VIVALDI, Antonio

Enciclopedia Italiana (1937)

VIVALDI, Antonio

Fausto Torrefranca

Violinista e compositore veneziano detto il "prete rosso", come asserisce il Goldoni, dal colore dei suoi capelli. Non se ne conosce con esattezza né l'anno della nascita, né quello della morte. Promosso alla tonsura nel 1693, ordinato sacerdote nel 1703, egli dovette nascere - tenuto conto delle leggi canoniche - non dopo il 1678. Ma un suo Laetatus è datato dal 1691. Per ciò non possiamo accettare la data tradizionale del 1675 che va, probabilmente, anticipata di qualche anno. Quanto alla morte, se il presidente de Brosses lo giudicò nel 1739 "un vecchio qui a une furie de composition" - e il V., cagionevole di salute, poteva ben dare a 65-70 anni l'impressione di essere vecchio - è probabile, per non dire certo, che sia morto nel 1743: data accettata da qualche vecchio lessicografo e da quasi tutti i moderni storici della musica. Morì, forse, lontano da Venezia: donde partì - sembra - nell'autunno del 1740. Di famiglia oriunda genovese (ricordiamo i grandi navigatori) trapiantatasi a Venezia non si sa quando, fu figlio di un famoso violinista della cappella di S. Marco, Giambattista.

Scrisse, dal 1713 al 1739, una quarantina di opere teatrali e dal 1695 circa in poi un numero grandissimo di composizioni strumentali, in gran parte concerti grossi con concertini di varia formazione - non sempre limitati agli archi - e concerti per violino solista, per viola d'amore e altri strumenti. Fu allievo di Legrenzi, mentre allievi suoi furono il Somis, il Treu, il Pisendel. Nominato, sin dal 1703, maestro di coro e almeno dal 1709 maestro di violino nell'Ospedale della Pietà (il conservatorio rinomato, soprattutto, per la sua orchestra più che, come gli altri, per le cantatrici), confermato nel 1711, fu poi designato quale maestro di concerti nel 1716.

Fatto segno agli strali della critica, troppo codina, di Benedetto Marcello nel suo Teatro alla Moda, intorno al 1719, dal 1718 al 1724 fu a Mantova per circa tre anni, "maestro di cappella di S. A. S. il sig. principe Filippo Langravio d'Assia-Darmstadt" e inoltre a Milano, a Roma (dove il pontefice volle udirlo suonare) e di certo anche altrove, quale operista. Ritornato a Venezia nel 1723, ne uscì di nuovo con la cantante Giraud, sua allieva, per andare "assieme in moltissime città" tra le quali probabilmente Firenze. Il 5 agosto 1735 fu riassunto dall'Ospedale della Pietà quale maestro dei concerti ma probabilmente l'irrequieto e delicato musicista, ammalato di "strettezza di petto" com'egli stesso ci dice, non resistette a lungo in questa carica. Nel 1736, ad esempio, era chiamato a Ferrara quale operista. Le "figliole" dell'ospedale vestivano di rosso; e il loro celebre direttore vestiva forse, anch'egli, di rosso, quando esercitava il suo ufficio? Si deve a questo fatto il suo nomignolo? O, invece, è da ritenere sicura la testimonianza del Goldoni sul colore dei suoi capelli? Tutto è ancora misterioso, nella sua vita; e molti lati oscuri presentava anche l'arte sua, sino al 1910 all'incirca. Ora, non più, almeno per l'arte.

Antonio V. è da considerare l'autore principale di una rivoluzione musicale che rapidamente condusse la musica dall'architettura "a terrazze" propria dello stile barocco - fondato sui contrasti tra una massa sonora maggiore ed un'altra minore - verso uno stile impressionistico che soltanto col Sanmartini nella Sinfonia, col Platti e col Galuppi nella Sonata, ebbe la sua piena realizzazione intorno al 1735-40 proprio mentre il V. era alla fine della sua vita. La sostenuta distinzione e la ridondante ampiezza corelliane sono, ormai, cose del passato. Una luminosa malizia, una calda primitività, un "eroico furore" animano volta per volta i motivi: che vengono guidati, attraverso la composizione, da un istinto felicissimo dell'equilibrio. Con mezzi assai piani, quali un disinvolto stacco di contrappassi quasi sempre asimmetrici, e con alternanze di sonorità, il compositore riesce a creare una perfetta e spontanea architettura.

