VIVARINI, Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 100 (2020)

VIVARINI, Antonio

Gianmarco Russo

– Nacque, in data imprecisata, da un Michele di Antonio vetraio già documentato in quanto tale nel 1398 (Paoletti - Ludwig, 1899, p. 259), mentre è ignoto il nome della madre.

Michele era a sua volta nipote di un «Vivarinius vitruarius quondam ser Henrici de Padua» residente, il 13 maggio 1367, in S. Stefano a Murano (ibid., p. 260; Testi, 1915, pp. 315 s.).

Antonio fu patriarca della cosiddetta pittura muranese, e capostipite della famiglia Vivarini, attiva all’incirca dal 1440 sino a tutta la seconda metà del XV secolo e oltre (Pallucchini, 1962). Fratello di Bartolomeo e padre di Alvise (v. entrambe le voci in questo Dizionario), si fece dapprima interprete di un delicato linguaggio «umbratile» (Longhi, 1926, 1967, p. 81), per poi votarsi a una più cosciente acculturazione umanistica che lo portò ad allargare i propri interessi alla bottega padovana di Francesco Squarcione, ad Andrea Mantegna e a Giovanni Bellini. Le collaborazioni con Giovanni d’Alemagna prima, e con Bartolomeo poi, non gli impedirono di codificare un personale punto di stile, e di guidare una bottega di artisti dai linguaggi sottilmente distinti, eppure sempre conformi al più ampio sviluppo della pittura veneta del Quattrocento.

Ricostruendo sul pannello centrale del polittico oggi alla basilica Eufrasiana di Parenzo, accanto al nome di Antonio, la data del 1440 (la cui ultima cifra è oggi appena leggibile, ma cfr. Testi, 1915, p. 332), si ottiene la prima attestazione dell’artista. Essa documenta lo stile del pittore in una fase antecedente al consorzio con «magister Johannes Tethonicus», definito per la prima volta «cugnatum Antonij de Murano» il 6 agosto 1448 (Rigoni, 1948, p. 143, doc. XI), ma autore di un’opera societaria già all’altezza del polittico di S. Girolamo per S. Stefano a Venezia (oggi a Vienna, Kunsthistorisches Museum), sulla cui carpenteria Francesco Sansovino (1581, c. 50r) leggeva – oltre alle firme dei pittori e dell’intagliatore Gaspare Moranzone – l’anno 1441. Da questo momento, e per poco più di un lustro, Giovanni e Antonio disseminarono per le chiese di Venezia fiammeggianti macchine d’altare, su cui modulare, in forza di un’aperta omogeneità imprenditoriale, voci dai timbri mai dissonanti. Nacquero così, nel 1443, le ancone dedicate a S. Sabina, al Redentore e alla Madonna del Rosario nella cappella di S. Tarasio in S. Zaccaria, sotto le figure sgualcite delle vele e del sottarco firmate da Andrea del Castagno e Francesco da Faenza (Aikema, 2000). Sui due altari minori, le epigrafi originali tramandano, oltre alle firme dei pittori e all’anno di esecuzione, i nomi delle committenti, la priora Margherita Donà e la monaca Agnesina Giustinian, mentre alla personale munificenza della prima e della badessa Elena Foscari (sorella del doge Francesco) un’iscrizione, pesantemente ripassata nel 1838 (Cicogna, 1834, p. 692), attribuisce l’innalzamento del polittico maggiore, riferendo l’esecuzione degli intagli a Ludovico da Forlì.

La collaborazione fra Giovanni e Antonio proseguì, allora, con l’Incoronazione della Vergine in S. Pantalon, datata 1444, firmata non solo dai due pittori, ma ancor prima dall’intagliatore Cristoforo da Ferrara, e ricordata come opera del solo maestro tedesco nel documento con cui tre anni dopo ne sarebbe stata commissionata una copia per S. Agnese a Michele Giambono (oggi alle Gallerie dell’Accademia; Paoletti, 1929, p. 92). Nel 1445, secondo Anton Maria Zanetti (1771, p. 15) e Giovanni Maria Sasso (Memorie..., 1804, 1998, pp. 313 s.), fu la volta dei perduti Ss. Giorgio e Stefano sulle ante d’organo di S. Giorgio Maggiore, dove il nome di Giovanni precedeva di nuovo quello di Antonio. Seguirono, allora, il polittico, ugualmente smarrito, per Ss. Cosma e Damiano alla Giudecca (Sansovino, 1581, c. 91r) e la grandiosa pala in tre vani rettangolari per la sala dell’albergo della Scuola grande della carità (oggi Gallerie dell’Accademia), entrambi del 1446.

