ANTROPOLOGIA

Enciclopedia Italiana (1929)

ANTROPOLOGIA (dal greco ἄνϑρωπος "uomo" e λόγος "discorso"; fr. anthropologie; sp. antropología; ted. Anthropologie; ingl. anthropology)

Gioacchino SERA
Ugo SPIRITO
Giovanni Vidari
Lidio CIPRIANI
M. Ca.

Il termine, che letteralmente significa "scienza dell'uomo" ha un diverso valore a seconda che venga usato nel senso filosofico o in quello scientifico.

Dal primo punto di vista, l'antropologia è la dottrina dell'uomo inteso non soltanto come attività spirituale (nel quale caso l'antropologia è sostituita o dalla psicologia, se si tratti di fare una descrizione e spiegazione analitica dell'attività medesima, oppure dalla teoria generale dello spirito, se si tratti di dare un concetto sintetico e una deduzione filosofica della vita spirituale, dei suoi atti e dei suoi prodotti), ma come unità di spirito e di corpo, come realtà vivente, che esprime attraverso alle varie manifestazioni corporee la propria attività spirituale. In questo concetto di antropologia, che incominciò a formarsi e diffondersi nel sec. XVIII, era contenuta la reazione contro il cartesianesimo, che aveva fatta consistere tutta quanta l'essenza dell'uomo nel pensiero, e aveva contrapposto nettamente la res cogitans alla res extensa, cioè la mente alla materia, lo spirito ai corpo, rendendo così oscurissimo il problema dei rapporti fra le due sostanze, il quale poi variamente fu posto e risolto dallo Spinoza, dal Malebranche, dal Leibniz.

Ma chi ha dato di tale concetto uno sviluppo e una trattazione scientificafu Emanuele Kant, il quale nell'università di Königsberg, per quasi trent'anni, nel semestre invernale, a cominciare dal 1772, tenne un corso ufficiale di antropologia, e pubblicò nel 1798 un'opera dal titolo: Antropologia prammatica. Egli la definisce anzitutto, in modo generico, come "una dottrina della conoscenza dell'uomo concepita sistematicamente"; e ne fissa poi con maggior precisione la figura e il metodo là dove (cfr. Grundlegung zur Metaph. d. Sitten e Metaph. d. Sitten, Introduzione) ne delinea i rapporti, da una parte con le scienze fisiche, dall'altra con la metafisica. Infatti, da un lato, l'antropologia può essere trattata da un punto di vista fisiologico, e allora essa mira "a determinare quel che la natura fa dell'uomo", cioè a vedere che cosa sia e come si formi e si modifichi o viva l'uomo nella sua interezza, considerato sotto l'influenza degli agenti naturali; e in tal caso non si vede in che cosa l'antropologia differisca da quella disciplina che in principio abbiamo detta la scienza dell'uomo considerato come un essere, sia pure il più alto, della scala dei viventi. Ma, da un altro lato, l'antropologia può esser trattata, dice il Kant, da un punto di vista prammatico, e allora essa mira "a determinare quello che l'uomo come essere libero fa, oppure può e deve fare di sé stesso". In questo caso la conoscenza dell'uomo, che l'antropologia delinea, è dominata dal presupposto della libertà, di cui l'uomo gode, e per cui può adoperare in vario modo e senso le proprie forze; ed è diretta a un fine che è l'uso diverso che l'uomo può fare della conoscenza di sé. Qui, però, conviene tenere presente una importante differenza, su cui il Kant molte volte (Grundlegung, parte 2a; Kritik d. prak. Vernunft, s. 2a; Pädagogik) insiste: la differenza fra prammatico e pratico. Prammatico è, in genere, tutto ciò che si riferisce all'umano agire, quali che siano i suoi fini; pratico è ciò che si riferisce in particolar modo all'azione morale, ed è quindi sinonimo di etico: l'azione umana è, infatti, o genericamente rivolta al conseguimento dei varî fini empirici della vita, i quali tutti però si riconducono a quello del maggior piacere, oppure è rivolta all'attuazione di una norma categoricamente imperativa, cioè di una legge, che è quella appunto della moralità. Ora, a seconda che la condotta umana sia intesa nell'uno o nell'altro senso, l'antropologia sarà o genericamente prammatica, o specificamente pratica. I due termini di antropologia prammatica o di antropologia pratica sono però dal Kant qualche volta scambiati l'un con l'altro, non per confusione di concetti, ma perché, in verità, l'antropologia pratica o morale è ciò che massimamente importa nell'antropologia prammatica; e questa, quindi, può dirsi che si riduca o si appunti in quella. Onde si capisce che, se il Kant ha dedicata un'opera speciale all'Antropologia prammatica, egli poi nelle opere di morale si riferisca esclusivamente all'antropologia pratica, che considera come la parte empirica dell'etica: "come la fisica avrà, oltre la sua parte empirica, una parte razionale; così anche l'etica: qui la parte empirica potrebbe ricevere particolarmente il nome di Antropologia pratica, la parte razionale quella propriamente di Morale". Ma vorrebbe che, come alla parte empirica della fisica deve precedere la parte razionale, cosi "l'antropologia pratica sia preceduta da una metafisica dei costumi". E altrove: "non si può fondare la metafisica dei costumi sull'antropologia, ma si può ad essa applicarla". Dato un tale concetto della antropologia prammatica, il Kant ne divide la trattazione in due parti: 1. la didattica antropologica, che determina le vie, per le quali si può conoscere l'interno e l'esterno dell'uomo nelle sue tre forme di attività: la conoscitiva, la sentimentale, l'appetitiva; 2. la caratteristica antropologica, che determina in che modo e per quali dati e segni si possa dall'esterno conoscere l'interno dell'uomo. Della prima parte, che dà, in complesso, un bel quadro, in gran parte accettabile dalla scienza moderna, della psicologia umana in rapporto con la pratica, sono da rilevarsi, in mezzo alle molte acute e, spesso, argute osservazioni, la trattazione dei cinque sensi e l'apologia della sensibilità, l'analisi dell'immaginazione, delle varie forme di anomalie psichiche (sulle quali, naturalmente, alcune considerazioni sono oggi superate dai progressi della psichiatria), delle emozioni e delle passioni, che egli nettamente distingue (l'emozione, egli dice, è un'ebbrezza; la passione è una malattia; le passioni non sono soltanto, come le emozioni, disposizioni disgraziate, unglückliche, dell'anima, gravida di molti mali, ma sono senz'eccezione cattive; l'emozione reca una momentanea offesa alla libertà e al dominio di sé stesso; la passione vi rinuncia, e trova il suo piacere e la sua soddisfazione nella schiavitù). Della seconda parte dell'opera sono interessanti e giuste le distinzioni fra carattere naturale (ciò che la natura fa dell'uomo) e carattere morale (ciò che l'uomo fa di sé), fra le varie specie di temperamento (temperamenti a base sentimentale, che sono o sanguigni o melanconici, e temperamenti a base impulsiva, che sono o collerici o flemmatici), e le osservazioni circa le caratteristiche dei due sessi e dei principali popoli europei. Nei rapporti con la cultura e con l'anima italiana sono da rilevare, nell'Antropologia del Kant, che è delle opere di lui una delle più scintillanti di arguzia, di osservazioni psicologiche, di richiami storici, di citazioni poetiche, diverse cose:1. la conoscenza che egli mostra di avere (parte 1ª, § 60) - certo, però, per via indiretta - di un'opera psicologica nostra, allora celebrata, cioè il saggio di P. Verri sull'Indole del piacere e del dolore (1773), tradotto in tedesco da Ch. Meiners nel 1777; 2. la citazione che fa di grandi Italiani: dell'Ariosto, a cui attribuisce una fantasia sbrigliata per grande ricchezza (parte 1a, § 33); di Leonardo, che chiama un vasto genio, perché geniale in molte discipline (§ 57); di Pico della Mirandola, di G.C. Scaligero, del Poliziano, del Magliabechi, che dice uomini dalla memoria meravigliosa (§ 34); di G.B. Della Porta, che rammenta per il suo tentativo di paragonare, a scopi di fisiognomica, alcune teste d'animali a certi volti caratteristici di uomini (parte 2a, cap. 3°); 3. il breve cenno che fa della psicologia dell'Italiano (parte 2a, cap. 3°), che merita di essere riassunto, come indice del giudizio che era dato di noi all'estero sul finire del sec. XVIII: "L'Italiano concilia in sé la vivacità francese e la fermezza spagnola; e, come la vista che dalle sue Alpi si gode delle incantevoli valli, contiene in sé la materia, per un lato, dell'attività, per l'altro, del sereno godimento. C'è in lui una tendenza a sentire il sublime in quanto è conciliabile col senso del bello. Nella fisionomia dell'Italiano si rivela un forte gioco di sentimenti, e il suo volto è pieno di espressione. Come il Francese emerge nel gusto della conversazione, così l'Italiano emerge nel gusto artistico. Il primo ama di più i godimenti privati, l'altro di più i pubblici: cavalcate pompose, processioni, grandi spettacoli, carnevalate, mascherate, splendore di edifici pubblici. Questo è il lato buono dell'italiano. Il lato brutto è questo: gli Italiani, come dice il Rousseau, conversano in sale splendide, e dormono in topaie. Ma il peggio è l'uso del coltello, i banditi, il rifugio degli assassini in luoghi sacri, il trascurato servizio di polizia, ecc.".

Concetti diversi dell'antropologia si trovano presso altri filosofi. Per il Hegel (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, traduzione di B. Croce, Bari 1907, III,1) l'antropologia è quella scienza che corrisponde a uno dei momenti dello sviluppo dialettico dello spirito soggettivo, a quello, cioè, nel quale lo spirito non è ancora giunto a determinarsi in sé "come soggetto per sé", in cui quindi esso e spirito naturale o anima (sia che questa viva nell'universale vita planetaria o nei particolari spiriti naturali o nel soggetto individuale e ne' suoi varî momenti e rapporti); oppure anima che sente la propria totalità, anima senziente, e quindi anche abituantesi (eingewöhnende); oppure anima che si realizza esteriormente e si esprime nella figura, nel portamento, nel tono spirituale diffuso nel tutto "il quale manifesta immediatamente il corpo come l'aspetto esterno di una natura più alta".

Il Lotze invece, nel suo Microcosmo, che egli chiama "Saggio d'antropologia" espone tutta quanta una teoria dell'uomo considerato nella pienezza dei suoi rapporti con il corpo, con la natura e con la storia.

Per Antonio Rosmini l'antropologia in generale si propone di determinare "la natura di questo essere tanto meraviglioso" che è l'uomo; e l'antropologia da lui svolta ampiamente in una delle sue opere più ricche e sottili (1838) è quella che "fa conoscere l'umana natura in rispetto alla moralità", è "l'antropologia in servizio della scienza morale". Ma siccome per lui l'uomo è un soggetto animale, intellettivo e volitivo, ne viene che l'antropologia studia l'uomo nella sua animalità tanto passiva (sensitività, fantasia) quanto attiva (istinto), e nella sua spiritualità del pari o passiva (intelletto) o attiva (volontà); e dimostra come nell'uomo tutto sia connesso e tendente ad un fine: la materia, dice, investita del sentimento animale dà origine al soggetto attivo che nell'unità dell'istinto si costituisce come individuo; sopra di questo, per l'azione del principio ideale, sorge la persona, la quale, in virtù del rapporto onde le leggi dell'essere reale si collegano e corrispondono alle leggi dell'essere ideale, "entra nella sfera di quelle cose che partecipano dell'infinito, che acquistano un infinito prezzo"; ma poiché il soggetto, che così si è costituito, liberamente sì sottomette a quelle leggi, esso "s'unisce di proprio moto a tutti gli enti, al fonte degli enti; non fruisce più solo di sé, minima particella di essere, ma fruisce di tutta l'entità, e nel mare dell'essere essenziale trova e riceve la propria felicità: questo è il fine dell'uomo, l'altissimo fine della persona, e conseguentemente della natura umana". L'antropologia è dunque per il Rosmini concepita e svolta, bensì, in servizio della morale, ma, in quanto questa s'inserisce nell'ordine dell'essere, l'antropologia finisce col diventare la scienza filosofica di tutto l'uomo nel suo rapporto essenziale con la realtà. Questo concetto così vasto e comprensivo dell'antropologia non è stato più conservato da taluni discepoli del Rosmini, come il Pestalozza e il Morando, i quali, invece, del pari riducono l'antropologia a psicologia.

Più vicino al Rosmini nel concetto dell'antropologia è rimasto l'Allievo, il quale la definisce come "la scienza che ha per oggetto l'essenza umana vivente in tutti i singoli individui della specie nostra", e definendo poi l'uomo "persona incorporata" viene ad esprimere l'essenza costitutiva di lui, "essendoché, dicendolo persona, si accenna al principio spirituale, che in lui è principio supremo e dominatore e lo contraddistingue da ogni altro essere del sensibile universo, appellandolo poi persona incorporata, ossia congiunta con un corporeo organismo da essa informato, si accenna alla sostanza materiale, che animata dallo spirito nell'uomo lo diversifica da Dio e dalle pure intelligenze". E ricerca poi come il principio della persona informa di sé tutta la vita umana nei suoi momenti, nelle sue potenze e nel carattere morale. Talché l'antropologia appare anche qui concepita e svolta in servizio della morale e, quindi, dell'educazione.

Da questo si vede come il concetto dell'antropologia elaboratosi nella filosofia italiana del sec. XIX si sia scostato parecchio da quello del Kant, poiché laddove questo è tutto dominato dal principio della filosofia critica, secondo cui dell'uomo noumeno, cioè del principio essenziale che lo costituisce, non si può fare scienza, onde l'antropologia è ridotta ad essere una descrizione dell'uomo nell'unità dei suoi poteri e delle sue manifestazioni, allo scopo di fornire quella conoscenza che può servire ai varî fini della vita, e, in primo luogo al fine morale; il concetto, invece dell'antropologia italiana è tutto dominato dal principio spiritualistico, che informa di sé la natura dell'uomo. Ma, data anche tale differenza fondamentale, rimane costante il proposito di collegare intimamente la conoscenza antropologica ai fini pratici della condotta, e precisamente al fine morale e all'educazione: in tutti è comune il pensiero che non si possa costruire una dottrina morale e pedagogica senza una conoscenza filosofica di quel che è l'uomo nella sua unità di essere fisico e spirituale, d'intelligenza servita da organi, e rivelantesi e operante moralmente nel carattere. In tale intimo rapporto dell'antropologia con le discipline della pratica sta la ragione della consuetudine conservatasi a lungo nell'insegnamento universitario di denominare una medesima cattedra con la duplice designazione di antropologia e pedagogia. Con tal nome infatti era, fino all'Allievo, indicata la cattedra, oggi di pedagogia, all'università di Torino; e nello stesso Regno di Sardegna, a Cagliari, essa era denominata di psicologia e pedagogia.

Bibl.: Kant's gesamm. Schriften, ed. Königl. preussische Akademie d. W., VII, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Berlino 1907. Della Antropologia di Kant esiste lat raduz. ital. di G. Vidari, Torino 1921; G. W. F. Hegel, Werke, Berlino 1832, segg., specialm. VII, ii (traduz. ital. della Enciclopedia a cura di B. Croce, Bari 1907); R. H. Lotze, Mikrokosmos, Lipsia 1856-1864 (traduzione ital. del vol. I di F. Bonatelli, Pavia 1911, del vol. II di G. Capone Braga, Milano 1916); A. Rosmini, Antropologia in servizio della scienza morale, libri 4, Milano 1838, 2ª ed. riveduta dall'A. e dedicata alla R. Accademia delle scienze di Torino, Novara 1847; G. Allievo, L'uomo e il Cosmo, Torino 1891; id., Attinenze tra l'antropologia e la pedagogia. Il concetto antropologico principio informatore della scienza pedagogica, in Opuscoli pedagogici, Torino 1909; A. Pestalozza, Elementi di filosofia, Napoli 1860; G. Morando, Corso elementare di filosofia, Milano 1898; D. Mercier, Les origines de la psychologie contemporaine, Lovanio 1897; C. Caviglione, Bibliografia delle opere di A. Rosmini, Torino 1925.

L'antropologia come scienza naturale. - Anziché una serie di opinioni su ciò che la scienza antropologica dovrebb'essere secondo i diversi autori, è più interessante, e obiettivamente più importante, esporne lo sviluppo storico.

Lo sviluppo storico dell'antropologia si divide in due grandi periodi: l'uno il preparatorio, intuizionistico e descrittivo, che, partendo dall'antichità greco-romana, arriva sino al 1839, anno della fondazione della Società di etnologia di Parigi, per opera di W. Edwards; l'altro, il moderno, più propriamente scientifico, a partire da questa data.

Già nel primo periodo troviamo che più correnti di studî hanno confluito alla determinazione di ciò che fu poi chiamato antropologia, di guisa che, per poterci render conto adeguato dei diversi fattori, l'esposizione dello sviluppo storico deve risultare necessariamente discontinua.

Sullo sviluppo dell'antropologia hanno influito fattori numerosi e di natura assai diversa: il grado dell'esplorazione del globo terracqueo, che naturalmente è venuto moltiplicando la materia di studio specifica dell'antropologo, i tipi umani; l'evoluzione delle scienze naturali e soprattutto della zoologia; il dibattito tra monogenisti e poligenisti (cui sono legati più o meno tutti i tentativi di classificazione), di carattere filosofico e religioso da principio, e che ha assunto col tempo un aspetto più naturalistico; lo sviluppo della craniologia, iniziatosi con scopi estetici e zoologici; un'esigenza di puro valore intellettivo e logico, sorta in seno alle scienze morali, al principio del secolo scorso, e che fece concepire a storici, linguisti, psicologi, la necessità di una conoscenza naturalistica dell'uomo; il sorgere della teoria evolutiva, il cui valore è stato esagerato; la scoperta degli utensili e dei resti fossili dell'uomo preistorico; il contributo portato dagli anatomici alla conoscenza morfologica delle razze umane e dei primati.

Passando a tempi più moderni dobbiamo ricordare: una non piccola influenza, almeno per certi paesi (Germania), derivata da idee di colore politico, di prevalenza e superiorità di alcune razze in confronto di altre (teoria di Gobineau); la rinascita delle ricerche sulla eredità, con la riscoperta delle leggi di Mendel; l'affermarsi nel campo della medicina delle nuove dottrine sulla costituzione, sull'azione delle ghiandole endocrine e sui gruppi sanguigni.

Molti fatti ci obbligano a ritenere che un'idea più o meno precisa delle differenze fisiche fra i popoli diversi esistesse fra i Cinesi fin da tempi antichissimi. Per quello che riguarda gli Egiziani, sopra monumenti sepolcrali della XVIII dinastia già vediamo rappresentazioni pittoriche di tipi diversi. Ma le conoscenze divengono assai più precise e acquistano un carattere che si può dire scientifico nell'antichità greca. Erodoto è il più antico scrittore greco in cui siano esposte le differenze fisiche dei diversi popoli, e descritti i loro usi e costumi. Ippocrate, nel suo libro De aëre, aquis et locis, constatate le differenze fisiche fra i popoli, le ritiene prodotte dalla differenza di ambiente, facendo così anche la prima enunciazione dell'influenza dell'ambiente a determinare le caratteristiche umane, con la teoria della eredità dei caratteri acquisiti.