Il suo stile non è più architettonico alla Corelli ma spaziale ed anzi già "paesistico". Esso rimane tuttora ancorato alle solide "quinte" dei Tutti, ma già comincia - nel mezzo di ciascun "tempo" - ad aprire degli sfondi, a fare intravvedere, in un giusto equilibrio di prospeitiva, di atmosfera, di avanpiani e di lontananze quell'"orizzonte sonoro" che vediamo pienamente realizzato nell'andante della sinfonia in do di G. B. Sanmartini. Persino l'uso di far "camminare" i motivi, ma in particolare gli spunti di passaggio, per mezzo di progressioni usuali e correnti acquista, nel suo stile, un accento particolare: che ravviva - e spesso esalta - questa pur tanto elementare connessione melodico-armonica.

La progressione si manifesta in lui come spontaneo e brillante accalcarsi di figurazioni ritmiche ed è espressione freschissima di una trasparente fluidità armonica che già, comincia a giocare con i timbri delle corde e degli strumenti a fiato in un modo assai diverso da quello della polifonia precedente, d'origine nettamente vocale.

Le figurazioni violinistiche, per ardue che possano essere sembrate ai contemporanei, non sono mai puro tintinnio o fruscio sonoro o fraseggiamento senza legami impegnativi o, sia pure, espressione del potere di trascinamento dei ritmi, ma implicano una finissima cantabilità ed esigono tale sicurezza di accento ed una tanto sciolta spiritosità, tutta italiana, nella varietà dei colpi d'arco, da impegnare la più appassionata attenzione da parte di un revisore o di un esecutore moderni. Sembra sia stato il primo a fare uso del bariolage.

Una grande conquista del V. ci viene rivelata dai suoi Adagi ed in particolare da quelli dei concerti inediti. Egli crea la melodia strumentale moderna protesa verso l'azione e, insieme, meditante; individualistica, sì, ma non lineare e quadrata. Essa si sdoppia in vaghi e misteriosi dialoghi: quasi conversazione dell'anima con se stessa. Il V. non fu, come generalmente si erede, un compositore di musiche per soli archi. Spesso si servì di legni e di ottoni, nei suoi Concerti. Un concerto in sol minore, grandioso più per la sua intensità che per le sue proporzioni, rivela chiaramente "il formarsi della moderna strumentalità sinfonica: aderente alle qualità di ogni strumento". E nell'Adagio sublime si afferma "la forza dell'individualismo mistico che già cominciava a contrassegnare l'epoca post-corelliana; e qui apre le ali al suo grande volo".

Il concerto, quale il V. lo sente nelle sue composizioni più ricche e più compatte e di più nitido splendore strumentale, è più vicino alla sinfonia dell'epoca romantica, almeno per quanto riguarda gli Allegri, di quanto non sia la stessa sinfonia del Sanmartini. Non per la forma, si intende, ma per lo spirito; e, nei concerti con più di un solista, per il carattere ora contrastante ora cospirante delle "persone" concertanti: oboe e violino, violino e violoncello, violino ed organo, ecc. Significativo il fatto che, dall'op. 4ª in poi, il V. si tenga lontano dal fugato e prediliga il ciclo di tre tempi, col tempo lento nel mezzo.