Nello stesso anno, dalla parrocchia di S. Maria Formosa, Antonio assicurò la dote alla moglie Antonia: prima, il 4 febbraio (Ludwig, 1905, pp. 13 s.); poi, il 28 aprile (Buonocore, 2008, pp. 335 s.). Da quest’ultimo atto (e forse da un primo testamento della donna, del 1446, ricordato da Buonocore, 2008, p. 335, ma con una segnatura che, a un controllo, non sembra corrispondere ad alcun documento), si apprende che all’epoca era già nato il primogenito della coppia, Michele, e Antonia era incinta, non sappiamo se di Elena o Alvise, i due figli ricordati nei successivi testamenti che ella avrebbe stilato nel 1457 e nel 1458 (Ludwig, 1905, p. 14). L’assicurazione dotale della primavera del 1446 stabilisce che, a quella data, Antonio, sebbene si trovasse momentaneamente a Venezia, abitava con la sua famiglia a Padova, in contrada S. Lorenzo. Così, tra il 20 ottobre 1447 e il 4 novembre 1448, egli fu ammesso alla locale fraglia dei pittori (Lazzarini, 1908, p. 78). Risalgono a questo periodo l’altare della Natività per S. Francesco Grande, oggi alla Národní Galerie di Praga – dove si leggono l’anno 1447 e le firme, nell’ordine, dell’intagliatore Cristoforo da Ferrara e dei pittori Antonio e Giovanni –, e il contratto, datato 16 maggio 1448, con uno degli esecutori testamentari di Antonio Ovetari, Francesco Capodilista, per la decorazione della parete di destra, della volta a crociera, della parte di muro sovrastante l’arco d’ingresso e dell’arco stesso della cappella Ovetari agli Eremitani – da concludersi, per mano dei due soci, entro il 1450 (ibid., doc. XCVI). Sui ponteggi del cantiere padovano, dove sembra che Antonio non mettesse mai piede nonostante le disposizioni (De Marchi, 1999, pp. 121-123), proprio nel 1450 giunse a conclusione la vita di Giovanni d’Alemagna.

Prima che, il 9 giugno 1450, Antonio, «socius olim magistri Johannis Todeschi eius cognati», si accordasse con Capodilista per vedersi stimare da Nicolò Pizolo e Francesco Squarcione i lavori svolti sino allora nella cappella Ovetari (Lazzarini, 1908, doc. CII), il 29 marzo di quello stesso anno gli furono corrisposti 40 ducati per un’Annunciazione ricordata da Carlo Ridolfi (1648, p. 21) come opera a quattro mani, in una delle cappelle laterali della chiesa di S. Maria della Carità (Fogolari, 1924, pp. 77, 103). Le commissioni successive furono tuttavia segnate da una nuova collaborazione: quella con il fratello Bartolomeo. Il 1450 è tuttora leggibile sull’ancona per l’altare maggiore della chiesa di S. Girolamo alla Certosa di Bologna (oggi alla Pinacoteca nazionale), assieme alle firme dei due pittori e ai nomi di papa Niccolò V e del defunto cardinale Nicolò Albergati, in memoria del quale il pontefice volle innalzare la macchina vivariniana, nella ricorrenza dell’anno santo per mezzo dei negoziati del priore Cristoforo Marini (Medica, 1998, pp. 41 s.). Nel 1451, poi, secondo diverse fonti antiche – da Marcantonio Michiel (1521-1543, 1884) a Pietro Brandolese (1795) –, Antonio confezionò, in compagnia di Bartolomeo, il suo secondo polittico per S. Francesco a Padova, già sull’altare maggiore della chiesa (Zeri, 1975, 1988) e oggi diviso, nei suoi pezzi principali, fra Vienna, Praga, Worcester e una collezione privata italiana. L’anno successivo, invece, i due fratelli firmarono e datarono l’ancona dell’Annunciazione oggi in villa Cagnola a Gazzada (Varese), scolpita e dipinta per il convento dell’Annunciata di Rovato (Brescia): complesso del quale faceva parte la cuspide, in tutto e per tutto antoniesca, con il Cristo passo ex Vitali oggi a Brera (Uccelli, 2003). Al 1452, inoltre, rimontano un paio di atti notarili che certificano caratteri fondanti dell’esperienza pittorica di Antonio: da una parte la stretta collaborazione con i maestri di legname, confermata, il 26 febbraio, dal testamento di una Antonia moglie del marinaio Giovan Pietro, in cui il pittore risulta testimone in compagnia di Ludovico da Forlì; dall’altra la forte capacità di attrarre artisti differenti, non solo all’interno di una bottega dalle precise istanze professionali, ma anche entro una più ampia e condivisa koinè figurativa, di cui avrebbe presto partecipato quel Leonardo Boldrini citato assieme ad Antonio – e a un non meglio conosciuto «Jacobus Nicolai de Marco intaliator» – in un altro testamento dell’8 maggio 1452 (Ludwig, 1905, p. 14).