In un tempo così remote, quindi, noi dobbiamo ammettere che già si avesse una nozione della "razza", e che già si tentasse di spiegarne l'origine.

Aristotele concepì l'uomo come animale, considerandolo così da un punto di vista zoologico. Egli ammise come sue caratteristiche principali lo sviluppo del cervello e la stazione bipede fra i caratteri fisici, la capacità di ragionare e il linguaggio articolato fra i caratteri psichici. Nella sua Historia animalium sono contenute numerose asserzioni che provano il suo grande spirito di osservazione naturalistica.

Indirettamente, cioè per la sua opera in favore dell'anatomia, merita di essere ricordato Galeno. Dopo Galeno, per quasi un millennio, si può dire che non esista alcun avvenimento notevole per la nostra scienza.

Importanza grande ha la rinascenza dell'anatomia, alla quale l'Italia prese la più gran parte e che, iniziata da Mondino, si continuò attraverso una schiera di scopritori: Vesalio, Eustachio, Falloppio, Colombo, Silvio. La rinascita dell'anatomia umana dava un forte impulso al progresso delle conoscenze collaterali e poneva il fondamento della biologia, da cui dovevano venire alla luce le branche speciali della scienza della vita.

I grandi viaggi di esplorazione della terra fecero conoscere una massa di materiale nuovo in fatto di animali, di piante e anche di tipi umani diversi, da cui risultarono compiti immensi per le scienze naturali; queste venivano lentamente formandosi, per opera soprattutto dei medici, e allontanandosi a poco a poco dall'autorità di Aristotele. Ricorderemo nel'500, come promotori delle scienze biologiche, Aldrovandi, Cesalpino, per l'Italia; Belon, Paré, per la Francia; Coiter per la Germania.

La scoperta dell'Orango per opera dell'olandese Bontius e il trasporto dello Scimpanzè fatto dall'olandese Tulpius in Europa, nella prima metà del'600, dovettero colpire fortemente le immaginazioni, non meno dei singolari tipi umani, che venivano alla luce, se il Tyson credeva di dover spendere una memoria intera per dimostrare che lo Scimpanzè (da lui erroneamente creduto identico all'Orango) non era un uomo, come si era preteso (1693). Possiamo a ragione vedere in questo libro uno dei primi documenti, oltre che dell'anatomia comparata, della vera e propria morfologia più strettamente antropologica, per quanto ancora non si possa parlare di scienza antropologica. Per lunghissimo tempo questa memoria rimase senza imitatori.

Intanto le scienze naturali con l'inglese John Ray (1680) arrivavano al concetto di "specie" e con Linneo conquistavano la loro nomenclatura e una classificazione che, se non altro, introduceva l'ordine nel caos degli esseri, la cui c0noscenza le recenti scoperte avevano moltiplicata. L'opera fondamentale di Linneo, Systema Naturae, ebbe, vivente l'autore, dodici edizioni. Certo Linneo rese alla scienza un immenso servigio, rendendo possibile la condizione fondamentale della scienza, cioè l'intendersi sugli oggetti studiati. Si è anche esagerato, parlando dell'ortodossia di Linneo. Certo in lui il naturalista non era sopraffatto dal credente. Infatti egli, nella decima edizione del suo trattato, poneva l'uomo e gli antropomorfi nello stesso genere, asserendo non esser nella natura fisica degli uomini un carattere che li distingua essenzialmente dagli antropomorfi, la distinzione essendo solo nella ragione, di cui l'uomo è dotato da Dio. Anche le caratteristiche che egli dà delle quattro grandi razze umane sono felici e dimostrano le sue alte doti di osservazione.

L'immenso materiale zoologico raccolto dai viaggiatori intanto trovava la sua parziale sintesi nell'opera del Buffon. Questi non soltanto raccoglieva in mirabili quadri la vita degli animali, e non soltanto esponeva più o meno apertamente le prime idee del trasformismo e della selezione naturale, ma con metodo perfettamente simile, trattava delle varietà umane, per le quali egli, primo a quanto pare, introduceva la denominazione di razze. Sotto forma di un viaggio per il mondo egli descrisse successivamente i gruppi etnici principali allora noti, raccogliendo tutte le indicazioni dei caratteri fisici, morali, etnografici, raccolti dai viaggiatori.

Le variazioni dei caratteri fisici sono ricondotte da lui a tre cause: il clima, il nutrimento e i costumi. Questi ultimi, secondo il Buffon, interverrebbero a schiacciare il naso, a stirare le palpebre, a ingrossare le labbra e simili. Ma il clima soprattutto, secondo il Buffon, avrebbe determinato le caratteristiche più appariscenti delle razze umane. Di esse egli non ci fornisce un numero definito.

La concezione della scienza dell'uomo del Buffon è quella di una scienza, per quanto imperfetta, in sé completa. Egli ci espone tutto degli uomini, dalle caratteristiche fisiche alle sociali. È una concezione perciò sintetica, integrale. È interessante che la prima affermazione sistematica, espositiva, della nostra scienza abbia questo carattere. Questo dato ci aiuterà a comprendere più rettamente certi sviluppi posteriori, che apparentemente negherebbero tale concezione integrale.

Nella scienza dell'uomo del Buffon lo strumento fondamentale della biologia, la conoscenza delle forme, la morfologia, è appena iniziata. Questa ad un tratto raggiunge col Blumenbach la sua piena maturità ed uno stato di perfezione e di vigore, che può servire ancora oggi di modello. Il merito del Blumenbach nella storia dell'antropologia consiste appunto in questo: nell'aver egli dato alla scienza una metodica rigorosa e capace di sviluppi, per la quale sarebbe stato in avvenire possibile costruire il fondamento dell'antropologia.

Recentemente in Germania si è insistito sull'opera antropologica del Kant, al quale si è attribuita una teoria dell'origine delle razze, per sviluppo di disposizioni native ereditarie: esse sarebbero comprese tutte nell'unico tipo primitivo e avrebbero trovato nei diversi ambienti occupati dagli uomini la ragione del loro manifestarsi. A lui anche viene attribuito il merito di avere insistito sulla necessità di passare dalla Naturbeschreibung alla Naturgeschichte, cioè dalla pura descrizione alla storia della natura. La divisione delle razze umane attribuita al Kant e riferita anche dal Topinard, non è la vera classificazione del Kant. Questa del resto è molto inferiore a quella, quasi contemporanea, del Blumenbach.

La disputa fra monogenisti e poligenisti, fra coloro che opinavano avere l'uomo un'unica origine e quelli che opinavano avesse origine multipla, è stata uno degli stimoli per lo sviluppo dell'antropologia, ma anche una fonte di contese senza risultati e di perdita di energie. Questa disputa dev'essere antichissima, sebbene solo voci isolate si siano espresse in sengo più o meno contrario alla dottrina monogenista, sino a che Teofrasto Paracelso, e più esplicitamente ancora Isacco de la Peyrère si espressero in senso poligenista (1520). Da allora le professioni di fede poligenista si moltiplicarono. Notevole fu un saggio anonimo pubblicato a Londra nel 1695, che è animato da uno spirito scientifico affatto moderno. Le risposte dei monogenisti furono ancora più numerose, fra cui ricorderemo quella del Fabricius (1721). Alla fine del '700 apparve uno degli scritti poligenisti più importanti, quello di lord Kaimes, in cui a ragione molti vedono anche la prima affermazione della sociologia moderna (1775). In senso monogenistico si espressero invece il famoso John Hunter, anatomico inglese, e lo Zimmermann, geografo tedesco.

La disputa fra monogenisti e poligenisti però, in principio di carattere religioso-teologico, era venuta a poco a poco acquistando un carattere sempre più scientifico e naturalistico. Questo carattere si rivela appieno nell'opera del Blumenbach: De generis humani varietate nativa (1775). In essa l'autore raccoglie ed esamina tutti gli argomenti di ordine puramente scientifico, cioè anatomico, fisiologico, psicologico, che parlano per l'unità della specie Uomo. Per quanto sotto una veste polemica, questo libro costituisce un vero corso di antropologia. Molti ritengono che il Blumenbach possa realmente dirsi il fondatore dell'antropologia in senso moderno. Ciò forse è dir troppo. Ottimo naturalista, il Blumenbach ha per le grandi questioni della specie, delle razze, delle relazioni dell'uomo col resto della natura, idee completamente tradizionali e linneane. Come dice il Topinard, il Buffon è a grande distanza da lui, per estensione di vedute filosofiche e per chiaroveggenza sulle più importanti questioni teoriche.

Nell'800 fra i monogenisti dobbiamo menzionare il Cuvier, il quale però non prese una parte attiva nella discussione. Il campione del monogenismo per la prima metà dell'800, fu l'inglese Prichard, medico e linguista, al quale dobbiamo un buon trattato di antropologia (3ª edizione in 5 voll.: 1836). Accanto a lui, e contemporaneo, l'inglese Lawrence è degno di speciale ricordo, perché nella sua opera si trova nettamente distinto il concetto della mutazione o variazione ereditaria da quello della variazione semplice, dovuta all'ambiente e non trasmissibile. Fra i poligenisti assai notevoli sono il Bory de Saint-Vincent e il geniale Desmoulins.

A proposito delle classificazioni, si può dire che la loro storia è un riflesso della storia dell'antropologia, giacché nella classificazione, soprattutto nel passato, si riassumevano i risultati dell'osservazione naturalistica dell'uomo, dapprima nella loro natura prevalentemente intuitiva e sintetica, che divenne poi sempre più analitica e riflessa. In realtà la classificazione ha il valore della morfologia del tempo.

Può dirsi che il medico e viaggiatore Bernier diede la prima classificazione, a cui seguì quella dell'astronomo Bradley. È interessante osservare che entrambi non si valsero del colore. Del resto anche la classificazione di Linneo, basata apparentemente sul colore, è fondata in realtà sopra altri caratteri. Seguirono numerosissime altre classificazioni, ma raggiunse la maggior notorietà quella del Blumenbach. Nella terza edizione del suo trattato (1795) essa è così formulata:

1. Varietà caucasica. Abitanti dell'Europa, salvo i Lapponi ed i Finni; abitanti dell'Asia occidentale, fino al Gange, abitanti del nord dell'Africa.

2. Varietà mongolica. Asiatici orientali e Lapponi, Samoiedi, Eschimesi.

3. Varietà etiopica. Negri d'Africa.

4. Varietà americana. Abitanti dell'America.

5. Varietà malese. Malesi e Polinesiani.

ll Blumenbach sembra aver fondata la sua classificazione sopra molti caratteri.

Anche nei primi 40 anni dell'800 non mancano tentativi di classifìcazione, spesso dovuti a zoologi famosi, come il Duméril (1806) e il Cuvier. Le più notevoli, perché veramente rappresentative dei progressi della scienza, sono quelle del Desmoulins (1825) e del Bory de Saint-Vincent (1827). Il primo ammetteva 16 specie, il secondo 15. Nella classificazione del Desmoulins è da notare l'assunzione di una specie semitica e quella di una specie ainu. Più felice è l'assunzione di una specie austroafricana, per il gruppo boscimano-ottentotto, che per la prima volta fa gruppo a sé. La classificazione del Bory de Saint-Vincent è, in complesso, meno felice. Entrambe le classificazioni ammettevano per le popolazioni europee più razze; nella prima classificazione, anzi, queste razze europee appartengono a specie diverse.

Facendo astrazione da qualche tentativo di Vesalio, lo Spiegel per il primo, nel 1600, cercò di determinare la forma del cranio, valendosi di quattro misure, e inaugurando così la craniometria. A lui seguì il Daubenton, che misurò con un angolo la posizione del foro occipitale, di cui egli vide tutto il significato per determinare le differenze del cranio dell'uomo da quello degli animali (1764). A Pietro Camper risale però il merito di aver fondato il metodo grafico e il metodo delle proiezioni in craniometria, con la misura del famoso angolo facciale, detto di Camper, che rappresenta l'aggetto del bordo alveolare verso l'innanzi (1791). Il Blumenbach ebbe della craniologia un'idea più esatta e più completa. Del resto egli, si può dire, pose le basi della metodica e della tecnica antropologica in generale. È molto significativo che egli abbia molto insistito sul metodo descrittivo, di cui diede nella sua opera Decades craniorum esempî degni di ammirazione, per la perspicacia e finezza dei suoi risultati, ancora validi a più di cento anni di distanza. L'importanza da lui accordata alle caratteristiche descrittive della faccia per la distinzione dei tipi umani, doveva essere riscoperta e lo studio di queste caratteristiche portato innanzi solo questi ultimi anni. Dopo il Camper e il felice successo del suo angolo, molti altri autori ne proposero dei nuovi più o meno fondati o, più ancora, proposero sistemi di linee, fra cui felice quello dello Spix (1815). Lo sviluppo della craniometria fu più o meno influenzato dal diffondersi della frenologia, ma ben presto essa si liberò da quell'influenza perturbatrice. In Francia fra i craniologisti ricordiamo il Parchappe (1836), uno dei pochi immuni dalle concezioni frenologiche, che propose alcune misure che dimostrano senso della craniometria. Ma il vero fondatore della craniometria si deve considerare l'olandese Van der Hoeven (1837), che propose un insieme di misure, che, su per giù, sono quelle in uso ancora oggi. In America il Morton, il cui nome è essenzialmente legato alla craniologia, stabilì un altro sistema di misure (1839). Alla fine del primo quarto dell'800, la scienza dell'uomo poteva dirsi costituita, almeno per gli studiosi di essa; ma il riconoscimento in più larghi circoli dell'opinione scientifica mancava ancora. Essa poteva sembrare, e sembrò certo a molti, una raccolta di curiosità, senza una grande utilità conoscitiva; inoltre, i dati diversi che sulle diverse razze umane erano raccolti dalla scienza (caratteri esterni, fisiologici, psicologici, etnografici), erano semplicemente giustapposti, senza che fosse dimostrato o reso probabile un legame fra loro: la scienza era, in poche parole, "descrizione della natura" più che "storia della natura".

Ma le cose maturavano, e maturavano in favore dell'antropologia, proprio nel campo delle scienze morali. Due grandi storici, i due Thierry, studiando la storia dell'Inghilterra e quella della Francia, arrivavano alla conclusione che gli avvenimenti politici, le istituzioni, il carattere morale, la vita, in breve, delle due nazioni si spiegavano col sovrapporsi, come per stratificazioni, di popoli diversi conquistatori, le cui diverse anime persistevano, in certa maniera, nelle due nazioni, determinando un intreccio di azioni e reazioni interne. Essi postulavano perciò, a causa dei fenomeni storici, la presenza di razze diverse. Queste razze naturalmente rimanevano nell'opera dei due Thierry razze storiche, sebbene, certo, essi dovessero pensare che quelle razze fossero caratterizzate da differenze fisiche. La dimostrazione di ciò fu data, coi mezzi allora a disposizione, dal fisiologo W. Edwards, in una famosa lettera ai due Thierry, che suscitò grandi discussioni e scalpore. L'interesse destato da questa lettera era giustificato: con essa veniva stabilita l'importanza della conoscenza naturalistica dell'uomo a comprendere i fatti di ordine morale, e veniva indicato come le razze europee (di cui già il Desmoulins e il Bory de Saint-Vincent avevano indicato la pluralità) fossero, oltre che per i caratteri fisici, diverse per disposizioni morali e intellettuali.

Ciò, dopo il favore dell'ideolog;a che aveva proclamato una generica e astratta eguaglianza degli uomini, era un grande passo. A torto il Topinard afferma che anche con l'Edwards si sia in presenza di razze storiche. Il testo della lettera dell'Edwards è esplicito. La sua ricerca dei caratteri fisici delle razze europee, caratteri che egli cercava, soprattutto, nelle "diverse proporzioni dei tratti del viso" (ponendosi così vicino al Blumenbach), mette fuori di ogni dubbio che, con l'Edwards, noi siamo a trattare di razze "naturalistiche"; del resto egli esplicitamente diceva di portare una conferma "fisiologica" alla teoria dei Thierry. Le osservazioni dell'Edwards naturalmente riuscivano una grande affermazione della dottrina delle razze e dell'antropologia, che ne usciva ingrandita, come scienza esplicativa. E non solo storici, ma anche linguisti, etnografi, sociologi, vedevano nella dottrina delle razze l'ubi consistam delle loro ricerche. W. Edwards comprese che queste esigenze erano della più grande portata per lo sviluppo dell'antropologia, che esse sarebbero state la spinta migliore per la costituzione della dottrina delle razze e fondò, appunto fra cultori di scienze storiche e geografiche, la Società di etnologia (1839), con la quale parola egli intendeva veramente l'antropologia etnologica.

Nelle istruzioni per i viaggiatori, che questa società compilò, appaiono in prima linea le indicazioni per il rilievo dei caratteri fisici: segno della primaria importanza che a questi assegnava l'Edwards. La società fu composta in gran parte di cultori di scienze morali. L'indirizzo morfologico e naturalistico perciò non vi poté prosperare e dopo alcuni anni di scarsa attività essa finì. Vi si era però formato il De Quatrefages, che sintetizzò l'opera gloriosa della società, quando disse che "essa aveva portato le scienze morali e le scienze fisiche dell'uomo sopra un terreno comune".

L'antropologia con l'Edwards aveva cessato di essere una scienza descrittiva, per divenire una scienza esplicativa, aveva cessato di essere una giustapposizione di fatti, per essere, sempre più, organizzazione di conoscenze intorno all'uomo. L'antropologia era riconosciuta come scienza a sé da quelle dottrine che sembravano, per il passato, più distanti dal punto dì vista naturalistico. Mentre per il passato le voci dei poligenisti erano state poco numerose e con scarso seguito, dopo il 1840 troviamo nomi di prim'ordine tra essi; p. es.: James Hunt, in Inghilterra; Agassiz, Nott e Gliddon in America; Pouchet, Broca, in Francia; Vogt in Germania. Molti di questi pubblicarono lavori assai estesi. Si può dire che la controversia tacque nel 1861, con la pubblicazione del libro del De Quatrefages, L'unità della specie umana, apparentemente con la vittoria del monogenismo. In realtà si venne sempre più diffondendo la convinzione che la questione per il momento non si poteva risolvere in maniera veramente esauriente. Solo negli ultimi tempi si riaccese la questione in Italia, dando luogo ad una lunga polemica fra G. Sergi e V. Giuffrida-Ruggeri: il primo difendeva il punto di vista poligenistico su basi quasi esclusivamente tassinomiche, il secondo il punto di vista monogenistico. Anche in Germania, oltre a pochi minori, il poligenismo trovava inaspettatamente un campione in H. Klaatsch, il quale però non ebbe il tempo di darci un sistema completo e si contentò di affermazioni frammentarie ed in complesso poco persuasive.

