Morellon La Cave, utilizzato sul frontespizio dell’Op. VIII, Il cimento. Più controversa è l’identificazione di un ritratto a olio del Museo della musica di Bologna, che raffigura un violinista-compositore: la corrispondenza con l’incisione in parecchi dettagli fa sospettare che i due ritratti possano rifarsi a una fonte comune, finora irreperita.

L’influsso di Vivaldi sui contemporanei fu enorme. I suoi Concerti statuirono definitivamente la struttura in tre movimenti e la forma a ritornello; elevarono il quoziente di virtuosismo, in particolare nei concerti per il suo strumento, il violino; e diversificarono lo spettro delle combinazioni strumentali. Su questo terreno l’orchestra della Pietà gli offrì un laboratorio sperimentale d’eccezione, con un’ampia gamma di strumenti solisti d’ogni specie, anche rari ed esotici: violino, violino modificato (‘violino in tromba marina’), viola d’amore, viola di gamba (di più tipi), violoncello, mandolino, liuto, tiorba, salterio, clavicembalo, organo, flauto diritto (di più tipi), flauto traversiere, flagioletto, oboe, clarinetto, chalumeau (di più tipi), fagotto, tromba, corno, timpani. Nella musica da chiesa incrementò il contributo della componente strumentale, mentre nelle opere teatrali introdusse un seducente stile faux-naïf per i ruoli minori o pastorali. Più in generale, la sua musica valorizzò l’immediatezza espressiva e una quasi provocatoria semplicità (per esempio nei passi in cui l’orchestra è condotta all’unisono), che da allora entrò a far parte del corredo comune del linguaggio musicale. Sarebbe tuttavia una grossolana semplificazione parlare di una ‘fuga dal contrappunto’: Vivaldi fu anche un contrappuntista provetto, capace di concepire fughe poderose se il contesto lo richiedeva. Il più illustre compositore direttamente influenzato da Vivaldi fu Johann Sebastian Bach, che attorno al 1713 trascrisse per la tastiera svariati suoi concerti: ma furono ben pochi i compositori coevi che, desiderosi di mettersi à la page, ne abbiano disdegnato le innovazioni.

Nei decenni dopo la sua morte, la musica di Vivaldi scomparve dal repertorio corrente quasi dappertutto, fuorché in Inghilterra.

La sua indole e la sua musica furono vieppiù circonfuse di un’aura mitica, in particolare sotto l’etichetta del ‘cattivo prete’. Una prima reviviscenza ottocentesca si ebbe nella scia della riscoperta di Bach e si limitò dapprima alla comparazione tra gli originali, considerati intrinsecamente inferiori, e le trascrizioni del compositore tedesco. Lo studio della vasta collezione di musiche vivaldiane conservate nella biblioteca reale di Sassonia (l’odierna Sächsische Landesbibliothek di Dresda), per lo più musiche strumentali composte all’epoca della visita di Pisendel a Venezia, favorì una riconsiderazione dei suoi concerti e della sua scrittura strumentale e dettò al musicologo Arnold Schering (1905) un giudizio storico-critico pertinente: «Vivaldi fu per lo sviluppo del Concerto violinistico un esempio tanto tassativo quanto lo fu Corelli per la Sonata» (p. 96). La successiva pietra miliare nella rivalutazione di Vivaldi si ebbe negli anni Venti, quando una parte ingente dell’archivio personale del compositore, perlopiù stesure di prima mano, approdò alla Biblioteca nazionale universitaria di Torino grazie alla donazione di due lotti complementari, intestati a Mauro Foà e Renzo Giordano: si tratta di materiali che già poco dopo la morte di Vivaldi erano passati per una complessa trafila di acquisizioni e legati successivi (cfr. A. Basso, in Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, 1987, pp. IX-LXXVI). D’un tratto, questo recupero moltiplicò esponenzialmente la quantità di composizioni note di Vivaldi, consentì di scrutinarne i processi creativi, e soprattutto portò in luce un’insospettata mole di musiche vocali d’ogni specie, compresi i generi profani della cantata e della serenata.