Al solo Antonio alcuni documenti attribuiscono una pala, di soggetto non identificato, per l’altare maggiore di S. Maria della Carità. Nonostante che essi siano datati tra il 1453 e il 1456, per questa perduta opera vivariniana è il primo dei due termini cronologici a sembrare più verosimile: infatti, rimandano già al 1450-51 alcuni pagamenti non solo «per la fabricha della capella granda della giesia» – di cui doveva occuparsi Bartolomeo Bon –, ma anche «per el far del’altar grando»; mentre al 1453 risalgono quelli «per la pala del’altar grando» e «per el dorar» della stessa (Paoletti, 1893, p. 92). Il 25 luglio 1456, ad Antonio, i confratelli della Carità si limitarono a corrispondere l’ultimo saldo, a opera, forse, compiuta da tempo: 200 ducati «per fatura e per compimento del pagamento de la nostra pala» (Fogolari, 1924, p. 105). Subito dopo, oltre che nei citati testamenti della moglie Antonia – datati 4 novembre 1457 e 15 settembre 1458 (Ludwig, 1905, p. 14) –, il nome del pittore compare assieme a quello di Bartolomeo e, stando alle fonti ottocentesche (Kukuljević Sakcinski, 1857), dell’intagliatore Francesco Moranzone, sul polittico per la chiesa di S. Bernardino nel monastero di S. Eufemia ad Arbe (1458).

Dall’assicurazione della dote di una Luchina del fu Vendramino Stella, vergata il 19 gennaio 1460, si apprende della seconda moglie di Antonio (Ludwig, 1905, pp. 14 s.), dalla quale non sembra che egli avesse figli. Subito dopo è possibile datare, per via indiretta, due tappe della maturità del pittore al 1462. Quest’anno è attribuito da Pierpaolo Bartolazzi (prevosto di Pausula dal 1860 al 1888) nelle sue Memorie di Montolmo (Pausula 1883) a uno dei frammenti del polittico oggi nella Pinacoteca parrocchiale di Corridonia (Astolfi, 1902, p. 193): opera in cui la mano del capobottega si fa preminente su quelle di Bartolomeo e degli altri aiuti. La stessa data veniva poi riconosciuta, fra i secoli XVI e XVII, da Cherubino Ghirardacci e da Mario Lanzoni sull’altare che i fratelli avrebbero confezionato per la cappella Vitali in S. Giacomo Maggiore a Bologna, con ogni probabilità composto almeno dalla Madonna in trono del Museo Davia Bargellini di Bologna e dai Ss. Petronio e Giacomo, da una parte, e Giovanni Battista e Ludovico da Tolosa, dall’altra, al Musée du Petit Palais di Avignone (Cavalca, 2008, pp. 41-43): pezzi di piena paternità antoniesca. Il 1464, invece, lo vide a lavoro su una direttrice adriatica. In quell’anno firmò e spedì le sue tavole su campo d’oro alla confraternita pesarese di S. Antonio Abate, dove furono ricomposte in un polittico di foggia tradizionale (oggi ai Musei Vaticani), con al centro una statua lignea del santo dedicatario dell’insieme; e nello stesso frangente, forse per l’ultima volta al fianco di Bartolomeo, lavorò a un altare per i minori osservanti di Osimo (ora alla Pinacoteca comunale).