A proposito delle classificazioni, nel secondo periodo della storia dell'antropologia, si può osservare che i pochi conoscitori veri e proprî della morfologia della gran parte delle razze umane si astengono per lo più dal fare classificazioni. Ciò valga per es. per il Broca, il Virchow, il Turner, il Martin, il Verneau. Al contrario qualcuna delle classificazioni più note è, persino, di persona che non ebbe famigliari i caratteri fisici delle razze umane, come, fra gli altri, il Keane. La classificazione che rappresentò per il suo tempo un progresso notevolissimo e che prova il genio di osservazione del suo autore, è quella di Isidoro Geoffroy Saint-Hilaire. Egli si valse per le sue divisioni della forma dei capelli, del carattere più o meno rilevato del dorso del naso e del colore della pelle; sussidiariamente poi, della forma degli occhi e dello sviluppo delle membra. Ma il punto più importante della classificazione suddetta è quello della assunzione a razza principale dei Boscimani-Ottentotti. Anzi pare che, nel pensiero dell'autore, parecchi caratteri di questo tipo gli facessero pensare ad un'origine speciale di esso, distinta dagli altri. Le razze principali da lui ammesse sono quattro: caucasica, mongolica, etiopica (negra), ottentotta, con 13 sottorazze. Diedero altre classificazioni il Huxley, il Haeckel, il Topinard, il De Quatrefages. Una delle più note e recenti classificazioni è quella del Deniker, che, presentata per la prima volta nel 1889, è stata successivamente rimaneggiata. Nella forma attuale (1926), essa assume sei grandi categorie con 29 razze, di cui 10 presentano divisioni in sottorazze. La classificazione si vale di moltissimi caratteri fisici. L'assunzione delle categorie però non è senza obiezioni, almeno formali. La moltiplicazione delle razze appare eccessiva e soprattutto la loro equivalenza (cioè il diritto ad essere assunte allo stesso valore) è dubbia in più di un caso. Per es., dare il valore di razza al tipo boscimano alla stessa stregua del tipo ibero-insulare è senza dubbio artificioso. La classificazione del Deniker si può definire come l'applicazione di quell'indirizzo morfometrico eccessivo, che critichiamo più oltre.

G. Sergi ammette (1911) 5 generi in tutta l'umanità:

1. Palaeanthropus (fossile, del tipo Neanderthal) con tre specie.

2. Notanthropus, con 6 specie di cui tre pigmee. Questo genere copre tutta l'Africa, l'Arabia, l'India anteriore, l'Indonesia, la Melanesia, l'Australia, la Polinesia; per ibridi col genere successivo l'Europa.

3. Heoanthropus, con 4 specie, di cui una ibrida per l'Europa. Questo genere abbraccia i Gialli.

4. Archaeoanthropus, genere estinto e che si riferisce ad alcuni cranî fossili dell'America del Sud (Necochea, ecc.).

5. Hesperanthropus, con una specie per l'uomo americano.

Il Giuffrida-Ruggeri invece ammette 8 specie elementari nel seno della specie collettiva uomo.

Continuando la storia della craniometria dopo il 1839, sarebbe difficile essere solo approssimativamente completi e dobbiamo ricordare solo i nomi più cospicui. In America l'Aitken Meigs (1861) autore di un sistema cranioscopico, che ha molta analogia con quello che G. Sergi stabilì molti anni più tardi. Un craniologo di grande valore, purtroppo morto giovane, fu H. Allen. In Inghilterra, il Williamson, in pubblicazioni poco reperibili, fece osservazioni craniologiche importanti e rimaste poco apprezzate. Noti sono invece il Davis, il Flower, il Busk, autori i due primi di cataloghi di cranî, con le relative misure, assai usati dai competenti. In Germania incontriamo molti nomi, fra i quali eminenti quello del v. Lucae, autore di pregiatissimi studî, di C.G. Carus, Ecker, His, Welcker, R. Virchow, Ranke, Kollmann. In Russia, il v. Baer e soprattutto il Bogdanov, al quale dobbiamo le lunghe serie di misurazioni dei cranî dei Curgani (monumenti sepolcrali). In Italia, va ricordato G. Sergi, autore di un sistema di cranioscopia basato sulle forme del cranio cerebrale, assai discusso, ma certamente di buon ausilio nella descrizione.

Negli ultimi tempi, il Sera ha dato un sistema craniologico, basato sullo studio dei rapporti fra cranio cerebrale e base del cranio (1920), e, in altro esteso lavoro, una sistemazione dei caratteri descrittivi della faccia in tutto il gruppo dei Primati, dimostrando l'importanza delle differenze fisionomiche complessive, per stabilire gruppi morfologici e filetici, in cui sono compresi anche gli uomini (1919). Ma la nazione dove la craniologia ebbe senza dubbio il più largo sviluppo, è la Francia e per opera di due illustri antropologi, A. De Quatrefages e P. Broca. La gara fra questi due insigni fu di un enorme beneficio all'antropologia e si può dire che sia stata in buona misura la ragione del primato della Francia, in quel tempo, in questi studî.

Il periodo dal 1860 al 1880 è pieno di questi due nomi, onde è necessario parlare alquanto di essi e soprattutto di P. Broca, la cui influenza sullo sviluppo dell'antropologia si puó dire ancora attiva. Il De Quatrefages va anzitutto ricordato, perché egli fu il primo vero e proprio insegnante ufficiale di antropologia

La storia di questa cattedra è interessante. Nel 1832 veniva fondata la prima cattedra di antropologia a Parigi presso il Museum d'Histoire naturelle, istituzione che, come è noto, riuniva e riunisce numerosi insegnamenti di scienze naturali. La nuova cattedra risultava dalla trasformazione di una cattedra d'anatomia umana, esistente da molto tempo. Questa trasformazione avvenne appunto in seguito alla lettera dell'Edwards che ravvivava l'interesse, già destato dall'opera del Buffon, per la storia naturale dell'uomo.

La trasformazione era molto importante, sebbene il profondo cambiamento che essa significava, per lo studio dell'uomo, sia ancor lontano dall'aver raggiunto il suo termine logico, anche ora a distanza di un secolo. Dal 1832 al 1855 la cattedra fu coperta da due uomini, che già avevano acquistato fama in altre scienze, il Flourens e il Serres, ma per i quali essa costituì più che altro l'attesa di una sistemazione più legittima. Solo nel 1855 saliva alla cattedra il De Quatrefages.

Il De Quatrefages poneva di colpo l'insegnamento dell'antropologia ad un'altezza che difficilmente, persino ora, raggiunge, per larghezza di trattazione, per sviluppo delle parti, per ricchezza di documentazioni. Basti dire che, già intorno al 1867, il De Quatrefages trattava la propria materia in un corso quadriennale, in cui due anni intieri erano dedicati alla storia particolare delle razze umane, storia ch'egli pensava di sviluppare in un altro anno di corso. Inoltre, il De Quatrefages arricchiva contemporaneamente la collezione antropologica del Museo, tanto che essa resta anche oggi una delle prime collezioni di Europa. Sono note poi le numerose opere date all'antropologia dal De Quatrefages. Non è perciò inutile ricordare, per comprendere appieno lo sviluppo storico della nostra scienza, come egli riconoscesse che tutta la sua formazione intellettuale era avvenuta nel seno della Società di etnologia, sotto la influenza dell'Edwards.

Il De Quatrefages fu spirito soprattutto sistematico, sintetico, espositivo. Se la sua influenza certo contribuì, attraverso la sua opera, a volgarizzare e a propagare la scienza, essa non stimolò altrettanto profondamente la ricerca. E ciò si comprende, pensando all'ambiente in cui egli si era formato, ambiente in cui si chiedevano alla giovine scienza risultati utilizzabili da ricercatori in campi affini e non già indirizzi, stimoli, e prospettive.

Mentalità del tutto diversa fu quella del suo emulo e contemporaneo, Paul Broca. L'esperienza degli scarsi risultati ottenuti dalla Società d'etnologia dovette indubbiamente fornire molta materia di riflessione al Broca. Il merito principale di lui rimarrà certo quello di aver compreso che bisognava creare alla giovine scienza il suo strumento essenziale, la morfologia umana, cioè la conoscenza più esatta e più minuta possibile della conformazione fisica delle diverse razze umane, che doveva costituire la base necessaria ad ogni ulteriore ricerca fisiologica, psicologica e sociologica. Pur non perdendo di vista gli scopi veri della scienza, egli comprese bene che questi scopi non erano raggiungibili direttamente e che bisognava preliminarmente eseguire un lavoro, a compiere il quale non era sufficiente l'opera individuale di uno studioso, per un insieme di ragioni: grandezza del compito, dispersione del materiale, necessità di studiare le razze umane in vivo, e cioè presso loro stesse. Il risultato di queste convinzioni fu duplice: personale e collettivo. Attraverso difficoltà numerose egli arrivò a costituire la Società di antropologia di Parigi, allo scopo di promuovere gli studî antropologici. La Società seppe dimostrarsì così attiva e valida, che fu riconosciuta dallo stato, appena cinque anni dopo, come di utilità pubblica. Caratteristica di essa, e ciò indica bene le idee del Broca in proposito, fu di esser costituita da principio esclusivamente da medici e naturalisti. Indizio della sua influenza nel mondo culturale e della reale importanza del movimento che essa rappresentava, fu la fondazione, dietro il suo esempio, di società simili a Londra nel 1863, a Madrid nel 1865, a Mosca nel 1866, a Firenze nel 1868 per opera di P. Mantegazza (il quale riunì le più ricche collezioni antropologiche esistenti in Italia, quelle di Firenze), a Berlino nel 1869 e successivamente in tutti i grandi centri culturali.

Personalmente poi, il Broca attese fino alla sua morte (1880) ad una serie di lavori d' ordine prevalentemente morfologico, che costituiscono un enorme cumulo di dati (molti dei quali perfino non pubblicati, ma accessibili agli studiosi nei registri di lui) tanto più ammirabile, in quanto il Broca non tralasciava l'attività professionale. Ma un altro merito non dimenticabile del Broca è quello di aver procurato di chiudere la controversia fra monogenisti e poligenisti. Pur inclinando al sistema poligenista, egli diffuse la coscienza dell'intempestività di questa controversia, che non senza ragione il Deniker chiama polemica scolastica, sterile e senza portata. Può dirsi senza fallo che lo sviluppo storico consecutivo dell'antropologia sia stato dominato dalla potente personalità del Broca, e che la sua influenza è tuttora sensibile, soprattutto in certe scuole. Da ciò sono risultati, come è naturale, vantaggi e danni. Fu un grave danno per l'antropologia che la morte abbia impedito che i risultati di quell'esperienza eccezionale fossero raccolti in un'opera riassuntiva e conclusiva, la quale avrebbe potuto indirizzare la ricerca ulteriore sopra strade migliori. La morte del Broca certo ha fatto perdurare la ricerca sopra linee, le quali per lo meno non sono così proficue e opportune come sarebbe stato desiderabile.

È indubitato che la coscienza della necessità di una documentazione morfologica assai più profonda è il nucleo sano dell'influenza del Broca, ma la forma ch' essa rivestì e gl'indirizzi che nutrì non hanno certo portato i risultati che se ne speravano. Si allude soprattutto dell'indirizzo metrico, che s'intensificò specialmente nella cosiddetta craniometria.

Ma anche a questo proposito bisogna osservare:

a) che il Broca iniziò solo un'esperienza, che forse era legittimo fare e che egli stesso probabilmente, se fosse vissuto, avrebbe a un certo punto interrotto;

b) che l'abuso del metodo metrico non è imputabile a lui;

c) che i risultati ottenuti col metodo metrico, se non ci hanno dato fatti di valore generale, ci hanno fornito mezzi di discriminazione subordinata non disprezzabili, nella faticosa opera di costruzione della dottrina delle razze umane.

Qui conviene ricordare che fra coloro che più hanno contribuito a porre in chiaro la giusta portata dei caratteri metrici, non esagerandola né diminuendola, è il Biasutti. E ciò, ponendosi sullo stesso terreno della morfometria e previo un ingentissimo lavoro di confronto dei dati della letteratura per tutta la superficie terrestre, avendo i suoi lavori, in fondo, scopi antropogeografici. Le ricerche del Biasutti hanno perciò anche una considerevole portata antropologica, avendo costituito, in certa guisa, la critica più esatta e coscienziosa dell'indirizzo morfometrico. Essi poi hanno dimostrato l'importanza dei fatti di distribuzione, anche per la ricerca filogenetica, importanza tanto più grande nella penuria di documenti cronologici, in quanto la "terminalità" (la situazione periferica) di certi tipi costituisce una prova della loro antichità.

Il difetto principale dell'attività di ricercatore del Broca risiede in un particolare aspetto della sua opera. Egli è, cioè, un morfologo puro. Come della sua produzione in genere si può dire che egli abbia in mira più l'antropologia zoologica (cioè la ricerca dei rapporti fra l'uomo in complesso e gli animali), che l'antropologia etnologica (cioè la ricerca dei tipi morfologici raziali), così il suo metodo pecca per lo scarso intervento di due considerazioni, che per il naturalista sono essenziali: la considerazione geografica e la considerazione cronologica. La sua provenienza dalla medicina, se gli fornì lo strumento anatomico, non indirizzò la sua mente ad un'analisi naturalistica delle forme, analisi che non può fare a meno del fattore geografico e del cronologico. Insistiamo sopra queste considerazioni, giacché i difetti ed i pregi dell'opera del Broca si sono perpetuati in buona parte della generazione attuale di studiosi. Il tipo di ricerca che il Broca introdusse può essere chiamato morfologico ed intensivo insieme; egli, nello studio di un particolare segmento osseo, moltiplicò le misure, le estese al maggior numero possibile di gruppi etnici, e stabilì certe medie etniche. Ma questo metodo non ci può rivelare il tipo che per eccezione.

Il tipo non può essere raggiunto se non estendendo la ricerca a tutta la superficie terrestre, e soffermandosi in quelle zone ove certe condizioni geografiche (situazione periferica, elevazioni montuose, isole) ci diano affidamento di maggior possibilità di trovare condizioni relativamente semplici. Un'analisi geografica il più possibile minuta di una serie di oggetti antropologici (supponiamo di cranî) di una certa provenienza, deve accompagnare l'opera del morfologo. Spesso la distanza di pochi chilometri in una vallata, anche nella nostra vecchia Europa, basta a mantenere diversi due gruppi di popolazione. Questa analisi geografica, è bene dirlo subito, non può essere sostituita da nessuna altra cosa. E ciò vale anche per i metodi cosiddetti biometrici, sui quali recentemente si sono poste speranze, allo scopo di mettere in luce i tipi, da una serie qualsiasi di miscela. Solo il dato cronologico, cioè la scoperta di un fossile, in cui noi possiamo riscontrare un certo carattere ed attribuirlo così ad un certo periodo, può portar luce ulteriore al metodo geografico.

Tale metodo naturalistico, estensivo, è l'unico che possa portare ad una vera conoscenza dei tipi e ad esso in realtà, o per dir meglio alla sua applicazione parziale e spesso non chiara neppure al ricercatore stesso, si devono molti dei risultati più sicuri raggiunti in ordine allo scopo di stabilire dei tipi. Ma la più gran parte del lavoro eseguito dopo il Broca, nel territorio delle caratteristiche umane, è stato purtroppo puramente morfologico, spesso anzi strettamente morfometrico. Ciò ha legittimato un movimento recente contro la morfologia e il metodo morfologico, di cui diremo in seguito.

Un antropologo francese del periodo del Broca e del De Quatrefages, che rimase un po' nell'ombra per il grande risalto delle due massime figure, fu Pruner-bey. I risultati dei suoi studî sui tipi di capigliatura valgono ancora oggi. Fece anche buone descrizioni dei tipi facciali, dimostrando acuto spirito di osservazione.

Principale rappresentante, negli ultimi tempi, della scuola del Broca è stato il Manouvrier, che fra i principali suoi lavori si occupò dell'interpretazione del peso dell'encefalo e di alcuni caratteri ossei. Altro suo merito grande è quello di aver perfezionato e stabilito un'esatta tecnica antropometrica.

Quasi contemporaneo del De Quatrefages e del Broca fu un altro studioso, che si sente ora molto citare nei circoli culturali tedeschi, l'autore del Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane, il conte Arturo de Gobineau (1816-1882).

L'affermazione fondamentale del saggio è questa: esiste una differenza di natura fra le diverse razze umane, che non è dovuta a cause esterne, ma a disposizioni native ereditarie. Lo sviluppo culturale e lo sviluppo della potenza politica, le loro oscillazioni non dipendono da cause esterne favorevoli o sfavorevoli. Così p. es. la decadenza degli stati non dipende dalle cause comunemente indicate (lusso, sregolatezza dei costumi, ecc.) ma dal grado di persistenza della purezza della razza, che ha creato gli stati stessi. La mescolanza con elementi etnici diversamente dotati è la causa di tali decadenze. Il Gobineau si dovette perciò occupare delle caratteristiche delle razze, ma non portando nessun nuovo elemento, anzi valendosi di dati, che non erano neppure i migliori, che il suo tempo gli offriva. Egli distinse tre tipi primitivi: il bianco, il giallo, e il nero. Questi tipi presentano un ordine di valore, in quanto il primo è quello più dotato, il secondo meno del primo, il terzo meno di tutti. Nel primo tipo si differenziò per ultimo, nelle terre dell'Indo, il ramo ario, al quale il Gobineau attribuisce le più splendide qualità. Le più alte culture europee ed asiatiche furono create da questo ramo. Disgtaziatamente esso, a ragione della mescolanza, va esaurendosi ed è prevedibile il suo esaurimento totale.

Il saggio del Gobineau, come nacque in un ambiente culturale estraneo all'antropologia, così rimase senza alcuna influenza sugli sviluppi di essa fino a questi ultimi tempi.

La pubblicazione del libro del Darwin sull'origine della specie e l'affermarsi della teoria dell'evoluzione impressero un particolare carattere alla produzione antropologica dopo il 1860. Le relazioni dell'uomo col restante mondo animale, la ricerca delle genealogie, la trasformazione delle caratteristiche morfologiche divennero il soggetto di numerosissime ricerche. Certamente la teoria dell'evoluzione intensificò il lavoro nel campo dell'antropologia, ma non è da credere, come molti fanno, ch'essa abbia avuto una influenza decisiva sullo stabilirsi dell'antropologia come scienza autonoma. Quella teoria ha accresciuto l'interesse del pubblico per l'antropologia ed ha forse affrettato il suo sviluppo, ma non rappresenta affatto un momento essenziale nella storia di essa.

Il fattore che abbiamo esposto innanzi e che si conclude nella creazione della Società di etnologia, da parte dell'Edwards, è stato ben altrimenti efficace. Sotto certi rispetti, anzi, si può dire che la teoria dell'evoluzione, attirando l'attenzione sopra certe determinate questioni, ha ritardato lo sviluppo di altre parti, e forse assai più importanti per la nostra scienza, come p. es. la determinazione e la interpretazione dei caratteri raziali. La riprova di quanto abbiamo asserito è nella data della costituzione della Società di antropologia di Parigi, che può dirsi la dichiarazione di maggiorità dell'antropologia.

La società fu fondata nel'59, lo stesso anno della pubblicazione del libro di Darwin.