In generale, gli Allegri finali sono meno curati degli iniziali. L'abitudine di eseguire concerti in serie, uno dopo l'altro, dava, forse, a questi Allegri un carattere quasi di intermezzo riposante e svagato dopo l'intensità espressiva - quasi sempre altissima - degli Adagi. Ma in qualche concerto il V. vuole ed ottiene che il finale riesca degno degli altri due tempi. Moderno appare allora lo stretto legame spirituale dei tre tempi: la loro unità d'azione. I due tempi allegri si richiamano l'un l'altro non soltanto - com'è ovvio - in forza della comune tonalità, ma anche per l'ardimentosa mobilità, per il meditato elaborare, per lo stacco di eventualità impreviste, frutto di grande raffinatezza, nell'arte di improvvisare.

E tra l'uno e l'altro allegro l'effusione di sentimento del tempo lento centrale - potenziato sino ad uno struggimento senza torbidezze e ad un ardore ancora dominato da un senso di eternità - è come un arco ideale che allontana e unisce - col suo profilo simile ad un golfo dilatato e profondo - due mondi destinati ad essere in eterno uniti e separati: quello della decisione cordiale e meditata e l'altro della foga temeraria e bizzarra che si getta innanzi, alla conquista di un mondo nuovo.

Quanto all'importanza storica di alcuni di questi capolavori, basti accennare ai concerti brandenburghesi di G. S. Bach. Essi nettamente derivano da questo modo di concepire la nuova polifonia e la nuova melodia strumentali e ne sono, per così dire, la traduzione in coloriti nordici e in meditati addensamenti di molecole ritmiche e di nuclei armonici. E bene rispondono al carattere di "ripensamento" che sarà proprio di tutta l'arte germanica sino alla definitiva liberazione conseguita dal terzo stile beethoveniano e dal romanticismo ottocentesco che da questo stile discende gloriosamente.

L'influenza esercitata dal V. sui musicisti suoi contemporanei è stata assai grande e anche assai più precoce di quanto non sia generalmente ammesso. L'editore Roger di Amsterdam pubblicò nel 1695 alcune delle sue prime edizioni che giunsero al numero di 416 prima del 1716. L'op. 3 del V. fu pubblicata con i numeri 50 e 51 e perciò è assai improbabile che sia posteriore al 1700, anche supponendo un ritmo editoriale di pochi numeri per anno, sul principio. Le altre date hanno poco peso: sono termini ad quem. Assai prima del 1728 deve aver composta la op. 9 intitolata La cetra (il manoscritto dedicato all'imperatore Carlo VI [1729] ci sembra ricavato dall'edizione, di certo anteriore). Un privilegio francese è concesso per le opere 13°e 14° dal 1737. (L'op. 14 è ancora sconosciuta).

Ciò che ne dissero il Quantz, che ne sentì i concerti a Pirna, in Sassonia nel 1714, ed il Pisendel, che gli fu allievo nel 1710 e ritornò alla sua Dresda con una buona scorta di fresehe partiture vivaldiane (alcune delle quali ancora si conservano autografe con l'indicazione "fatta per il sig. Pisendel"), è noto. Interessante è osservare che, almeno dal 1716, data quel tema iniziale che, scaturito dalla scissione dell'accordo di tonica in un arpeggio appena ritmato, è primo e sicuro indizio di un nuovo mondo, ben diverso dal corelliano.

È noto, anche, che negli anni dal 1708 al 1717 cadono le trascrizioni che G. S. Bach fece di sei concerti dell'op. 3 del V., a Weimar, e anche di quello per organo, in re minore, che qualche ritardatario ancora attribuisce a Guglielmo Friedemann Bach.

Il Burney ricorda che un primo Concerto del Vivaldi fu eseguito a Londra nel 1723: indizio della precoce e sempre crescente diffusione del nuovo stile.

Nel luglio del 1724 il flautista Quantz ci offre un'altra interessante notizia: che il V. aveva portato a Roma la cosiddetta "maniera lombarda" con una delle sue opere teatrali ed aveva soggiogato i Romani al punto che essi non tolleravano più nessun altro stile. Noi facciamo l'ipotesi che nel 1727 e nel 1728 alcuni suoi concerti siano stati eseguiti a Napoli perché abbiamo ritrovato queste date in alcuni manoscritti napoletani.