Il 31 dicembre 1465 Antonio e Bartolomeo ricevettero in eredità i beni di una Cristina vedova di Simone che, alla data del suo secondo testamento del 27 agosto 1466 – cui parteciparono il solo Antonio e, di nuovo, Ludovico da Forlì –, risultava essersi trasferita nella casa del più anziano pittore a S. Maria Formosa (Ludwig, 1905, p. 15). A prestare fede all’iscrizione (forse ricalcata successivamente su quella originale) sul S. Antonio Abate proveniente dal convento francescano di S. Maria Vetere ad Andria e oggi alla Pinacoteca metropolitana di Bari («ANT. DE MURANO. 1467»), l’anno successivo Antonio dovette realizzare il polittico di cui facevano parte il S. Ludovico di Tolosa nello stesso museo barese e i Ss. Chiara, Bernardino e Agostino ora nell’Episcopio di Andria, se non anche il Cristo passo, e i Ss. Francesco e Giovanni Battista ugualmente arrivati a Bari da Andria (ed esclusi dalla ricostruzione di Buonocore, 2016, pp. 62 s., fig. 50). Dopo il 1467, oltre a pochissime attestazioni, non sopravvivono dipinti datati o databili con certezza. Del tutto perdute, perché già «consumate da gli anni» alla fine del secolo XVI, sono le «diverse opere» che «Antonio Vivarino del 1470» realizzò in S. Aponal secondo l’opinione di Sansovino (1581, c. 64v). Restando agli anni Settanta, risulta solo la firma vergata in qualità di testimone da «magister Antonius pictor de Muriano» nell’atto che il 21 maggio 1472 regolamentava l’entrata del figlio di Francesco di Giusto da Capodistria nella bottega di Andrea e Girolamo da Murano, «intaiatores et pictores» (Paoletti, 1893, p. 100). Né si può maggiormente circoscrivere la data di morte del maestro rispetto all’intervallo compreso fra il 24 marzo 1476, quando nei documenti Alvise Vivarini è definito figlio «d’Antonio depentor», e il 24 aprile 1484, quando è invece detto «olim filius magistri Antonij pictoris» (Ludwig, 1905, pp. 19 s.).

A fronte di una buona quantità di opere datate e firmate, la definizione della personalità di Antonio nella sua prima fase è resa ardua dalla quasi totale penuria di dipinti anteriori al 1440 e dalla successiva condivisione della maggior parte delle commesse con Giovanni d’Alemagna. La piena autografia del polittico di Parenzo, tuttavia, avoca al pittore almeno un paio di prove che documenterebbero il suo linguaggio prima della società con il collega d’Oltralpe: oltre all’ancona croata, sono, queste, il rutilante paliotto della Passione già al Corpus Domini di Venezia e oggi alla Ca’ d’Oro e lo sciupatissimo altare di S. Michele arcangelo al Walters Art Museum di Baltimora. Lungi dal rappresentare un incerto stile di transizione dalle mollezze floreali della sensibilità gotica al rigore strutturale della civiltà prospettica, essi parlano di un interesse per i pittori – da Masolino a Giambono – più fisicamente astrattivi e sontuosamente materici sino allora apparsi in Veneto: interesse chiamato a convivere con un plasticismo intenso e una volumetria piallata che portarono Antonio a una lettura più sfrondata ed essenziale delle postreme declinazioni internazionali. Dati simili caratteri del linguaggio del maestro, e vista la firma di Giovanni sul S. Girolamo del Walters Art Museum – che trascina con sé la paternità della Madonna dell’umiltà Pittas (per cui cfr. Zeri, 1971, 1988) –, nel polittico societario del 1441 già in S. Stefano a Venezia si delinea un lieve distacco fra l’urente affioramento cromatico-disegnativo del registro principale e gli squadri più netti e sintetici dell’ordine superiore (De Marchi, 1998, p. 61), quest’ultimo di immediata riconoscibilità vivariniana. Così, a sodalizio avviato, il solo Antonio poté lavorare a una serie di tavole che, pur ricordando le favolose geometrie e gli intarsi di colori cinerini vagheggiati dal collega teutonico, gli permisero di stemperare la marcatura dei profili e la digradazione dei legati: prima, nello smembrato insieme della Madonna al Museum of fine arts di Houston e dei Ss. Cristoforo, Nicola, Giacomo maggiore e Antonio abate ex Nevin (Zeri, 1971, 1988, pp. 158 s.); subito dopo, nella sottilissima Madonna con il Bambino all’Accademia di Venezia; e, intorno alla metà del decennio, nelle sopravvissute storie del vita panel di s. Monica dalla chiesa di S. Stefano, divise fra Detroit, Venezia, Londra, La Spezia e Bergamo, celebrate da Sansovino come opera di collaborazione fra Antonio e Giovanni (1581, c. 50r).