È facilmente comprensibile perché la dottrina di Darwin abbia avuto scarsa influenza sull'affermarsi dell'antropologia.

Se l'antropologia ricerca in certe differenze di organizzazione delle razze umane la ragione della diversità delle forme di vita (materiale e psichica) delle razze stesse, e della comparazione fra esse si vale anzi a comprendere meglio quelle forme che interessano più noi europei, di cultura occidentale, è chiaro che la questione delle origini è relativamente secondaria a questo scopo. La funzione esplicativa essenziale è nella ricerca di queste differenze. Se anche, per pura ipotesi, esse risultassero da un atto creativo non per questo sarebbe meno necessaria la loro ricerca, né meno esplicative sarebbero le differenze stabilite. L'antropologia filogenetica è quindi una parte interessante dell'antropologia, ma non è l'essenziale.

Importanti anche, per lo sviluppo dell'antropologia nel ventennio '40-'60, furono le scoperte degli utensili litici dell'uomo diluviale, nei depositi della valle della Somme, da parte del Boucher de Perthes, scoperte che, lungo tempo contrastate, furono alla fine ampiamente riconosciute intorno al'60. Più lunghe difficoltà incontrò il riconoscimento dei resti dell'uomo fossile, la cui scoperta nella valle del Neander, presso Düsseldorf, diede principio a discussioni da poco finite. L'esistenza dell'uomo fossile non può dirsi riconosciuta ampiamente che nel 1887, con la scoperta di numerose parti scheletriche a Spy, nel Belgio. Da queste scoperte ebbero origine due branche notevoli degli studî antropologici, l'archeologia preistorica e la paleoantropologia.

Alle discussioni intorno ai resti fossili di Neanderthal prese parte attiva R. Virchow. Questi, per lo sviluppo dell'antropologia in Germania, ebbe una funzione apparentemente simile a quella del Broca in Francia, ma sostanzialmente assai diversa. Entrambi medici e professionisti, divisero la propria attività fra la medicina e l'antropologia. Dovrebbe esser soggetto di meditazione per molti il fatto che una buona metà della produzione scientifica del Virchow è dedicata all'antropologia nei suoi diversi rami; essa però ha carattere affatto descrittivo e frammentario. Può dirsi una enorme raccolta di fatti individuali, accumulati l'uno accanto all'altro, senza un vero tentativo di coordinazione e d'interpretazione. L'indirizzo del Virchow nell'antropologia fu affatto enciclopedico ed erudito, diverso profondamente dal suo indirizzo in patologia. Anche nei riguardi della tecnica, egli non portò notevoli contributi personali. Se si aggiunge a ciò il suo atteggiamento iperscettico nei riguardi della dottrina dell'evoluzione (e così pure nei riguardi della scoperta dell'uomo fossile) non si troverà esagerato l'asserire che, se la potente personalità delVirchow impedì facili deviazioni, in un certo senso inibì, più che favorire, lo sviluppo dell'antropologia in Germania. Con ciò non vogliamo negare, beninteso, che nei suoi lavori sia accumulata una massa di dati obbiettivi d'incontestabile utilità.

Assai efficace, per un nuovo risveglio degli studî antropologici doveva essere la scoperta, nel 1890, dei resti del famoso Pitecantropo, il cosiddetto anello di congiunzione. Questa scoperta ha determinato una lunga serie di lavori (ancora attualmente se ne pubblicano), senza che si sia arrivati alla prevalenza di una opinione sulle altre. Ma alle ricerche sul Pitecantropo si ricollega il nuovo studio fatto dallo Schwalbe sui resti fossili umani appartenenti alla cosiddetta razza di Neanderthal, gli esemplari della quale sono venuti moltiplicandosi negli ultimi anni (La Chapelle-aux-Saints, Krapina, Le Moustier, La Quina, ecc.). Lo Schwalbe, con una metodica da lui trovata, alla quale però sono state fatte negli ultimi tempi obiezioni assai gravi, dimostrò la specifica morfologia del tipo di Neanderthal, e credette di mostrare la più stretta affinità di questi resti con gli antropomorfi. Nello stesso ordine di idee si muove il Boule. Ma alle loro conclusioni sono state fatte gravi critiche, per ciò che riguarda il significato di primitività morfologica dei caratteri neandertaliani, e la portata di questi resti per una dottrina della derivazione umana (Sera). Questi ed altri studî hanno dato un grande sviluppo alla paleoantropologia: tale sviluppo però si crede da molti non del tutto desiderabile. L'interesse immenso per la questione delle origini ha fatto considerare con troppo attaccamento gli scarsi resti fossili venuti alla luce. Da pochi e spesso mal ridotti frammenti si è cercato di dedurre oltre il necessario, esagerando il punto di vista strettamente morfologico e senza far parte a considerazioni biologiche e naturalistiche. Negli ultimi tempi è stata emessa l'opinione, che i caratteri singolari della razza di Neanderthal siano soprattutto da considerare come determinati dal clima glaciale e non siano, almeno in certa misura, caratteri di primitività (Sera).

La ricerca morfologica nel campo delle razze umane si è naturalmente rivolta soprattutto alla dottrina delle ossa e in particolare al cranio. Riguardo a questo, siamo in possesso di una vasta congerie di fatti, e la sua trattazione forma, nei trattati sistematici, una parte che senza dubbio si può dire eccessiva.

Anche l'antropometria (studio metrico delle forme esterne del corpo umano, ora meglio chiamata somatologia) è stata coltivata assai, soprattutto dagli antropologi viaggiatori, nella seconda metà del secolo scorso.

Ricordiamo in questo campo, fra tanti, il Baelz per l'antropometria dei Giapponesi, il Beddoe degl'Inglesi, il Boas degli Amerindi (indigeni americani), il Czekanowski di alcuni gruppi di Neri, l'Ehrenreich degl'indigeni del Brasile, il Fritsch dei Boscimani, il Hagen degl'Indonesiani, l'Iwanowski di molti Mongolici, il Ten Kate di molti gruppi etnici. Menzione particolare meritano i lavori del Livi sull'antropometria degl'Italiani. Occorre ricordare ancora le trattazioni sistematiche e monografiche dell'antropologia di alcuni gruppi etnici, trattazioni che si compongono per lo più di una parte osteologica e di una antropometrica, in qualche caso aggiungendosi ad esse una trattazione etnografica. Esempio magistrale di simili trattazioni è quello del Martin, sulle stirpi dell'interno della penisola malese; ma non meno magisrrali sono le monografie dei Sarasin sui Vedda e sui Neo-Caledonî. Queste opere fanno desiderare che sopra altri gruppi etnici, soprattutto in via di scomparsa, si compiano studî simili.

Si può dire che l'attenzione della ricerca, prima assorbita a preferenza dal cranio, ora si è estesa al rimanente dell'organizzazione somatica. Ma le difficoltà di avere il materiale relativo hanno fatto sì che l'anatomia delle parti molli delle razze umane sia stata relativamente poco coltivata, anche nei tempi recenti. Essa s'iniziò nel primo periodo dell'antropologia con lo studio del Sömmering sull'anatomia del Negro, e con la memoria del Cuvier sulla Venere Boscimana (una donna di questa razza, portata in Europa). Dopo il 1840, gli studî di questo genere divennero un po' più frequenti.

Il Flower, il Murie, il Chudzinski, il Turner, il Testut, il Giacomini, il Wood, sezionarono cadaveri di razze diverse, per lo più di Negri. Fra i contemporanei, ricordiamo l'Adachi, il Livini, il Kurz e specialmente il polacco Loth.

Relativamente assai più larghe sono le conoscenze che si hanno sull'anatomia dei Primati (territorio questo che è ormai divenuto proprio agli antropologi più che agli studiosi di anatomia comparata). In questo campo più coltivata è stata l'anatomia degli antropomorfi, nella cui storia noi ricordiamo soprattutto i nomi di Gratiolet, Owen, Duvernoy, Bischoff, Ruge, Fick, Sommer, Eisler, Primrose, Sperino, Keith.

Le altre scimmie sono state, in complesso, studiate meno. Particolarmente importanti sono i contributi che a questi studî ha portato la scuola olandese, con a capo il Bolk (Kohlbrügge, van der Broeck, Polak, Mijsberg, Frets, ecc.). Questi studî hanno una grande portata fin da ora per l'antropologia zoologica, ma noi pensiamo che acquisteranno presto importanza anche per la vera e propria dottrina delle razze umane. Numerosi infine sono stati gli studî sulla morfologia del cervello dei primati e delle razze umane, argomento in cui si sono illustrati G. Elliot Smith e il Kohlbrügge. Per l'Italia è da ricordare in questo campo G. Sergi.

Gli ultimi anni del secolo passato ed i primi di questo videro l'inizio di nuovi movimenti di studî, che si sono affermati soprattutto in Germania, ma che sono più o meno rappresentati dappertutto. Il movimento che da noi è stato detto dell'antropo-sociologia e che i Tedeschi invece chiamano Sozial-anthropologie, definita (Fischer) come dottrina delle relazioni dei caratteri antropologici o, per dir meglio, dei loro portatori, con i gruppi sociali a cui questi appartengono (classi e categorie di ordine diverso), si può dire iniziato scientificamente per opera dell'Ammon (1892). Questo movimento, che considera come suo precursore il Gobineau, è assai complesso: mentre da un lato cerca di dare soddisfazione a legittime esigenze d'ordine scientifico e pratico, che trovano la loro espressione anche in nuove istituzioni, e che esprimono il bisogno di formazione d'una igiene raziale fondata scientificamente, dall'altro arriva alle manifestazioni propagandistiche del pangermanismo raziale, più o meno dissimulato da una veste di rigorosa obiettività scientifica. È certo un movimento fecondo, ma pieno di pericoli per la costruzione della scienza, come tutti i movimenti ed indirizzi, nei quati la pressione delle esigenze pratiche è troppo forte. Del resto nella stessa Germania è già sorta la reazione contro la deformazione del vero che quell'indirizzo favorisce (Saller).

In seguito alla riscoperta delle leggi o regole del Mendel, intorno al 1900, s'iniziò un largo movimento di ricerche sui fenomeni di eredità nell'uomo, non soltanto dal punto di vista patologico, ma anche da quello delle caratteristiche antropologiche. Furono eseguite estese ricerche intorno all'eredità del colore degli occhi della forma e colore dei capelli, del colore della pelle, ecc. Importante soprattutto per la nostra scienza fu lo studio del Fischer dei fatti dell'eredità dei cosiddetti Bastardi del Sud-Africa, popolazione risultante dall'incrocio di Olandesi con donne ottentotte, i quali presentavano condizioni favorevoli per l'indagine. Gli autori di siffatte ricerche, in genere, hanno concluso confermando anche per l'uomo l'esistenza delle regole del Mendel. Ma, in realtà, abbastanza spesso si rimane dubbiosi, specie per alcuni caratteri, come p. es. quelli relativi al cranio cerebrale (indice cefalico), della probatività di tali ricerche, e persino (come nell'esempio soprariferito) della possibilità dell'applicazione dell'indagine ereditaria sopra caratteri che presentano un passaggio continuo di valori per infinite gradazioni, in guisa che appare assai arbitrario fissare la divisione dei tipi genitori. La complicazione poi di certe ipotesi esplicative non contribuisce certo a dare la persuasione. In questo indirizzo si è cominciato ad indagare anche intorno al modo di eredità delle caratteristiche psichiche (come p. es. la disposizione musicale, che si è voluta scindere in più componenti psicologiche). Per quanto noi siamo convinti che questi studî siano di un grande interesse per l'antropologia, noi pensiamo che, dato soprattutto ch'essi sono per l'uomo basati sull'osservazione e non sull'esperimento, sia necessario attendere ricerche più numerose e soprattutto che una critica più fredda abbia preso il posto dell'entusiasmo delle prime ore.

La dottrina delle costituzioni o delle differenze di struttura corporea risultanti dai diversi equilibrî fra il sistema vegetativo e quello di relazione (come sono rappresentati tra l'altro dal rapporto della lunghezza del tronco a quella degli arti), è una dottrina dovuta alla moderna medicina e che specialmente in Italia ha trovato eccellenti iniziatori e rappresentanti (De Giovanni, Viola). Essa per merito di un altro italiano, il Pende, è stata strettamente connessa alla dottrina delle ghiandole a secrezione interna.

Ora i due tipi estremi affermati dalla dottrina delle costituzioni sono formalmente gli stessi tipi estremi etnici di proporzioni corporee, ammessi dall'antropologia. Da questo fatto sorgono numerosi problemi, giacché alcuni scrittori pretendono che l'antropologia debba correggere la dottrina costituzionale, altri invece, persino fra gli stessi antropologi (Weidenreich), sostengono precisamente il contrario. È ad ogni modo chiaro che qui è sorto un campo di studio nuovo e certamente assai importante, anche per le prospettive pratiche che se ne intravedono. Ricerche sopra alcune proprietà del sangue (capacità di agglutinazione, in contatto con altri sieri), dapprima eseguite a scopo medico e poi estese alle razze umane, ai primati e ad animali inferiori, hanno permesso di stabilire nell'umanità la presenza di quattro tipi diversi di sangue; i quali si trovano assai disugualmente distribuiti fra le diverse. razze umane. Sorge da ciò la possibilità di stabilire un carattere nuovo, e probabilmente di un certo valore, per l'antropologia.

Queste nuove correnti scientifiche hanno destato grande entusiasmo fra i loro aderenti antropologi, alcuni dei quali hanno affermato che solo ora si sia innanzi alla vera biologia umana. Da alcuni si è detto che l'indirizzo morfologico dell'antropologia aveva ormai esaurito il suo compito e perfino si è asserito essere esso ormai quasi un indirizzo dannoso e da abbandonare, in confronto dell'indagine sull'eredità, sui problemi costituzionali, ecc. Una spassionata e fredda critica però permette di asserire che le cose stanno ben diversamente e che anzi esiste un grande pericolo in questi entusiasmi. In primo luogo si dimentica una verità elementare e pregiudiziale ad ogni tendenza a cercare nuove strade: l'antropologia, cioè, è tuttora in una condizione assai più difficile, rispetto ad altri rami della biologia animale. Il cultore di un ramo qualsiasi di questa, usa dei suoi elementi, le specie, come di qualche cosa di dato e di sicuro e sopraitutto di semplice e indecomponibile, relativamente parlando. L'antropologo usa invece di una materia che gli sfugge continuamente sotto le mani, il gruppo etnico, che è la sola realtà attuale e che è una mescolanza, un composto di unità elementari. Ora, rinunciare a rintracciare queste unità elementari che sono le razze, sarebbe come se la chimica accettasse di rinunziare a rintracciare gli elementi, per andare dietro solo alle associazioni dei corpi complessi, mentre la conoscenza mra e propria dei corpi organici in chimica è stata possibile quando fu noto un certo numero di elementi. Ma questa analisi deì gruppi etnici, questo 'lavoro immane, al quale l'antropologia si può dire attenda dal suo primo nascere, solo l'antropologia morfologica, o, per dir meglio, naturalistica, cioè la morfologia integrata dall'analisi geografica più minuta e paziente e dai documenti dei fossili che vengono alla luce, può compierla. E, quello che è ancora più importante, solo così veramente i nuovi indirizzi potranno fondarsi su basi più sicure. In realtà sembra che a distanza di quasi un secolo si ripeta l'errore della Societa di etnologia, quello cioè di credere di pDter arrivare ad intendere la vita dei gruppi etnici (in termini più moderni, la biologia dei gruppi umani), senza essere arrivati a stabilire le unità morfologiche sottostanti ai gruppi etnici. Il compito che vide chiaramente il Broca non è stato ancora assolto, malgrado l'immenso lavoro compiuto; ma dal non essere arrivati allo scopo non si può passare a negare lo scopo stesso o a dire che quello che era raggiungibile è stato raggiunto. In realtà i tipi sono stati raggiunti, parzialmente, per l'Europa (il compito era ivi assai più facile, trattandosi di varietà abbastanza vicine) e ciò può essere sufficiente per certe ricerche riguardanti la pratica e l'igiene raziale; ma il problema rimane ancora, in buona parte, per il resto del mondo, e ciò non è senza importanza, anche nei riguardi dei tipi europei. Ma si può addirittura dubitare che si possa fare una completa ed esatta biologia umana, senza aver raggiunto prima con altri mezzi (che non siano quelli dell'indagine ereditaria, costituzionale, sanguigna, ecc.) i tipi umani. Che cosa ci dà infatti ordinariamente la ricerca sulla eredità? L'accertamento dei modi di presentarsi dei caratteri dei genitori nella discendenza. Quand'anche noi potessimo, inversamente, ricostruire con sicurezza il modo di associazione dei caratteri dei genitori, questa conoscenza sarebbe scarsamente efficace se, come sempre succede attualmente, i genitori non sono tipi puri. Dato che il materiale su cui può operare la ricerca ereditaria è costituito da tipi mescolati, ne viene per conseguenza la necessità di arrivare a questi tipi puri per altre vie. Lo sperimentatore in zoologia indaga la forma e la legge dell'eredità di certi caratteri, ch'egli sa preventivamente appartenere ad un certo tipo. L'osservatore dei fatti ereditarî nell'uomo non sa spesso a quale tipo appartenga un determinato carattere.

L'osservazione di questi fatti nell'uomo, anzi, si può dire che sia riuscita a certi risultati solo per quei casi, in cui si conosceva preventivamente l'appartenenza ad un certo tipo di un dato carattere. Si può dire anzi che si potrà precisare la forma e le leggi numeriche dell'eredità negli uomini solo secondo la misura ed anche la perfezione con cui i detti tipi saranno definiti preventivamente. Anche per ciò che riguarda l'origine delle razze, tema prediletto dei nuovi indirizzi, non bisogna troppo sopravvalutare l'importanza dei fenomeni dell'eredità negl'incroci e della selezione sui prodotti degl'incroci. Infatti il grado di popolamento della terra è stato certamente assai scarso nei primi tempi della formazione dell'uomo (ominazione) e per un lunghissimo periodo, come del resto constatiamo ancor oggi, per grandi estensioni della superficie terrestre. Le possibilità d'incroci, e di selezioni dei prodotti di questi incroci, sono state perciò assai minori di quello che appaiono attualmente fra le popolazioni civili dell'Europa, dell'America e dell'Asia. Se perciò l'importanza degl'incroci e dei fenomeni di selezione sugl'incroci è grande per gli antropologi che studiano i fenomeni umani attuali in Europa, essa è sempre meno grande per coloro che studiano gli stessi fenomeni per popolazioni remote nel tempo e nello spazio. Ma ne risulta anche assai importante l'esatto rilievo delle condizioni di distribuzione dei tipi nel passato e ciò non può darci né la ricerca ereditaria, né la ricerca dei fenomeni selettivi. Quando infine il costituzionalista trova che certi tipi costituzionali, a statura svelta o longilineo e a forme massicce o brachilineo, sono gli stessi tipi che si trovano realizzati in certe regioni della terra, da certe razze determinate, egli ha un punto di riferimento di un enorme valore. In base a questo sorge il problema, quanto sia da attribuire ad una variazione di ordine ereditario, quanto ad una di ordine individuale, endocrinico o altro, nell'oscillazione che si riscontra in un qualsiasi gruppo rispetto a questo carattere. Problema che fa sorgere proprio la certezza che quel determinato tipo sia un tipo raziale, di una determinata regione. Ma questa certezza, l'antropologia l'ha raggiunta coi proprî metodi zoologici e non per altra via. Perché dunque l'antropologia dovrebbe lasciar questi metodi e non applicarli ancora ulteriormente, quando è constatato che essa con questi e per una certezza da essa creata ha fatto sorgere un problema in un'altra scienza?