Il 7 febbraio 1728 il concerto (sic) delle Stagioni (probabilmente il concerto della Primavera, op. VIII, che rimase, per tradizione, il più popolare soprattutto in Francia e fu oggetto di un tardivo privilegio editoriale nel 1739) fu eseguito a Parigi e poi ripetuto molte volte, anche se abbiamo certezza soltanto di tre esecuzioni: due del 1758 (dei violinisti Canavasso e Vachon) e una del 1762 (Capron).

Uno dei successi più sorprendenti del V. è questo: che il corrosivo avventuriero Goudar ne parli ancora, con meraviglia e con rispetto, intorno al 1780.

Ma dobbiamo anche dire che l'insuccesso più clamoroso è proprio quello che il "prete rosso" ebbe a soffrire nella sua Venezia, dove si tenevano in scarso conto le sue composizioni, come sappiamo dalle lettere del de Brosses. Forse di questa scarsa considerazione possiamo renderci conto pensando che, mentre dall'op. 4 in poi il V. si tiene lontano dal fugato - pietra angolare dello stile tradizionale - Antonio Lotti compone ancora saporose polifonie di stile chiesastico e madrigalesco e Benedetto Marcello scrive il Teatro alla moda proprio per satireggiare il V. e il mondo teatrale che gravitava intorno a lui (come ha rivelato il fortunato ritrovamento di un esemplare annotato che ci decifra le frasi sibilline del complicato frontespizio). Lo stesso Galuppi, seguace e quasi famiglio del Marcello, si gloria di comporre alla Corelli, anche se l'effetto finale finisce col risultare (ma questo sempre accade agli artisti geniali) ben lontano dalla "soave posatezza" che proprio il biografo di B. Marcello si compiace di lodare nel Corelli e nello Steffani. Ed infine il Goldoni misconosce il V. chiamandolo "mediocre compositore", giudizio altrettanto fondato quanto - forse - la testimonianza circa il colore dei suoi capelli.

L'ambiente veneziano era dunque, in sostanza, un ambiente conservatore o che tale, almeno, voleva apparire; e bene comprendiamo, per ciò, come vi fosse poco compresa l'arte arditamente rivoluzionaria - e già romanticamente "fantastica" - del grande violinista-compositore.

Bibl.: Fr. Caffi, Storia della musica sacra nella già cappella ducale di S. Marco in Venezia, ivi 1855, vol. II, pp. 61-62 e 151-152; A. Vivaldi, Sei lettere di Antonio Vivaldi, veneziano, a cura di Federico Stefani, Venezia 1871; T. Wiel, I Teatri musicali veneziani del settecento, Venezia 1897; L. Torchi, L'arte istrumentale italiana dei secoli XVI, XVII e XVIII, in Riv. mus. it., 1899, p. 706 e segg. e nell'estratto; A. Schering, Zur instrumentalen Verzierungskunst im 18. Jahrhndert in Sammelbände der I. M. G., VII (1905), p. 368; A. Schering, Geschichte des Instrumentalkonzertes, Lipsia 1905 e 1927 (ristampa); W. Altman, Thematischer Katalog der gedruckten Werke A. Vivaldis, in Archiv für Musikwissenschaft, IV, 2 (1922); A. Moser, Geschichte des Violinspiels, Berlino 1923; A. Salvatori, Antonio Vivaldi (Il Prete rosso), note biografiche in Rivista mensile della città di Venezia, agosto 1928 ed a parte in estratto; G. Fr. Malipiero, Chi non cerca trova, in Bollettino bibliografico musicale, 1928; M. Pincherle, A. Vivaldi, Saggio biografico, in Rassegna musicale, anno II (1929), nn. 11 e 12; F. Torrefranca, Le origini italiane del romanticismo musicale, Torino 1930, e in Riv. mus. it., passim dal 1910 al 1928.