Mentre nei capolavori firmati nel quinto decennio i due cognati arrivarono a una comunione di intenti tale da rendere indistinguibili le parti dell’uno e dell’altro – con un picco di osmosi nel trittico di S. Moisè, diviso fra la National Gallery di Londra e la chiesa di S. Tomaso Cantuariense a Padova (Holgate, 2000) –, Antonio diede prova delle sue capacità di solista nel polittico dell’abbazia di Praglia, ora a Brera, tradizionalmente datato al 1448 (Testi, 1915, p. 376). Qui, complicati il formato e la carpenteria di Parenzo, il pittore increspò la superfetazione materica di Giovanni su di una volumetria dalla forte densità costruttiva, animata da virate ora sommessamente espressive (come nello strazio raggelato della Pietà), ora sinteticamente astratte (come nell’ovale adamantino della S. Giustina a mezza figura). All’alba dell’esordio di Bartolomeo nel polittico societario del 1450 a Bologna, Antonio infranse in teneri passaggi di tratteggio e chiaroscuro l’ordito muscolare del Cristo nella Pinacoteca felsinea – che niente ha da spartire, con buona pace di Federico Zeri (comunicazione orale a Laclotte - Mognetti, 1976, n. 243), e di Cecilia Cavalca (2012), con la ben più antica Madonna in trono del Museo Poldi Pezzoli di Milano –, incastrandolo fra il doppio cannocchiale prospettico dell’avello lapideo e dello sfondato paesaggistico.

Nel mezzo della collaborazione con Bartolomeo, attorno alla metà degli anni Cinquanta, Antonio diede prova di un vigoroso potenziamento espressivo dei dispositivi pittorici in due opere individuali di diversa funzione: una volta, con evidenti appoggi patavino-mantegneschi, nei guizzi luminosi della Sacra Famiglia del Musée des beaux-arts di Strasburgo, forse realizzata per i Collalto di Treviso (Mies, 1998, pp. 194 s.); un’altra, con raffinata intuizione protobelliniana, nelle aperture naturalistiche delle Storie di s. Pietro martire già ricondotte da Georg Pudelko (1937) a una commissione dei domenicani di S. Zanipolo. Nel polittico di Arbe del 1458, dopo essersi evidentemente accordato con il fratello per una schematica divisione del lavoro, Antonio continuò a percorrere questa strada occupandosi delle sole tavole del registro superiore, alle quali Bartolomeo mise forse mano per rafforzare en passant i panni del Battista e della Santa ai lati della cimasa. A paragone delle crepitanti figure dell’ordine sottano, in toto bartolomeesche, quelle di Antonio esibiscono una geometria più essenziale, non senza accennare, nel pannello apicale, moti di belliniana tenerezza nel Bambino che cerca la guancia della Madre (Venturi, 1919) quasi a toccarne, sotto il lieve stiacciato, la sintetica rotondità del volume.

Da questo momento, malgrado l’intermittente adeguarsi alle pieghe più pietrose della pittura di Bartolomeo – autonomo a partire dal S. Giovanni da Capestrano del 1459 al Louvre –, Antonio dovette sempre più evitare la fusione del suo pennello con quello del fratello minore. Così, anche in occasione della commessa di Osimo, del 1464, i maestri si spartirono didascalicamente le parti, con l’Incoronazione della Vergine e le quattro tavole di sinistra – di Bartolomeo – da una parte, e il Cristo in cimasa e i pannelli di destra – di Antonio – dall’altra. Il risultato furono la distinzione dei linguaggi dei due pittori lungo tutti gli anni Sessanta e l’apertura di un capitolo finale dello sviluppo di Antonio animato dal tentativo di limare l’ingenuo mantegnismo del fratello facendo eco alle intuizioni belliniane del figlio. Così, a ridosso dello smembrato polittico bolognese del 1462, nella Vergine della Yale University, il maestro tentò di strutturare prospetticamente il gioco di sguardi fra la Madonna e il Bambino tramite una geometria più svelta e quasi sbilenca, specie nei pungenti putti musicanti, di retrogusto squarcionesco. E all’altezza dell’ancona pesarese, di due anni più tardi, raggiunse un’inedita sicurezza di segno grafico e inclinazione espressiva nei Ss. Giovanni Battista e Agostino dell’Accademia veneziana, forse appartenuti, insieme a un Angelo annunciante ora in galleria Matthiesen a Londra e a una dispersa Vergine annunciata, all’altare della Scuola Piccola di S. Girolamo a Cannaregio (Russo, in corso di stampa a; Russo, in corso di stampa b): un punto di stile, questo, da cui poté lentamente affiorare Alvise, forse davvero al lavoro, nella cimasa del polittico del 1478 già in S. Spirito a Feltre (oggi al Bode Museum di Berlino), su una tavola lasciata incompiuta dal padre per morte sopraggiunta (Crowe - Cavalcaselle, 1871, pp. 53 s., n. 1).