Nelle ricerche sui fenomeni della selezione solo la conoscenza di quello che furono le razze nel passato ci darà il tempo e il modo degli acquisti nuovi. E, nelle ricerche sui gruppi sanguigni nell'umanità, proprio la dottrina delle razze, quale faticosamente si elabora, ci potrà dare i migliori schiarimenti sopra fenomeni che appaiono finora assai oscuri. In breve, è chiaro che ogni altra indagine abbia almeno da guadagnare nel fatto che l'antropologia cerchi di arrivare a risultati indipendentemente da altre scienze e solo raffinando, applicando più minutamente e rigorosamente i metodi proprî, seppure non si voglia riconoscere che generalmente le nuove correnti di ricerca facciano proprio punto di partenza dai risultati già acquisiti dall'antropologia, il che in più di un caso è provato.

Riassumendo, a noi sembra che la ricerca in base all'analisi morfologica, geografica, cronologica, rappresenti l'unico e radicale mezzo di accertamento dei tipi, che non può essere sostituito da nessun'altra ricerca; esso ci fornisce anzi il più solido punto di appoggio per le ricerche sull'eredità, sulla costituzione e simili. Queste, quindi, non che costituire un indirizzo più fecondo e preferibile, debbono trovar la loro base più sicura proprio in una dottrina meglio fondata dei tipi umani. Certo, lo stabilire quest'ultima è cosa assai lunga, difficile, penosa; l'imperfezione dei risultati finora raggiunti prova soltanto tale difficoltà.

Lo studioso tuttavia deve tenere ben presente che solo per questa strada porrà la scienza su solide basi e che il voler seguir altri indirizzi, perché promettenti maggior messe di conseguenze pratiche d' ordine utilitario, non potrà portare che disordine e ritardo ulteriore nello sviluppo delle scienze antropologiche.

Bibl.: Per la storia dell'antropologia: P. Topinard, Éléments d'Anthropologie générale, Parigi 1885; A. C. Haddon, History of Anthropology, Londra 1910.

Per la posizione dell'antropologia nel sistema delle scienze: L. Manouvrier, Le classement universitaire de l'anthropologie, in Rev. Écol. Anthrop., Parigi XVII e XX ((1907 e 1910); G. L. Sera, Morfologia umana e antropologia, in Natura, XI (1920).

Fra i trattati di antropologia e le pubblicazioni d'indole generale: P. Topinard, op. cit.; E. Morselli, Antropologia generale, in L'uomo secondo la Teoria dell'evoluzione, Torino 1887-89; W. L. H. Duckworth, Morphology and Anthropology, Cambridge 1904; 2ª ed., parte I (solo pubblicata) 1915; G. Sergi, L'uomo secondo le origini, l'antichità, le variazioni, ecc., Torino 1911; R. Martin, Lehrbuch der Anthropologie, 2ª ed., Jena 1928; E. Fischer, R. F. Graebner, M. Hoernes, Th. Mollison, A. Ploetz, G. Schwalbe, Anthropologie, nella serie Kultur der Gegenwart, Lipsia 1923; W. Scheidt, Rassenkunde, I, Allgem. Rassenkunde, Monaco 1925; J. Deniker, Les races et les peuples de la terre, 2ª ed., Parigi 1926.

Gli strumenti antropologici.

Gli strumenti antropologici sono numerosissimi e per buona parte i più antichi, ma ancora usati, sono dovuti al genio inventivo del Broca. Servono per ottenere i dati di craniometria, osteometria e antropometria, secondo norme di uso internazionale stabilite nei congressi, per procedere, su basi comuni, allo studio delle razze umane. Se ne hanno di facilmente trasportabili, usati dai viaggiatori nelle spedizioni lontane, ma i più non possono servire che nei laboratorî. Indispensabili sono i seguenti:

Il metro campione rigido, graduato in millimetri, per la verifica degli strumenti a uguale graduazione.

Il verificatore da compassi, sul quale si possono verificare le graduazioni di 10, 15 e 20 cm. dei compassi.

Il nastro metrico, graduato in millimetri, per misure quali la circonferenza toracica, cefalica, delle braccia, delle gambe, ecc.

Il compasso di spessore (fig. 1), per ottenere in millimetri diametri, corde, ecc. sulla testa del vivente, sul corpo e sul cranio. Si compone di due rami articolantisi, di cui quello sinistro porta una asticciuola graduata che traversa un incastro praticato nel ramo destro, a sua volta munito di una vite a pressione che rende, occorrendo, lo strumento immobile.

Il compasso scorrevole (fig. 2), con destinazione identica a quella dello strumento precedente, ma a questo preferibile in certe misure per ragioni di maneggevolezza. Si compone di due rami paralleli, di cui uno fisso perpendicolarmente a un'asta graduata in millimetri, sulla quale s'inserisce e scorre l'altro ramo. I due rami sono aguzzi da un lato, smussati dall'altro.

I goniometri, che variano di tipo a seconda della loro destinazione. Molto comuni e di diverse forme furono i goniometri usati per la determinazione dell'angolo facciale. Storicamente importante è lo strumento costruito dal Broca. Ma questi più antichi goniometri ormai tendono ad esser sostituiti dal goniometro del Mollison, basato sopra un principio semplicissimo e di applicazione universale. Intorno al perno che passa per il centro di un quadrante graduato, è mobile e spostabile, per l'azione del solo peso della sua metà inferiore, un indice. Applicando lo strumento ad un compasso scorrevole (v. fig. 4, a), l'inclinazione sull'orizzonte di una retta determinata da due punti si ha appoggiando le due punte del compasso ai due punti in questione e disponendo lo strumento in un piano verticale all'orizzonte. Per l'effetto del peso, l'indice, per il principio delle parallele, assume la posizione verticale, e la sua posizione sul quadrante darà immediatamente l'inclinazione cercata.

Il goniometro mandibolare (fig. 4,d), per la misura dell'angolo della mandibola, che consta di una tavoletta rettangolare, nel mezzo della quale se ne articola un'altra più piccola, suscettibile di movimento in alto e in basso. Quest'ultima è attraversata da un arco graduato, fisso, su cui viene fatta la lettura dell'angolo cercato.

Il materiale per la misura della capacità cranica, che comprende: circa due litri di pallini di piombo n. 8; un vaso di ferro bianco della capacità di due litri; un vaso cilindrico di un litro esatto; una provetta di vetro, graduata di 5 in 5 cm. cubi, della capacità di mezzo litro; accessorî varî per eseguire la misura secondo la tecnica prescritta, e sempre delle stesse dimensioni, quali: un imbuto munito di opercolo, un fuso cilindro-conico smussato, ecc.

I craniostati, o craniofori, per fissare il cranio secondo determinate direzioni, quali il piano alveolo-condiloideo o piano francese, il biorbitale del Broca, il tedesco, il "glabella metalambda", ecc.

Gli strumenti craniografici, fra cui in primo luogo lo stereografo del Broca (fig. 4, b), che serve per disegnare meccanicamente oggetti di volume non troppo superiore a quello del cranio. I disegni si ottengono a matita su uno schermo verticale e riproducono i minimi particolari, sempre in grandezza naturale, sì da prestarsi a tutte le misure e ricerche craniometriche.

Uno strumento che sostituisce opportunamente lo stereografo di Broca, in quanto si presta a riproduzioni di oggetti diversi, è il dioptografo del Martin. Questo strumento è in sostanza un pantografo di alluminio, che porta ad uno dei suoi estremi un cannocchiale, col quale si traguardano i contorni dell'oggetto da riprodurre, e all'altro un dispositivo per la punta che deve tracciare il disegno. Il cannocchiale scorre sopra una lastra di vetro, sotto la quale è l'oggetto da riprodurre.

La tavoletta osteometrica (fig. 4, e), per le misure in proiezione delle ossa lunghe. Si compone di una tavoletta orizzontale, lunga cm. 61, larga 19 e spessa 1,2, a cui è fissata verticalmente un'altra più piccola, alta cm. 7,7. In questa è, di lato, un foro ad imbuto, a sezione ellittica. La tavoletta orizzontale ha due linee mediane longitudinali, distanti fra loro 16 mm., e tante linee trasversali, perpendicolari alle prime, per la graduazione centimetrata. Questo strumento si usa così. L'osso viene disposto in modo che un estremo della sua lunghezza massima sia a contatto col piano interno della tavoletta verticale; l'altro estremo si ottiene in proiezione sulla tavoletta orizzontale, con una squadra adoperata come nella figura. Aggiungendo allo strumento un adatto goniometro come è indicato dalla figura, è possibile ottenere anche l'angolo dell'obliquità del femore e l'angolo del suo collo.

Il tropometro (figura 4, c) per la misura dell'angolo di torsione dell'omero, del femore e di altre ossa lunghe. Il tropometro propriamente detto si compone di una tavola quadrata e d'un montante su cui si muove un cursore; ad esso sono aggiunti due archi a punte isolati. Sulla tavola quadrata è applicata una lastra metallica circolare, divisa in gradi sulla circonferenza. Disposto verticalmente l'osso, fra due apposite punte, se ne ottiene l'angolo di torsione con l'aiuto dei due archi a punte da applicarsi trasversalmente all'epifisi distale e a quella prossimale, secondo una tecnica troppo lunga per essere descritta qui.

Numerosi altri strumenti sono usati, quali: il dinamometro a pressione (fig. 3), per misurare la forza della mano; la bilancia, per il peso del corpo; l'antropometro, per la statura; tavole centimetrate, per la grande apertura, per la statura seduta, ecc.; la macchina fotografica; scale di colorazione, per la pelle, gli occhi e i capelli, ecc. Per i viaggiatori tutto l'istrumentario è ridotto al minimo indispensabile, e con un solo strumento possono essere prese misura quali: la statura, l'altezza trocanterica, l'altezza del busto, la lunghezza totale dell'arto superiore, la larghezza biacromiale, la larghezza biiliasca, la larghezza trocanterica, ecc. Vi è poi tutta una serie di accessorî, quali: le squadre graduate, le matite dermografiche, la squadra flessibile auricolare, ecc., che permettono di fare osservazioni complete.

L'antropologia criminale.

L'antropologia criminale è lo studio dell'uomo delinquente fatto con i metodi stessi naturalistici con cui l'antropologia generale studia l'uomo normale: cioè elaborando e utilizzando nozioni di anatomia, di fisiologia, di psicologia, di etnologia, di demografia e persino di filologia.

Per il passato, lo studio dei criminali si era limitato pressoché ai soli caratteri psichici: i riferimenti ai loro caratteri fisici che il Gall, il Lavater, il Della Porta avevano tentato, se pure di notevole importanza storica e coronati da un immediato successo, non hanno resistito al cimento del tempo e dell'esperienza, inariditi ben tosto dall'angusto empirismo onde erano germinati. Persino il Morel, come ha fatto rilevare di recente il Morselli, al cui concetto di degenerazione ereditaria pure si riallaccia direttamente la dottrina dell'antropologia criminale, parla spesso di un tipo morboso caratterizzato da anormali manifestazioni intellettuali ed affettive, ma poco parla di caratteri fisici, somatici.

Nella novella disciplina, cioè nell'antropologia criminale, che è di origine prettamente italiana, furono invece più ampiamente raccolte e descritte le anomalie fisiche, anatomiche e funzionali; e queste, a lor volta, furono messe in rapporto con le deviazioni della condotta morale.

Mercé questa ricostruzione integrale della personalità fisio-psichica dei criminali, si è interpretata la criminalità umana come il prodotto di una costituzione particolare nella quale per varie cause sono insorte deviazioni dalla normalità.

Cesare Lombroso pubblicò nel 1876 la prima edizione dell'Uomo delinquente e quattro anni dopo, nel 1880, iniziò la pubblicazione dell'Archivio di psichiatria ed antropologia criminale, con cui non solo diede alla sua scuola e alla sua dottrina il nome, ma indefessamente radunò, riordinò e vagliò un copioso materiale documentario.

Le successive opere di Gaspare Virgilio, del Marro, del Ferri, del Lacassagne sono altrettante pietre miliari di un lungo cammino che si è svolto attraverso gli ultimi decennî del secolo scorso ed i primi decennî di questo, sino alle recentissime opere del Winkler, del Gohring, del Verwaeck, del Mendes Corea, del Florian, del Grispigni, dell'Aschaffenburg, del Jimenes, del Ruiz-Funes, del Lenz, del Castellanos.

La concezione antropologica della criminalità. - La più importante conclusione di codesta copiosa attività scientifica fu l'affermazione che nell'uomo delinquente si sommano anomalie fisio-psichiche in numero maggiore e in forma più grave che nell'uomo di condotta corretta e normale.

Il Lombroso, per meglio spiegare il legame genetico che secondo la sua concezione intercorre fra tali anomalie di struttura e l'attività criminosa, soleva trarre esempî da quelli che egli chiamava "equivalenti del delitto" nel mondo animale: li indicava in animali dotati di tendenze individuali più turbolente e feroci di quelle che sono proprie della loro specie. E ciò non per ridicolo antropomorfismo, ma per scolpire e materiare più ostensibilmente il concetto fondamentale che informa l'antropologia criminale: che cioè le manifestazioni anomale di condotta promanano, indipendentemente da ogni atto di volontà e di scelta, da deviazioni di struttura, così in questi organismi inferiori come nell'uomo.

Per spiegarle il Lombroso assegnò massima importanza ad una degenerazione ereditaria, per il che queste anomalie si son chiamate caratteri degenerativi: e poiché esse assumono aspetti che più spesso rispondono a forme ancestrali, cioè esistenti nell'umanità primitiva e in stadî di vita preumana, si sono chiamate ataviche.

Nel feto queste stesse forme appaiono normalmente, ma poi di solito si evolvono e si trasformano: può accadere che un arresto nello sviluppo ve le fissi e le mantenga anche nell'adulto, press'a poco in forma embrionale, secondo si esprime la legge biogenetica fondamentale del Haeckel o legge della ricapitolazione.

Tale riferimento filogenetico atavistico si è esteso anche ai fenomeni psichici proprî della criminalità, che vennero posti in rapporto con le manifestazioni dell'umanità primitiva e dei selvaggi contemporanei; non nel senso più grossolano che questi compiano normalmente atti criminosi, ma spostando (Ferrero, 1896) il concetto di atavismo dalla materialità dell'azione agli elementi sentimentali che la determinano; i quali nei criminali e nei primitivi sono appunto gli stessi: cioè l'impulsività, l'irritabilità fisio-psichica, la ripugnanza e l'incapacità ad un lavoro continuato, disciplinato e metodico (Wagner-Jauregg).

Accanto a queste anomalie vere e proprie, che sarebbero il prodotto di un disturbato sviluppo ontogenetico e sono i caratteri propriamente degenerativi (Giuffrida), se ne sogliono additare altre, prodotte da influenza morbosa attuale o pregressa, e poi estinta come nei cosiddetti invalidi (Lattes, 1925), per processi cerebropatici svoltisi, o prima della nascita o dopo, in un organismo originariamente per sé non deviato.

Si sono anche distinte le anomalie vere e proprie dalle semplici variazioni; ed in queste, una più recente nomenclatura elenca e distingue, per quanto è possibile, le paravariazioni dipendenti dalla influenza dell'ambiente su individui idioplasticamente uguali, le mixovariazioni, dipendenti dal fenomeno della fecondazione, e le idiovariazioni, dipendenti da cambiamenti intervenuti nell'idioplasma stesso non per fatti di fecondazione.

Ma tutte codeste distinzioni non sono, come è frequente nei fenomeni biologici, nette e sicure; anche il Lombroso, che diede tanta importanza ad influenze ataviche, introdusse tuttavia nella genesi diretta delle anomalie, cioè come loro causa determinante, un elemento prettamente morboso, rappresentato dall'epilessia; come di recente (1923) si è dato allo stesso proposito molta importanza alla sifilide (Cerletti e Dekeyser). E così nel cretinismo una influenza nettamente morbosa suscita la produzione di anomalie di forma, le quali pure sono state considerate come ataviche (Finkbeiner, 1923).

In perfetta analogia con tale concezione antropologica è il recente rifiorire delle teorie costituzionaliste in clinica medica e psichiatrica, onde i singoli temperamenti, parola che evoca concetti e denominazioni molto usate dall'antica fisio-patologia, nonché le malattie, vengono posti in rapporto con una particolare costituzione organica, i cosiddetti "tipi" (De Giovanni, Viola, Pende), della quale le malattie sarebbero espressione come altrettante singole reazioni a stimoli esteriori. Mentre la costituzione si riferisce alla struttura, morfologia, composizione e insieme di elementi somatici, il temperamento riguarda le modalità di reazioni fisiologiche agli stimoli esterni ed interni (compresi gli psichici) e il carattere la reattività dell'individuo nel corpo sociale (Morselli).

Si è esplorata, pur con prudenti riserve, la frequenza dei singoli tipi nelle varie forme di criminalità: prevale il tipo ipervegetativo negli autori di reati di violenza (Vidoni) e l'abito longilineo nei ladri (Di Tullio, Verciani).

Per le malattie mentali il Kretschmer (1922) e la sua scuola hanno preteso di riconoscere persino il prevalere di certe strutture antropologiche in varî gruppi di alienati e ciò con una rigidità di rapporti sconosciuta veramente alla plastica larghezza di concezione della scuola italiana di antropologia criminale.

Il Kretschmer ha infatti distinto i tipi umani, quanto al loro temperamento, nei due grandi gruppi dei ciclotimici e degli schizotimici: i quali poi, attraverso stadî rispettivamente cicloidi e schizoidi, trapasserebbero in forme decisamente morbose: nelle forme maniaco-depressive e nella schizofrenia vera e propria. Dal punto di vista antropologico poi il Kretschmer distingue tre tipi principali di struttura: l'astenico, l'atletico e il picnico, che corrispondono press'a poco ai tipi antropologici di De Giovanni e Viola.

Ma più interessa rilevare i rapporti che il Kretschmer ha stabiliti fra tipo antropologico strutturale e temperamento. Gl'individui affetti da forme maniaco-depressive appartengono prevalentemente al tipo di struttura picnica; gli schizotimici al tipo leptosoma ed atletico.

Simili corrispondenze furono cercate fra i criminali (Rohden, 1927; Landogna-Cassone, 1922) e le prostitute (Vidoni, 1926). I tipi schizotimici sarebbero in minor numero tra i criminali capaci di emenda, in maggior numero vi sarebbero invece i ciclotimici. Nei fanciulli delinquenti si troverebbe una ripartizione pressoché uguale fra i tre gruppi principali (Korganov, 1927).