Poco fu fatto per pubblicare questo patrimonio finché nel 1947 non venne fondato l’Istituto italiano Antonio Vivaldi; ma nello stesso decennio apparvero due monografie importanti sulla vita e l’opera del compositore, a firma di Mario Rinaldi e Marc Pincherle. Da allora le indagini sulla vita e l’opera di Vivaldi, le esecuzioni e le registrazioni di musiche sue, la sua nomea nel novero dei compositori cosiddetti barocchi, e in particolare la conoscenza della sua produzione teatrale sono venute crescendo senza posa. In questo processo è stato decisivo l’approntamento di cataloghi analitici sempre più completi e accurati. Nell’edizione più recente il catalogo Ryom (2018) registra più di ottocentoventi composizioni autentiche e il loro numero è in continuo aumento.

Fonti e Bibl.: la bibliografia critica su Vivaldi, assai vasta, viene vagliata annualmente nelle Informazioni e Studi vivaldiani, I-XX (1980-2000), e negli Studi vivaldiani, a partire dal 2001 e in corso di pubblicazione, editi dall’Istituto italiano Antonio Vivaldi; qui di seguito si menzionano soltanto le pubblicazioni citate nella voce e gli studi ritenuti più importanti: B. Marcello, Il teatro alla moda, Venezia 1720; J.J. Quantz, Versuch einer Anweisung die Flöte traversière zu spielen, Berlin 1752, p. 309; C. Goldoni, Mémoires de M. Goldoni pour servir à l’histoire de sa vie, et à celle de son théâtre, I, Paris 1787, pp. 287-291; C. de Brosses, Lettres historiques et critiques sur l’Italie, I, Paris 1799, p. 193; J.N. Forkel, Ueber Johann Sebastian Bachs Leben, Kunst und Kunstwerke, Leipzig 1802, pp. 23 s.; A. Schering, Geschichte des Instrumentalkonzerts bis auf die Gegenwart, Leipzig 1905, pp. 84-96; M. Rinaldi, A. V., Milano 1943; M. Pincherle, A. V. et la musique instrumentale, I-II, Paris 1948; R. Giazotto, A. V., Torino 1973; W. Kolneder, V., Milano 1978; M. Talbot, V., Torino 1978; R.-C. Travers, La maladie de V., Poitiers 1981; A.L. Bellina - B. Brizi - M.G. Pensa, I libretti vivaldiani, Firenze 1982; M. Talbot, V.’s conch concerto, in Informazioni e studi vivaldiani, V (1984), pp. 66-82; Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino. Raccolta Mauro Foà, raccolta Renzo Giordano, a cura di I. Fragalà Data - A. Colturato, Roma 1987; M. Talbot, V. Fonti e letteratura critica, Firenze 1991; Id., The sacred vocal music of A. V., Firenze 1995; C. Fertonani, La musica strumentale di A. V., Firenze 1998; G. Rostirolla, Il ‘Mondo novo’ musicale di Pier Leone Ghezzi, Milano 2001, ad ind.; M. Talbot, The chamber cantatas of A. V., Woodbridge 2006; R. Strohm, The operas of A. V., Firenze 2008; M. White - M. Talbot, Pietro Mauro, detto “il V.”: failed tenor, failed impresario, failed husband, acclaimed copyist, in V.,“Motezuma” and the opera seria, a cura di M. Talbot, Turnhout 2008, pp. 37-61; Id., V. and fugue, Firenze 2009; Id., The V. compendium, Woodbridge 2011; M. White, A. V.: a life in documents, Firenze 2013; F. Ammetto, I concerti per due violini di V., Firenze 2013; A. Mazza, Ritratto di violinista e compositore, in L. Bianconi et al., I ritratti del Museo della Musica di Bologna da padre Martini al Liceo musicale, Firenze 2018, pp. 270-275; P. Ryom - F.M. Sardelli, A. V.: Thematisch-systematisches Verzeichnis seiner Werke (RV), Wiesbaden 2018.

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