Fonti e Bibl.: M. Michiel, Notizia d’opere di disegno (1521-1543), pubblicata e illustrata da J. Morelli, a cura di G. Frizzoni, Bologna 1884, p. 30; F. Sansovino, Venetia città nobilissima et singolare, Venezia 1581, cc. 50r, 64v, 91r; C. Ridolfi, Le maraviglie dell’arte, overo le vite de gl’illustri pittori veneti, e dello Stato, Venezia 1648, p. 21; A.M. Zanetti, Della pittura veneziana e delle opere pubbliche de’ veneziani maestri, Venezia 1771, pp. 12-16; P. Brandolese, Pitture, sculture, architetture ed altre cose notabili di Padova, Padova 1795, p. 249; Memorie di Giovanni Maria Sasso pittore veneziano, da lui medesimo scritte, con altre sopra alcuni pittori veneziani e padovani (1804), in R. Callegari, Scritti sull’arte padovana del Rinascimento, Udine 1998, pp. 312-315; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, pp. 692 s.; I. Kukuljević Sakcinski, Arkiv za povjestnicu Jugoslavensku (Archivio per la storia jugoslava), IV, Zagreb 1857, p. 313; J.A. Crowe - G.B. Cavalcaselle, A history of painting in North Italy, I, London 1871, pp. 17-38, 53 s.; P. Paoletti, L’architettura e la scultura del Rinascimento in Venezia, I, Venezia 1893, pp. 92, 100; P. Paoletti - G. Ludwig, Neue archivalische Beiträge zur Geschichte der venezianischen Malerei, in Repertorium für Kunstwissenschaft, XXII (1899), pp. 255-278 (in partic. pp. 260-265); C. Astolfi, Di alcuni quadri pregevoli a Pausula e a Fermo del Crivelli, di Andrea da Bologna, del V., del 2° Lorenzo da Sanseverino, del Pagani, in L’Arte, V (1902), pp. 192-194; G. Ludwig, Archivalische Beiträge zur Geschichte der venezianischen Malerei, in Jahrbuch der Preußischen Kunstsammlungen, XXVI (1905), pp. 1-159 (in partic. pp. 13-15); V. Lazzarini, Documenti relativi alla pittura padovana del sec. XV, con illustrazioni e note di A. Moschetti, Venezia 1908, p. 78, docc. XCVI, CII; L. Testi, La storia della pittura veneziana, II, Il divenire, Bergamo 1915, pp. 315-418; A. Venturi, Un’opera di Antonio e Bartolomeo Vivarini nell’isola di Arbe, in L’Arte, XXII (1919), p. 226; G. Fogolari, La chiesa di Santa Maria della Carità di Venezia (ora sede delle Regie Gallerie dell’Accademia di Venezia). Documenti inediti di Bartolomeo Bon, di A. V., di Ercole del Fiore e di altri artisti, in Archivio veneto-tridentino, V (1924), pp. 77-79, 103, 105; R. Longhi, “Lettera pittorica” a Giuseppe Fiocco su “L’Arte del Mantegna” (1926), in Id., Opere complete, II, Firenze 1967, pp. 77-98; P. Paoletti, La Scuola Grande di San Marco, Venezia 1929, pp. 87-96; G. Pudelko, Ein Petrus-Martyr-Altar des A. V., in Pantheon, XX (1937), pp. 283-286; E. Rigoni, Il pittore Nicolò Pizolo, in Arte veneta, II (1948), pp. 141-147; R. Pallucchini, I Vivarini (Antonio, Bartolomeo, Alvise), Venezia 1962, pp. 11-35; F. Zeri, Un «San Girolamo» firmato di Giovanni d’Alemagna (1971), in Id., Giorno per giorno nella pittura. 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Buonocore, L’Adriatico e Alvise Vivarini: un percorso sotto la guida di Giovanni Bellini, la scultura e Antonello da Messina, con a margine una riflessione sulla perduta pala di Belluno, in G. Riefolo - F.M. Ferro, Il caso Vivarini a Barletta, Barletta 2016, pp. 57-79 (in partic. pp. 60-64); G. Russo, A. V., Giovanni Bellini e le ‘forme’ dell’Umanesimo, in Humanistica, in corso di stampa a; Id., Per la tarda attività di A. V., in Albertiana, in corso di stampa b.

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