Il criterio antropologico assume precisione per i più recenti studî endocrinologici, cioè sulle ghiandole a secrezione interna del nostro organismo. Si tratta nella maggior parte dei criminali di sindromi polighiandolari (Pende, Ruiz-Funes). Nei delinquenti impulsivi emozionali e passionali, spesso criminali d'occasione, per lo più ad abito longilineo, si sono trovati quasi costanti i caratteri somatici funzionali e psichici dell'iperfunzione tiroidea, e talvolta del distiroidismo. L'ipotiroidismo corrisponde invece all'ottundimento, all'apatia, alla abulia: di qui sorse l'iniziativa di asportare una porzione della tiroide ai criminali più violenti ed impulsivi (Lugaro).

La disfunzione della pituitaria (Cushing) mentre parrebbe dar ragione di alcune anomalie morfologiche dei criminali sanguinarî e violenti, come la mandibola grande, gli zigomi divaricati, la macrosomia, l'esagerata lunghezza degli arti superiori, ecc., spiegherebbe anche l'indifferenza affettiva, la diminuzione dei poteri inibitorî e la deficienza del senso morale, donde la delittuosità.

Nell'ipertiroidismo si ha un'ipertricosi con sviluppo soprattutto delle sopracciglia, che diventano eccezionalmente folte ed espanse, in modo da congiungersi alla radice del naso: questo carattere è stato posto in rapporto con tendenze psichiche anormali individuali (Perusini, 1906). Ora chi pensi ai notissimi e gravi risentimenti che le alterazioni della ghiandola tiroide hanno sul carattere individuale, appunto nel distiroidismo è portato ad ammettere facilmente il rapporto che può intercorrere tra l'anomalia tiroidea, la foltezza delle sopracciglia e le anomali tendenze psichiche da cui possa rampollare il delitto (Papillault, 1914).

L'esperienza popolare e le risultanze statistiche avevano da un pezzo assegnato una maggior frequenza di stature basse ai delinquenti sessuali, in confronto agli altri gruppi di criminalità. Ora appunto per ipergenitalismo si hanno casi di nanismo scheletrico e inversamente per ipogenitalismo si ha sviluppo eccessivo delle ossa degli arti; e si sa che la castrazione influenza lo sviluppo delle ossa degli arti. Vi corrisponderebbe, come or ora vedremo, l'importanza che hanno certe anomalie dei corpi genitali sull'origine delle perversioni sessuali.

E poiché queste secrezioni endocrine ormoniche si diffondono naturalmente a tutto l'organismo, così possono spiegare certe correlazioni morfologiche fra varie anomalie, correlazioni che così frequentemente si rivelano tra l'uno e l'altro organo e che in passato non erano spiegate da una necessità puramente meccanica di sviluppo o da strutture morfologiche, come p. es. accade per i rapporti fra irsutismo e diabete (Achard 1921, Crouzon 1924) e per le anomalie che si raggruppano intorno alla deformazione cranica nella sindrome appunto detta oxicefalica: esoftalmo, strabismo, nistagmo, distrofie delle ossa della faccia (Bertolotti, 1914; Torraca, 1921).

Particolare interesse hanno raggiunto queste scoperte per l'antropologia criminale in quanto concerne la criminalità sessuale riguardo specialmente all'omosessualismo.

Infatti alcune recenti indagini stologiche, fisiologiche ed endocrine fanno pensare che l'omosessualità si debba ad un'anomalia dei corpi genitali. Tale dottrina si riallaccia direttamente all'altra, sulla funzione endocrina dei corpi genitali, che risale al Brown-Séquard, ma fu più ampiamente svolta da circa un ventennio ed in questi ultimi tempi specialmente dallo Steinach. Secondo questo autore, alla funzione endocrina genitale presiederebbe un tessuto ghiandolare specifico contenuto nei corpi genitali.

Si aggiunga che in animali con tendenze omosessuali, ed anche in alcuni casi di omosessualità umana, in maschi nei corpi genitali fu riscontrata istologicamente, accanto ad un'atrofia dei tubuli seminiferi, l'esistenza di cellule interstiziali e puberali tipiche per il testicolo, e di elementi descritti dallo Steinach come simili a quelli del corpo luteo nell'ovaia. Così sarebbe data, se pur non fuori da ogni contrasto, una base organica all'omosessualità e quindi alle manifestazioni criminali che ne derivano (Belym). Qualche fortunato intervento chirurgico terapeutico confermerebbe queste opinioni teoriche e ne intensificherebbe l'importanza pratica (Thorek).

Le anomalie di struttura e di funzione nei criminali. - Accanto alle anomalie di forma, o deformazioni vere e proprie di cui si dirà or ora, altre ve ne sono le quali risultano semplicemente da un'alterazione di rapporti metrici detti in antropometria indici, e sono pertanto meglio determinate numericamente.

L'indice cefalico orizzontale è il rapporto centesimale fra la massima lunghezza e la massima larghezza del cranio. Sulla base di esso si distinguono i cranî in dolicocefali, mesocefali e brachicefali, a seconda che prevalga il diametro longitudinale, o a seconda che i due diametri abbiano tendenza ad avvicinarsi fra di loro, come nelle forme di brachicefalia o trococefalia.

Questo indice corrisponde certo ad un prevalente carattere etnico, e sarebbe ingiustificato attribuire ai criminali in generale una prevalenza dell'uno piuttosto che dell'altro indice cefalico. L'anomalia scaturisce piuttosto da ciò, che nella distribuzione seriale delle cifre dei varî indici prevalgono nei criminali cifre estreme nell'una o nell'altra direzione, contrastanti dunque con la media etnica regionale; si hanno cioè tra i criminali più frequenti forme pressoché trococefaliche in un paese a popolazione accentuatamente e prevalentemente dolicocefalica come la Sardegna: o forme di cranio enormemente allungate in un paese a popolazione prevalentemente brachicefalica come il Piemonte; sempre insomma con una grave deviazione dalla norma prevalente.

Altrettanto si nota in un altro carattere che è insieme metrico e morfologico: la capacità del cranio, che ha evidenti rapporti con il volume del cervello: si può misurarla direttamente nel cranio o la si calcola con ingegnosi espedienti da misure raccolte nel vivo. Essa pure nella distribuzione seriale presenta misure estreme fra i criminali, cioè un numero maggiore che nei normali, tanto di capacità craniche minime quanto di capacità craniche grandissime, dipendenti talora da influenze morbose.

Queste variazioni si associano spesso ad anomalie di forma: ché già nella macrocefalia e microcefalia non si ha una semplice variazione di volume bensì la forma stessa del cranio vi è spesso notevolmente alterata: la fronte appare verticale o diretta verso l'avanti specialmente nelle forme idrocefaliche, e con bozze parietali molto sporgenti; o invece è sfuggente con accentuata stenocrotafia (strettezza delle tempie).

Dipendono poi da disturbi nell'ossificazione, che spesso importano disturbi funzionali del cervello, altre deformazioni: nella scafocefalia, il cranio presenta una sporgenza a tetto o a carena di nave, donde è appunto derivato il nome, decorrente lungo la sua linea longitudinale media e superiore. Nell'acro-, nell'oxi- e nell'ipsicefalia si ha una deformazione a pan di zucchero del cranio per una sua elevazione nella parte superiore, rispettivamente mediana o anteriore, o complessiva (Siemens, 1925); invece nella platicefalia questa parte superiore del cranio è appianata; nella cimbo- e clinocefalia presenta un avvallamento a forma di sella; nella trococefalia i due diametri principali orizzontali del cranio sono quasi uguali, onde esso si avvicina, se pur non la raggiunga mai, alla forma di sfera: nella trigonocefalia infine il perimetro cranico oriżzontale è sensibilmente triangolare.

Particolare importanza fra tutte queste anomalie ha la plagiocefalia, che corrisponde a quell'asimmetria nella struttura generale del corpo che domina nei criminali, e che è importante, come si vedrà, anche per altri aspetti patogenetici negli epilettici. Anche della battro- e clinocefalia si è di recente (Bachmann, 1925) dimostrato il carattere atavico.

Queste deformazioni possono essere studiate e valutate, oltre che con le semplici misurazioni, anche con quel criterio, insieme morfologico, estetico e geometrico, che il Sergi (1894) ha così fortunatamente introdotto in antropologia per la distinzione e la classificazione delle razze umane.

Questo metodo "naturale", com'egli l'ha chiamato, consiste essenzialmente nel descrivere e definire la forma del cranio, esplorata rispettivamente dall'alto, dal dinnanzi, dal didietro e di lato, riferendola alla figura geometrica in cui possa esserne meglio e più correttamente iscritto il contorno. Perciò il normale ed armonico ovale cranico umano s'iscrive in un ovoide o in un elissoide: mentre se è interrotto da spezzettature angolari s'iscrive rispettivamente in forme di cuboide, romboide, pentagonoide, trapezoide, ecc. a seconda del numero e della disposizione dei segmenti nei quali appare interrotto il perimetro cranico. Appunto queste ultime forme prevalgono tra i criminali.

Un carattere metrico dei criminali pure evidente e facilmente appariscente si riscontra nelle variazioni di statura (Vervaeck, 1921), della quale per verità gli autori più antichi non fanno quasi menzione. Invece essa ha importanza, perché rappresenta, segna e misura fedelmente lo sviluppo organico complessivo che, specialmente nella pubertà e nell'adolescenza, è precocemente rapido e florido tra i criminali. Se può avere spiegazione più superficiale e apparentemente soddisfacente il prevalere di stature alte nei grassatori e negli omicidi, come necessaria condizione materiale della loro attività criminosa, ha trovato invece di recente un'altra interpretazione, secondoché dianzi s'è accennato, la esiguità della statura prevalente nei delinquenti sessuali.

Furono studiati anche i rapporti della statura con singole misure del corpo, p. es. col piede (Perrier) e specialmente con l'apertura delle braccia (Rambault, 1914). Si chiama così la lunghezza che intercorre fra le estremità delle dita delle due mani a braccia orizzontalmente distese. Essa nei normali, secondo rilevano i canoni artistici, è uguale alla statura; invece nei criminali è più frequente che la superi; il che non si spiega sufficientemente col lavoro prevalentemente manuale a cui la maggior parte di essi attende e che allargherebbe il torace e allungherebbe gli arti superiori (Marro); ma piuttosto vi si riconosce una traccia di struttura atavica (Lacassagne). Nelle scimmie infatti gli arti superiori degli adulti sono lunghissimi arrivando sin sotto il ginocchio e quindi l'apertura delle braccia risulta di molto superiore alla statura anche nel suo massimo sviluppo (Schultz 1927). Tra 800 criminali esaminati dal Lacassagne, in 623 l'apertura delle braccia prevaleva sulla statura di più che 6 cm.

Altri caratteri esterni si descrivono nei criminali, desunti da particolarità in apparenza modeste della cute e delle appendici cutanee (rughe, peli, unghie), le quali tutte oggi presentano rinnovellato interesse, perché in sintesi si sono potute riferire, come si è visto ora, a quelle stesse influenze patogenetiche endocriniche che agiscono anche sul complesso di tutto lo sviluppo fisico e psichico dell'organismo del criminale.

Così a tali influenze si sono riferite le numerose e precoci rughe frontali, orizzontali e verticali, e naso-labiali che, incidendo con profondi solchi la cute, imprimono un'espressione sinistra alla fisonomia, particolarmente negl'individui giovani.

L'ipertricosi generale corrisponde a disfunzione genitale, tiroidea e surrenale. Furono descritti casi curiosi d'ipertricosi o irsutismo con peli distribuiti su tutta la superficie del corpo, anche sulle parti che di solito ne sono prive, come sulla fronte, sulla regione sacro-lombare; in donne, sulla faccia, a guisa di barba, come in certe celebri brigantesse. Al contrario si ha in certi criminali maschi, talora di apparenza femminile, anche al di fuori della criminalità sessuale, una faccia glabrai che fu trovata nel 13% dei criminali dal Marro, in confronto all'1,5% fra i normali: rapporto che acquista significato criminologico per quello che ora si sa della filogenesi del sistema pilifero (Plate). Un carattere che si può chiamare sessuale secondario, secondo la nomenclatura darwiniana, si trova nella distribuzione diversa nei due sessi del pelo al pube, che nei criminali si è trovata invertita. Infine particolari anomalie furono riscontrate nella molteplicità e nella sede dei cosiddetti vortici (Battistelli, Perusini) e nella minor frequenza e minor precocità di canizie e di calvizie (Ottolenghi), che sono da riferirsi probabilmente a condizioni generali trofiche e nervose dei criminali, cioè alla loro minore sensibilità fisio-psichica.

Nel viso, ove per evidenti ragioni d'interesse e di utilità pratica furono specialmente ricercate, a cominciare dai rapporti della faccia col cranio cerebrale (Boldrini 1923), furono segnalate numerosissime anomalie. Per quel che riguarda i denti furono di recente (Poletti e Gasperini) riferiti ad alterazioni endocriniche il diastema interincisivo, che è un allontanamento dei singoli denti. E vi furono descritti il variare del numero di cuspidi e radici dentarie; l'invertirsi del graduale accrescimento di volume dei denti molari e la più frequente mancanza del terzo molare, il cosiddetto dente del giudizio, dente che ha già tendenza a sparire dalla formula dentaria umana (Mantegazza). Onde in questo carattere, che l'Ameghino ha argutamente chiamato profetico, i criminali precorrerebbero i normali.

Appunto al complesso delle anomalie dell'apparecchio di masticazioite nei delinquenti ha portato un notevole e relativamente recente contributo il Perusini (1902), il quale rilevò come, rispetto a molti caratteri di questo apparecchio, e specialmente alle cifre di un indice maxillo-palatino da lui istituito, i delinquenti si ravvicinano alle razze umane inferiori ed ai frenastenici, cioè a individui con sviluppo arrestato. Anomalie di grande entità ed evidenza offre la mandibola, la quale, anche per la sua importanza nella fisionomia umana, ha occupato anche di recente molti ricercatori e studiosi (Sergi, 1914; Jentsch, 1914; Castellanos, 1915). Essa prende parte alla formazione di quell'anomalia complessiva fisionomica, chiamata prognatismo e che consiste nella proiezione in avanti della parte anteriore o mediana della faccia, quasi a rammentare il muso degli animali. Il prognatismo è misurato dal cosiddetto angolo facciale, formato dall'incontro di una linea orizzontale che passa per il foro uditivo e per il punto sottonasale colla linea verticale del profilo cranico; e fu utilizzato in etnologia dal Camper per differenziare le varie razze umane. Nel cosiddetto progeneismo i denti della mandibola sopravanzano quelli del mascellare superiore che ne restano come accavallati o coincidono con essi; mentre nel mento sfuggente è deviata all'indietro la direzione del corpo della mandibola. Vario è anche l'atteggiamento dell'apofisi coronoide, la forma del condilo mandibolare e la forma del mento (Westenhofer). La frequenza di tali anomalie raggiunge fra i criminali il 38-40%, mentre fra i normali arriva al massimo al 28%. Nella mandibola inoltre è di comune rilievo l'appendice lemuriana, che è una prominenza verso il basso e verso l'esterno dell'angolo della mandibola, cioè dal punto in cui la branca ascendente di essa si incontra col corpo della mandibola. Come dice la sua denominazione, essa fu riferita, almeno in alcune delle sue più tipiche forme, ad un'analoga conformazione scimmiesca. Essa fu riscontrata persino nell'11% dei criminali, mentre non si trova che nel 4-5% dei normali. Inoltre la mandibola raggiunge in certi gruppi di delinquenti, specialmente nei rei contro le persone, le massime dimensioni nel diametro bigoniaco, o bimandibolare, che superano notevolmente quelle dei normali. Anche il peso della mandibola fu messo più rigorosamente in rapporto con quello del cranio (indice cranio-mandibolare), e ingegnosamente (Ferri) anche con l'indice cefalico, la circonferenza cranica e la statura.

Nei padiglioni delle orecchie, che hanno pure una parte così importante nella valutazione estetica della fisionomia, furono rilevate numerosissime anomalie, ormai di comune cognizione ed utilizzate anche per l'identificazione individuale, data la relativa loro persistenza e tipicità. Nei criminali sono più frequenti che nei normali: l'orecchio il cui padiglione sia allontanato dalla superficie cranica (orecchio ad ansa); il padiglione le cui sporgenze interne siano appiattite (padiglione liscio di Morel e di Wildermut, il tubercolo di Darwin, ecc.). A questi antichi studî si sono aggiunte di recente ricerche altrettanto interessanti e numerose (Pusateri 1916, Leredde 1923; Perrier 1924; Mac Auliff, 1925, il quale ultimo ha oggi vigorosamente risuscitato in Francia l'amore e la fortuna di simili ricerche morfologiche).

Tra le anomalie descritte in parti riposte nello scheletro osseo del cranio ricordiamo quelle dell'osso occipitale: la presenza di un terzo condilo nel 4,5% dei criminali; i forami pterigo-spinosi a contorno osseo completo (anello del Civinini) trovati nel 5-7% dei criminali; l'osso basiotico, che è la porzione anteriore dell'apofisi basilare di esso sviluppatasi indipendentemente; nel 9% il torus occipitalis, che rappresenta uno straordinario sviluppo della protuberanza occipitale esterna che tanto preoccupò l'antica frenologia. Più importante in quest'osso occipitale è il rilievo dell'esistenza della fossetta occipitale mediana, sul cui significato il Lombroso, che l'aveva trovata nel cranio del grassatore Vilella, richiamò per primo l'attenzione degli antropologi criminalisti, facendone anzi il punto di partenza per la sua teoria sulla genesi della criminalità e sul suo fondamento atavistico.

Essa è costituita da un avvallamento fra le due branche della cresta occipitale interna, verso il grande forame occipitale. Assolutamente eccezionale nell'uomo, è costante nei Primati inferiori: nell'orango e nel gorilla manca quasi sempre, nonché nei Mammiferi inferiori: Monotremi, Marsupiali, Roditori e Carnivori. Nei criminali fu trovata in una proporzione assai costante tra il 14 ed il 19%; in razze inferiori, specialmente nelle razze indigene dell'America meridionale, persino del 26%. Essa può coesistere con uno sviluppo eccezionalmente maggiore del verme del cervelletto, ed in questo caso corrisponde all'originaria concezione del Lombroso che le attribuiva origine e significato atavico; ma può comparire anche indipendentemente da esso, sempre però per un disturbo di ossificazione nel nodulo del Kerkringio (Chiarugi).

Ricordiamo inoltre le variazioni, frequenti nei criminali, del numero delle vertebre, l'apertura persistente del canale sacrale, le anomalie dello sterno (Stadmuller, 1923; Peiper, 1922; Epstein, 1924), il torace foggiato con una depressione che lo ha fatto chiamare torace ad imbuto (Larini, 1924) e la presenza di tracce di mammelle nell'uomo (ginecomastia; Prange, 1926), che acquista oggi particolare importanza in rapporto alle modificazioni morfologiche connesse con le deviazioni sessuali. Inoltre la molteplicità di mammelle e di capezzoli, specialmente nella prostituta (polimastia e politelia), le variazioni di forma nel bacino che ne invertono nei due sessi i tipici caratteri sessuali. Ancora sono frequenti negli arti dei criminali, più che nei normali, il foro olecranico (Marro, 1913), il processo sopracondiloideo nell'omero, la spina sopratrocleare (Zagni, 1923), il terzo trocantere nel femore, ecc. Nelle parti molli della mano sono più frequenti le disposizioni semplici e rettilinee dei solchi palmari (Retterer, 1918), le pliche dei chiromanti, ad alcune delle quali disposizioni anche l'Enriquez di recente assegnava carattere scimmiesco; e forme pure semplici nei solchi papillari. Anche la persistenza di una coda umana è stata interpretata come avanzo di forme animalesche (Schwarz, 1912; Keith, 1921; Sarasin). Nel piede, oltre a ricerche più generali (Venturi, Pellegrini), fu studiato nell'uomo il prealluce (Bruni, 1921; Mouhan, 1922) e la forma di "piede piatto" (Perusini, 1913).

Tra i visceri, oltre alle più evidenti anomalie ataviche di conformazione lobata del rene e della milza, massima importanza hanno naturalmente le anomalie macroscopiche e microscopiche del cervello e in generale del sistema nervoso centrale: esse dimostrano la grande complessità del problema, in contrasto con gli ingannevoli dati che si raccoglievano in passato, concernenti specialmente il volume ed il peso del cervello. Queste ricerche con maggior rigore e precisione scientifica sono state riprese dal Dubois (1923), seguendo e indagando il progressivo aumento di volume del cervello nello sviluppo filogenetico e ontogenetico dei Vertebrati.

Quanto al peso, si osserva che tra i criminali ne sono più fre quenti e più alte le differenze fra i due emisferi.

Prescindendo poi dalle ricerche microscopiche, rimaste allo stato di tentativo, almeno per quel che riguarda i criminali, anche dopo i magnifici studî sull'architettonica cerebrale del Vogt, del Mause, del Browmann, anche lo studio morfologico macroscopico indagò le anomalie più caratteristiche nella disposizione dei solchi e delle circonvoluzioni cerebrali. Vi si trovò una maggior frequenza di anastomosi tra solchi e fessure confluenti (Benedikt, Giacomini), più frequente nel lobo frontale il tipo di circonvoluzioni sagittali quadruplici, perché più frequentemente è del tutto divisa la seconda circonvoluzione frontale (Lattes); il cervelletto non coperto dal cervello (Benedikt), ecc.

Minori variazioni di quello che presenti tra i normali sembra avere il rapporto tra lo sviluppo del cervello anteriore e posteriore (Mingazzini); inoltre è frequente una tenue prevalenza dell'emisfero destro sul sinistro, contrariamente a quello che avviene nei normali, forse in rapporto con il mancinismo. Ogni giorno vengono segnalate, senza che sia per ora possibile per la loro rarità stabilire confronti statistici con i criminali, molteplici anomalie cui si assegna significazione di ritorno atavico (v. atavismo).

La chimica biologica, l'endocrinologia, la sierologia si sforzano d'individuare un substrato chimico particolare delle specie, delle razze e persino dell'individuo, anzi dei varî tessuti e organi nello stesso individuo (Keith, 1920). Si è anche tentato di porre in rapporto (Jatho e Seymour, 1921) la comparsa delle stimmate della criminalità e della degenerazione con alterazioni del metabolismo.

Anche nei caratteri funzionali dei criminali sono state rilevate e descritte anomalie molto importanti.

Può essere considerato come stadio di passaggio fra le anomalie somatiche e le funzionali il tatuaggio, che consiste, come si sa, nell'introdurre sotto la pelle, seguendo un dato disegno, sostanze insolubili (nero fumo, inchiostro di china, cinabro, ecc.). Esso si trova veramente anche in individui normali, nei soldati, nei marinai e nei pellegrini, ma ridotto a semplici cifre e figure di ancore o di croci, al nome della nave in cui il marinaio fu ingaggiato, del santuario visitato, ecc. Invece nei criminali acquista sorprendente frequenza, trovandosi nel 10-15% fra essi e oggi forse in proporzioni anche maggiori (Cattani, 1922; Galant, 1924; Riecke, 1926), mentre tra i normali lo si trova a mala pena nel 2-3%. Maggiore contrasto si ha nel contenuto: iscrizioni vibranti propositi di vendetta, particolari osceni o argomenti ben rispondenti alla specifica psicologia criminale; di più la diffusione è sull'intera superficie del corpo, non esclusi gli organi genitali. E tutto ciò usano i criminali senza alcuno scopo preciso né alcuna utilità, anzi con pericolo di compromettersi, perché tali tatuaggi rendono più facile la loro identificazione.

Anche il tatuaggio, attribuito da alcuni allo spirito di imitazione, alla promiscuità, all'ozio carcerario, ecc., fu interpretato come una manifestazione atavica in quanto usa forme di rappresentazione simbolica ideografica, analoghe a quelle delle primitive comunicazioni grafiche del pensiero. Fondamentalmente il tatuaggio si ricollega alla minor sensibilità fisica dei criminali, a un loro ottundimento sensitivo, che fu chiamato "segno del Lombroso" (De Sanctis, 1919) dall'autore che per primo ne segnalò l'importanza. Tale ipoestesia i criminali hanno comune con altri gruppi di degenerati, e con gli alienati.

Le sensibilità specifiche si trovano nei criminali di solito diminuite anche per l'abuso dell'alcool, del tabacco, ecc., invece sono presenti altre sensibilità, che nei normali sono andate attutendosi, come la sensibilità magnetica e la meteorica, ossia sensibilità alle variazioni atmosferiche, in rapporto probabilmente con condizioni morbose neuropatologiche (Filippini, 1924), più frequenti in essi.

Si deve citare ancora la distribuzione ineguale della sensibilità (Engeland, 1922) nelle due parti del corpo, che esagera e inverte quello che si trova pure nei normali: cioè una maggior sensibilità a sinistra, che si risolve in un vero e proprio mancinismo sensorio.

Il mancinismo motorio è poi il prevalere per energia, rapidità, agilità di movimenti della mano sinistra, sulla destra, inversamente a quanto avviene di solito. A queste due forme di mancinismo, certo più frequenti nei criminali, si associa spesso un mancinismo anatomico, cioè un maggiore sviluppo della parte sinistra del corpo.

Risultando così alterati nei suoi elementi costitutivi, sensitivo e motorio, l'arco diastaltico, onde fisiologicamente risultano i movimenti riflessi, si capisce come anche questa classe di atti fisiologici (Agostini) resti spesso alterata nei criminali indipendentemente dalle influenze morbose e tossiche (alcoolistica, cocainica, tabagica), a cui sono cosi esposti; ma anche per più profondi rapporti filogenetici.

Maggiore importanza pratica hanno le alterazioni degl'istinti fondamentali della specie che vi sono più frequentemente e più gravemente lesi, come avviene più accentuatamente in altri degenerati e negli alienati, loro affini anche per questo aspetto. Leso gravemente è spesso l'istinto della nutrizione, donde l'ingestione di corpi estranei largamente osservata e descritta dai medici carcerari (Heindl, 1927) e quello della propria conservazione, donde la maggior frequenza del suicidio tra i criminali.

Più evidenti, e quindi, come si è accennato, meno contrastate, sono poi le deviazioni dei caratteri psichici dei criminali, persistenti anche fuori dalla loro specifica attività criminosa.

Profondamente alterati sono in essi, come ben si comprende, i sentimenti morali.

Se una distinzione fra i due gruppi dei sentimenti morali e delle facoltà intellettive nella personalità psichica individuale può apparire arbitraria e scolastica, perché naturalmente tutte le manifestazioni psichiche individuali sono tra loro solidali e interdipendenti, sia nello sviluppo, sia nel normale funzionamento e nelle deviazioni, tuttavia essa ha nello studio della criminalità un significato non trascurabile perché forse in nessun altro campo della psicologia anormale, sorprende, come in questo, il non raro contrasto tra un'accentuata deviazione e un arrestato sviluppo o una spiccata atrofia dei sentimenti etici accanto ad una non comune intelligenza.

Basterà rammentare truffatori e truffatrici celebri, tra l'altre la Teresa Humbert, nei quali la fantasia, l'immaginazione e l'ingegnosità erano estremamente sviluppate in una sintetica potenzialità creativa. Sono raccolti nel museo di Antropologia criminale di Torino e in altre simili collezioni (palinsesti del Lombroso, Prinzhorn, 1925, Walter, 1926) non spregevoli lavori letterari, di plastica e di pittura, che rivelano una indubbia attitudine ed abilità artistica. Finissima è l'ingegnosità, esaltata dall'urgenza dell'interesse individuale (Walter, 1926), dei mezzi escogitati per procurare o favorire le evasioni; e tra i cosiddetti specialisti del delitto il ripetere l'atto criminoso sempre in forme identiche o analoghe, naturalmente ne raffina la concezione e ne perfeziona la tecnica.

Sennonché queste forme di innegabile intelligenza sono poi sempre, o quasi sempre, incrinate da alterazioni più qualitative che quantitative: dalla superficialità del giudizio, dall'insufficienza della critica, dall'imprevidenza, dall'impulsività, che, come spingono al delitto, così spesso (fortunatamente) compromettono l'esito dei meglio elaborati piani criminosi e li rivelano.

Esagerando tali parziali alterazioni, la scuola psicologica americana (Terman, Goddard), che del resto in parte si è già ricreduta volle arbitrariamente riconoscere nella criminalità, e particolarmente nella criminalità dei minorenni, una prevalenza numerica e quantitativa di scadimento e d'insufficienza mentale (Stone, 1923; Malzberg, 1919; Grierson e Rixon, 1926; Bellian, 1922; Romanese e Gozzano, 1922). Ad ogni modo a tali alterazioni intellettive si ricollegano evidentemente le manifestazioni elettive tipiche del linguaggio e della scrittura, che, con le loro anomalie, spesso risentono nei criminali influenze morbose e ad ogni modo si improntano fedelmente alla personalità criminale di cui sono espressione rivelatrice. Fra tali manifestazioni ha particolare interesse il gergo: non solo per le sue evidenti utilizzazioni nella pratica di polizia giudiziaria, ma anche e più, per il suo valore quasi di linguaggio di una particolare specie e socied umana.

Ma l'alterazione più grave e veramente tipica dei criminali che intacca il lato etico della loro profondita, è la deficienza dei sentimenti morali superiori altruistici che son caratteristici della civiltà umana evoluta e normale: la compassione, anzitutto, l'affettività, l'amore al lavoro, la disciplina, l'ordine, il sentimento di giustizia, il sentimento della propria conservazione e il rispetto dell'altrui.

Molte manifestazioni di apparente coraggio, specialmente la freddezza in cospetto della morte propria o altrui, è dovuta a tale insensibilità fisica e psichica e alla mancanza teratologica dell'istinto della propria conservazione. Prevalgono invece i sentimenti della sfera psichica inferiore o egoistica: la crudeltà, la pigrizia, la vanità, la vanità del delitto stesso di cui il delinquente si vanta, la preferenza per l'ozio, per il giuoco e per le orgie. Nei grandi stabilimenti penali e penitenziari il maggior delinquente non è solo il più temuto, ma il più apprezzato e il più riverito: e scherzosamente, ma concettosamente, di recente il Marika (1926) in una sua conferenza evocava la misteriosa "Maschera di ferro" per farne anche oggi schermo della trionfante vanità dei carcerati. È inutile recarne esempî aneddotici, poiché tutta l'attività criminale stessa è la documentazione fedele e rivelatrice di codeste particolari attitudini psichiche (Hamburger, 1912; Viernstein, 1924; Hermann, 1912; Kaufmann, 1912; Weygandt, 1915; Garnier, 1912). Ma importante e significativo si è che la psicologia sperimentale positiva afferma concorde un certo rapporto fra tale insensibilità morale e il dimostrato ottundimento della sensibilità fisica, specialmente algesica, e dà così una base organica anche a questa alterazione psichica. Per cui argutamente si è detto che i criminali meno s'immaginano i dolori altrui, i quali non suscitano perciò in essi quella "compassione", che presuppone e significa, anche etimologicamente, una comunanza di patimento, perché meno sentono i propri.

L'insensibilità o l'ottusità morale non si estende però a tutti i campi del sentimento neppure tra i criminali più gravi che non siano alienati; non avviene cioè neppure in essi una totale distruzione di ciò che l'umanità si è foggiato faticosamente di più prezioso e di più nobile; rilucono, anche in questa opacità sentimentale, zone luminose (Vallon e Genil-Perrin, 1913) accanto a zone oscure, casi di affettività, anzi talora eccessivi, che spesso ingannano osservatori superficiali o sentimentali e suscitano illusioni e speranze fallaci sulla possibilità di emenda e di riabilitazione.

A tale coesistenza di elementi relativamente normali e di tendenze criminose, corrisponde bene una differenziazione, più rigorosa e più frequente di quel che comunemente non si creda, di forme singole di criminalità: cioè il ladro ha ribrezzo degl'istinti sanguinarî dell'omicida, come se la sua organizzazione psichica fosse deviata tutta esclusivamente nella direzione della sua criminalità specifica; nello stesso modo che l'omicida spesso si vergogna di essere accusato di furto. Tutto ciò ha fatto pensare, meglio che a una depravazione morale indistinta o generica (quale di solito si deplora), ad una sorta di localizzazione, se pure ancora imprecisata, delle varie devidzioni criminose, a quello stesso modo che s'è visto per la criminalità sessuale alla quale è stata assegnata già una base organica.

Con l'assommarsi di tali caratteri anomali, somatici, funzionali e psichici, si forma quello che il Lombroso ha chiamato il tipo criminale, che rappresenta veramente un valore limite, come del resto il concetto di uomo normale. Vi si avvicinano quei criminali nei quali concorrono numerose le descritte caratteristiche stimmate: qualche cosa di analogo a quello che il Bauer (1924) ha di recente chiamato status degenerativus. Questo autore assai accuratamente ha distinto e delimitato tale configurazione, in confronto con i caratteri che si trovano anche in individui normali, mediante la costruzione di significative curve di variazione.

Il tipo criminale costituisce nel suo complesso precisamente il fattore strutturale antropologico del delitto. Ma nessuno, anche nei primordî dell'antropologia criminale, ha mai sostenuto che esso ne fosse l'unico, se pure essenziale, promotore, anzi, fino dagl'inizî, si ammise, che, accanto ad esso, altre condizioni agissero nel provocare il delitto. E si distinsero: a) le condizioni individuali (l'età, il sesso, i traumi, le malattie, lo stato civile, la professione); b) le condizioni ambientali, fisiche, climatiche, poi l'educazione, le condizioni economiche e politiche, la religione, ecc., la cui influenza, variamente attiva, interviene di volta in volta a modificare la frequenza, la forma e la gravità delle singole manifestazioni criminose.

Anzi l'antropologia criminale ha compiuto uno studio completo ed esauriente di tutte le condizioni che concorrono a determinare il delitto e le ha raccolte ed illustrate in un capitolo, che risponde al capitolo che tratta della patogenesi delle malattie fisiche. È così più facile rilevare le loro varie ripercussioni, che spesso cadono sotto la comune esperienza.

Ora si comprende bene come, poiché in questo intreccio di fattori ciascuno di essi ha varia partecipazione e prevalenza nei singoli casi, ne scaturisca logicamente una distinzione fra tipi o classi di delinquenti, la quale si fonda sull'importanza che nella genesi della criminalità hanno rispettivamente la predisposizione antropologica e tutti questi fattori occasionali. Distinzione che ha la massima importanza pratica rispetto al diverso trattamento correttivo e penale cui debbono venire sottoposti i singoli gruppi di criminali che risultano così formati e distinti.

Infatti in un primo gruppo, secondo la nota classificazione Lombroso-Ferri, si raccolgono i criminali nella genesi della cui delinquenza prevale recisamente il fattore della costituzione anomala e deviata: il Lombroso li ha chiamati, con una denominazione che è ormai consacrata nella criminologia mondiale, criminali nati. Lo stesso progetto di nuovo codice penale italiano li indica (art. 104) con l'analoga denominazione di delinquenti per tendenza istintiva. Il delinquente nato si caratterizza per l'impulsività, per la debolezza congenita delle energie d'inibizione onde trascende precipitosamente dall'idea all'atto, e per motivi assolutamente sproporzionati alla gravità del delitto; e soprattutto per la mancanza e debolezza del senso morale che è la maggior forza che tien lontani dal delitto gli uomini normali. A tali caratteri psichici corrispondono numerose e gravi tare di anomalie somatiche. Il delinquente nato commette i più diversi delitti e della più diversa gravità: dall'assassinio al furto, dall'incendio al falso, dal ricatto alla truffa. E due caratteri particolari lo contraddistinguono: la precocità e la recidiva. Questi criminali costituiscono appunto i cosiddetti incorreggibili (Ferri). E per verità appaiono appartenere ad altro tipo individui, il cui nome arrossa di trista celebrità gli annali giudiziari, che dall'omicidio multiplo freddo e premeditato trapassano persino ad una risorta antropofagia: quali il Haarmann descritto dal Kleinenberg e dal Weiss; il Denke descritto dal Petruschky (1926), il Grossmann descritto dal Kromfeld (1922).

Vi si pongono accanto i criminali d'abitudine, nei quali pure la costituzione individuale è viziata fondamentalmente, ma le si associano anche influenze esteriori sfavorevoli che irretiscono in una cronica abitudine le manifestazioni criminose. Son quelli che pure il nuovo progetto di codice penale chiama (art. 101) delinquenti criminali. Hanno comune con i delinquenti nati l'ostinata recidiva la grave pericolosità, la precocità e la scarsa riadattabilita sociale, e anche tare ereditarie somatiche e psichiche. Ma presentano una propria fisionomia bio-psichica, e spesso nella loro delinquenza si riscontra una certa gradualità progressiva. Il Ferri ne ha distinto quattro tipi principali: quello che ha tendenza congenita ai delitti di sangue; quello che commette abitualmente delitti non gravi con una congenita ripugnanza al lavoro metodico, come i vagabondi; quello veramente corrotto dalle brevi e ripetute e dannose pene carcerarie, e infine il delinquente per mestiere, o professionale.

Dal che deriva che l'apprezzamento e la valutazione antropologica della criminalità oltrepassa le modalità dei singoli atti criminosi: manifestazioni delittuose che non sono gran che appariscenti, ma ostinatamente recidivanti e pressoché immanenti, si giudicano più "gravi" dal punto di vista antropologico perché strettamente derivanti da una determinata struttura psicofisica deviata, e quindi difficilmente modificabile da qualsiasi trattamento penale o profilattico: tali sono tipicamente il vagabondaggio e certe forme di mendicità (Florian e Cavaglieri, 1898; Kimberg, Olof, 1924; Rems, 1923; Benon, 1922). Con ragione dunque una recente legge belga (1921) è destinata espressamente alla repressione del vagabondaggio.

Nei criminali d'occasione invece è più evidente e più decisiva la sporadica e occasionale influenza di qualche stimolo o circostanza esteriore nella produzione del delitto: il quale resta anzi talora un episodio isolato nella loro vita. Segno è che, per quanto la loro personalità presenti pure anomalie biopsichiche, essa non avrebbe per sé sufficiente ed impellente iniziativa criminosa. Vi rientrano quelli che in antropologia criminale si sogliono chiamare delinquenti per passione, un gruppo dei quali ora i tedeschi chiamano Überzeugungsverbrecher (Radbruch, Gaupp, 1927; Wolff, 1927) con una denominazione che richiama insieme i moventi occasionali del loro delitto. In essi i moventi del delitto risalgono a quei sentimenti che consideriamo di solito sociali, cioè proprî dell'attuale organizzazione sociale e familiare affettiva, ma pervertiti o esaltati da eccessi passionali; rimanendone così esclusi tutti gli altri moventi, sia pure ancora passionali, ma antisociali: come l'avidità, la vendetta, la lussuria.

Restano infine separati e pur nettamente riconoscibili i delinquenti pazzi, che esigono, come è chiaro, un trattamento particolare, che per verità è già sin d'ora, almeno in parte, attuato (Birnbaum, 1921).

Così il tenace sforzo della nuova disciplina si appunta a distinguere, contrariamente a quel che si disse, il pazzo dal delinquente: anzitutto per corrispondere a evidenti e urgenti esigenze pratiche del loro trattamento; ma anche perché la criminalità non fu considerata dalla nuova disciplina come una malattia attuale, quale è l'alienazione mentale, ma principalmente come effetto di un'anomalia strutturale.

Cosicché, l'antropologia criminale, esaltando l'immanente fondamento antropologico dell'attività psichica, mentre cercava di spiegare molti insuccessi dell'azione educatrice e della sanzione repressiva del magistero penale, faceva convergere con maggiore energia e con più chiari intenti ogni azione profilattica e terapeutica contro questi elementi o fattori del delitto (come furono chiamati) che le sembrano i soli raggiungibili e modificabili.

Sotto il suo impulso e la sua direttiva, insieme biologica e sociologica, si incominciò a contrastare e a combattere il delitto non più soltanto con l'azione eminentemente repressiva del diritto penale e della polizia giudiziaria, ma anche con l'influenza preventiva e profilattica di adeguati ordinamenti dell'economia pubblica, e della politica, tutti solidali nell'annullare o temperare codesti fattori esogeni del delitto.

Infatti, come l'antropologia criminale fornì nuovi elememi e nuovo materiale alla polizia giudiziaria per l'identificazione degli autori dei reati mediante l'integrale ricostruzione biologica dei criminali stessi (Ottolenghi), profonda e importante ripercussione essa ebbe nelle scienze penali e penitenziarie; ché la nuova dottrina naturalistica proclamata dall'antropologia criminale fu raccolta e fu svolta dal punto di vista giuridico dalla scuola positiva di diritto penale, la quale sorse anche in Italia per opera di Enrico Ferri e del Garofalo. Dopo vivaci dibattiti dottrinali essa è giunta perfino ad aver sistemazione in codici e in leggi: come nel progetto redatto da Enrico Ferri (1921) per incarico governativo, in quello ancor più recente per Cuba (prof. Órtiz, 1926) e nei codici penali già promulgati dai Soviet (1927) e dal Perù. Nei quali dunque trionfa la tendenza dell'antropologia criminale: trionfa nel trasferire, o meglio nell'estendere, l'interesse e la competenza della legge penale dalla valutazione della forma obiettiva del reato, allo studio e all'apprezzamento anche dell'elemento soggettivo, cioè all'autore del reato, a colui che il Ferri fu espressivamente chiamato il "protagonista del procedimento penale".

Dopo aver tentato di dimostrare biologicamente la stretta, pressoché necessaria connessione che intercede fra reato e struttura individuale, si cercò di risolvere l'annoso problema della ragione della pena e del suo intento: fu risolto nel senso che la società umana aveva semplicemente diritto e ragione di difendersi dai criminali, come si difende da altri elementi turbatori fisici e morbosi: nel modo più efficace, ma senza provocare dolore, senza infliggere infamia e vergogna: bensì proporzionando con plastica adattabilità la difesa alla pericolosità dei delinquenti.

Il Belgio per primo ha elaborato un progetto di legge penale contro la criminalità, intitolandolo appunto di difesa sociale. Anche in Italia il recentissimo (1927) progetto di riforma di codice penale, pur conservando il tradizionale principio dell'imputabilità morale, ha preso tuttavia in considerazione vere e proprie figure "antropologiche" del reo, cui dedica un particolare capitolo: reo di abitudine, professionale e reo per tendenza istintiva, che corrisponde evidentemente al delinquente nato lombrosiano. Inoltre introduce accanto alle pene le misure di sicurezza dirette a garantire la difesa sociale con agile adattabilità all'indole del reo e con consentanea indeterminatezza di durata. Vi è presa ancora in particolare considerazione la pericolosità del delinquente, alla quale è adeguato il trattamento penale; e infine viene tenuto largo conto dei moventi del reato, o futili, o perversi, o per causa d'onore, che caratterizzano l'indole del criminale e la ragione del suo delitto e sono dunque il miglior criterio, già proclamato dall'antropologia criminale, per individuarlo e dirigerne il trattamento penale.

Così individuato infatti il criminale, si individualizza anche il suo trattamento penitenziario a seconda dei caratteri e delle tendenze dei singoli individui o dei singoli gruppi di criminali, con una profonda trasformazione del regime penitenziario. Anche qui fu primo il Belgio col suo ordinamento carcerario improntato a criterî positivisti per opera del Vandervelde e del Vervaeck; e l'iniziativa si va diffondendo in varî paesi dell'Europa, ma specialmente dell'America del Nord e dell'America latina, nei loro grandi stabilimenti penitenziarî come nelle loro leggi penali; in essi si scevera scientificamente il materiale umano con ingegnosi criterî classificatorî a cui corrisponde una differenza di trattamento e di metodo.

Soprattutto s'è iniziata e s'è diffusa e sta stabilendosi anche in Italia la creazione dei cosiddetti annessi penitenziari psichiatrici o antropologici; cioè di reparti carcerarî dove il detenuto è studiato antropologicamente, nei particolari e nel complesso della sua costituzione, per apprestare gli elementi tecnici di natura biologica che dovranno essere utilizzati così dal giudice, per commisurarvi la pena, come dai dirigenti carcerarî per scegliere e per dirigere il trattamento penitenziario, cioè per armonizzarlo al carattere, alle tendenze, e alle anomalie dei singoli gruppi di criminali, sì da poterne trarre il massimo rendimento terapeutico ed emendativo.

Essi realizzano così nella pratica penitenziaria, per un'urgente necessità attuale che s'è imposta ancor prima di essere riconosciuta dalle leggi penali, un'individualizzazione della pena e, se pur in modeste dpparenze, costituiscono una realizzazione, si potrebbe dire il coronamento, della dottrina dell'antropologia criminale, perché attuano il suo intento precipuo, quello di trasferire sulla persona del delinquente l'attenzione e la valutazione del giudice sino ad ora pressoché esclusivamente diretta a colpire il reato.

Altrettanto si va facendo nelle principali carceri delle più lontane parti del mondo, dall'America (Overholser, 1926) alla Lettonia (a Riga: Neureiter); dalla Germania (Kiel: Böhmer e Ziemke) e dall'Austria (a Graz: Reuter) a Cuba, dove Castellanos copre l'ufficio ed ha il nome di medico antropologo di quelle carceri. E come il codice penale, così l'organizzazione carceraria dei Soviet si è completamente trasformata in relazione a tale influenza antropologica con gl'istituti di stato per lo studio dei criminali, benché vi si faccia ancora eccessivo conto d'influenze sociologiche.

Tale penetrazione dell'antropologia criminale nella legislazione e nella pratica applicazione del magistero penale, viene preparata e fiancheggiata da un fiorente e continuo studio dottrinale. Tre università italiane, Roma, Napoli e Torino, hanno dedicato una cattedra d'insegnamento universitario all'antropologia criminale. Nell'università di Genova esiste nell'Istituto di medicina legale una sezione destinata all'antropologia criminale. La quale si insegna del resto anche nelle altre università dalla cattedra di medicina legale nel capitolo della psicopatologia forense, tanto nella facoltà di medicina che in quella di giurisprudenza. Integrano questo insegnamento scuole post-universitarie, dette di applicazione, a (Roma) o di perfezionamento, (a Torino e a Modena), nelle quali si associano e si affratellano insegnanti delle due facoltà di legge e di medicina, con attraente fortuna in un comune campo d'indagine, di trattazione e di applicazione. Rispettivamente la Scuola positiva, l'Archivio di antropologia criminale fondato dal Lombroso e la collezione Biblioteca antropologico-giuridica recano al mondo culturale l'eco di questi maggiori centri di studio. La sociologia criminale ha poi una propria cattedra nell'università di Milano.

In Francia gli Archives d'anthropologie criminelle svolsero per molti anni dottrine consentanee e raccolsero un ricco materiale documentario. Essi ora sono continuati, se pur in diverso quadro di contenuto, dagli Annales de médecine légale diretti dal Martin e dal Balthazard, mentre più precisamente Les annales de l'Institut de médecine légale de Lyon continuano la tradizione anche antropologica del Lacassagne sotto la direzione del Martin. Ma soprattutto ricordiamo a Parigi il Bulletin de la Société d'étude desformes humaines, Société de morphologie diretto dal Mac Auliff: e nel Belgio la Revue de droit penal et de criminologie, ormai fusa con Les Archives internationales de médecine légale, diretti dal Gilard.

Nel resto d'Europa sono da notare le pubblicazioni russe che rispecchiano l'attività scientifica dei nuovi istituti di stato destinati allo studio antropologico e psichico dei criminali, tutte in complesso ispirate a concezioni di antropologia criminale e diverse riviste che si pubblicano in Polonia e nel Portogallo. Nella Repubblica Argentina, nel Brasile e nel Perù si pubblicano riviste intonate alle dottrine dell'antropologia criminale italiana e riproducenti anche nell'ampiezza del contenuto programmatico il quadro generale del lombrosiano Archivio. Tali sono la Revista de criminología, psiquiatría y medicina legal diretta dal Loudet di Buenos Aires, la Revista argentina de neurología, psiquiatría y medicina legal diretta da Helvio Fernandez; il Boletín de la Biblioteca nacional de criminologia y ciencias afines diretto dal Gómez, pure di Buenos Aires. il Boletín de criminología pubblicato dalla Direzione generale delle carceri di Lima.

Anche in Germania l'antropologia e psicologia criminale si insegna come un corso a parte per lo più da medici, talora anche da giuristi, in 14 delle 22 università tedesche. E corrispondentemente vi si pubblicano opere di criminologia fondate sull'osservazione diretta ed antropologica di numerose serie di delinquenti: la collezione Abhandlungen aus dem Gesamtgebiete der Kriminalpsychologie edita dallo Springer; la collezione VerbrecherType pure edita dallo Springer; l'Encyklopädie der Kriminalistik edita dal Langenscheidt; come le opere del Gruhle, del Birnbaum, sino alla recentissima opera del Daniel intonata esplicitamente a criterî positivisti, del Lenz e a consensuali pubblicazioni periodiche: Archiv für Kriminologie; Kriminalistische Monatshefte; Monatsschrift für Kriminalpsychologie. Ma dove anche non si insegna isolatamente, essa ha modificato dappertutto l'insegnamento e la dottrina del diritto penale: i cosiddetti "eclettici", cui appartengono i più bei nomi di personalità scientifiche di penalisti in Germania in Austria, in Francia, pur conservando il principio tradizionale dell'imputabilità morale, tengono anche conto di elementi antropologici nella misura e nella qualità della pena. In Argentina e nel Brasile, nel Giappone e in Ispagna, nell'insegnamento del diritto penale prevalgono tendenze nettamente positiviste rispettivamente col Ramos, col Makino, col Soldana, col Jimenes de Asua, col Ruiz Funes.

Bibl.: C. Lombroso e R. Laschi, Il delitto politico e le rivoluzioni, Torino 1890; C. Lombroso, L'uomo di genio in rapporto alla psichiatria, alla storia ed all'estetica, 6ª ed., Torino 1894; id., L'uomo delinquente, 5ª ed., Torino 1896-97; voll. 3; sunto del prec. a cura di G. Lombroso Ferrero, I, Torino 1925 (ivi è raccolta tutta la bibliog. prec.); P. Petrazzani, Le degenerazioni umane: studi di biologia clinica, Milano 1911; L. Vervaeck, Le Laboratoire d'anthropologie pénitentiaire, Bruxelles 1911; H. W. Gruhle, Die Ursachen der jugendlichen Verwahrlosung und Kriminalität, Berlino 1912; M. Kauffmann, Die Psychologie des Verbrechens, Berlino 1912; A. Niceforo, Per la revisione di alcuni punti dell'antropol. criminale (le medie e le curve di frequenza), in Riv. di Antrop., XVII (1912), H. Többen, Beiträge zur Psycologie und Psychologie der Brandstifter, Berlino 1917; S. De Sanctis, Ipoalgesia universale e "Sintomo di Lombroso", in Archivio di Antrop. crim., 1918-19, p. 338; De Keyser, La syphilis dans ses rapports avec l'Anthropologie criminelle, in Bull. Soc. Anthrop. Bruxelles, XXXIV (1919); C. Goring, The English convict a statistical study, Londra 1919; Del Giudice, Superstizione e criminalità, in Scuola positiva, 1920, p. 319; Schaffer, Die allgemeine histopathologische Characterisierung der Heredo-degeneration, in Schw. Arch. f. Neur. u. Psych., 1920; La Dogna Cassone, Caratteri endocrinologici nei delinquenti, in Critica penale, 1921; Romanese e Gozzano, L'intelligenza dei minorenni, in Arch. del Lombroso, 1922; Cerletti, La malattia più diffusa, in Quad. di Psichiatria, 1923; Dubois, Phylogenet. u. ontogenet. Zunahme des Gehirnvolumens bei den Wirbeltieren, in Zbtl. C. P. XXXIII (1923) p. 10; E. Finkbeiner, Die kretinische Entartung, Berlino 1923; Vidoni, Valore e limiti dell'endocrinologia, Torino 1923; Lattes, Criminels par maladie, par anomalie, par invalidité, in Rev. de Droit Pénal et de Criminologie, 1925; Prinzhorn, Bildnerei der Gefangenen, Berlino 1925; Rossi, La costituzione somatica e psichica della prostituta, in Arch. Lomb., 1925; Viernestein, Der kriminalbiologische Dienst in bayerischen Strafanstalten, in Mon. f. krim. Psych., 1925; Jacob André, La criminalité des vieillards, in Ann. Inst. Méd. Lég. Lyon, 1925-26; Doll, Delinquency among school children, in School Bull., XXII (1926); Overholser, Psychiatric examination of Prisoners in Masachusetts, in Boston Med., 1926, n. 23.

Nonostante il rapido successo avuto dall'antropologia criminale in Italia e all'estero, essa ha incontrato, fin dal suo inizio, opposizioni irriducibili e spesso anche violente. Le prime critiche le vennero dai seguaci dell'indirizzo giuridico tradizionale, contrassegnato poi con l'epiteto di classico, per il quale la negazione del libero arbitrio e della responsabilità morale del delinquente significava il capovolgimento di tutti i presupposti sistematici della scienza del diritto penale. Ma l'opposizione, per quanto energica ed aspra, non poté avere un carattere decisivo e si stemperò ben presto in affermazioni conciliative e in teorie sostanzialmente eclettiche. Basti ricordare quanto scrisse in proposito il Pessina nella sua opera Il diritto penale in Italia da Cesare Beccaria sino alla promulgazione del codice penale vigente (Milano 1906, pp. 710-712, 732, 733), ponendo in rilievo le benemerenze della nuova scuola e accettandone in gran parte i principî fondamentali. Né di diverso genere fu la critica del Lucchini, ché anzi la necessità del metodo sperimentale era da questo perentoriamente riaffermata e il problema del libero arbitrio lasciato in disparte, reputandosi inutile opporsi a un sentimento al quale l'uomo non saprà mai rinunciare (I semplicisti del diritto penale, Torino 1886, pp. 44, 46). A conclusioni analoghe sono pervenuti via via gli altri classicisti e poi i cosiddetti tecnico-giuridici, per i quali le teorie dell'antropologia criminale hanno un indiscutibile valore e il solo difetto di sopprimere l'esigenza tradizionale della libertà del volere. Ne è prova evidente il Progetto preliminare di un nuovo codice penale (1927), in cui sono accolti molti dei postulati della scuola positiva, pur riaffermandosi i tradizionali principî sull'imputabilità e sulla pena.

Maggiori opposizioni le teorie dell'antropologia criminale incontrarono da parte dei cattolici, che hanno subito visto nella nuova scienz. a una fondamentale negazione delle verità della fede. Una ampia critica, così dal punto di vista scientifico come dal punto di vista speculativo, è stata compiuta dal Gemelli (Le dottrine moderne della delinquenza, 3a ed., Milano 1920), per il quale non è vero che vi sia perfetta equivalenza tra il fenomeno delittuoso e i suoi fattori antropologici. La degenerazione, l'atavismo, l'epilessia, la pazzia, ecc., non conducono fatalmente al delitto; e si può solo dimostrare che esistono individui, i quali portano fin dalla nascita, e per anormalità antropologiche, una tendenza istintiva a delinquere. In sostanza per il Gemelli le conclusioni dell'antropologia criminale non hanno valore assoluto e possono estendersi solo ad alcuni delinquenti: il determinismo ch'esse implicano è solo relativo e lascia sussistere quel libero arbitrio, che la nostra coscienza afferma irrefutabilmente.

Ma la critica più radicale mossa all'antropologia criminale è stata certamente quella che si è accompagnata alla reazione idealistica contro il positivismo in genere. In un saggio intitolato Cesare Lombroso e la scuola italiana di antropologia criminale (in Le origini della filosofia contemporanea in Italia, II, I positivisti, Messina 1921) il Gentile ha mostrato il significato nettamente materialistico dei presupposti della nuova scienza e l'intima contraddizione derivante dall'impossibilità di conciliare tali presupposti con le esigenze spirituali, che, nonostante tutto, non possono non venir riaffermate dagli stessi positivisti. A differenza delle altre critiche, quella idealistica non ha mirato a rivendicare il libero arbitrio accanto al determinismo, il posto dello spirito accanto a quello della natura; non ha cercato cioè di limitare l'estensione e l'assolutezza delle teorie antropologiche, sostituendo al monismo naturalistico il dualismo di anima e corpo; ma ha capovolto addirittura la soluzione, affermando la spiritualità dello stesso corpo umano e il carattere assolutamente libero dell'agire. S'intende che con questo l'idealismo non ha preteso di negare senz'altro il valore di tutte le ricerche dell'antropologia criminale; esso piuttosto ha cercato di interpretarle in modo più rispondente all'effettiva realtà, e cioè non trovando nelle anomalie antropologiche le cause dell'azione delittuosa, bensì soltanto l'indice della personalità del reo: se anche il corpo è manifestazione dello spirito, ogni delinquente, così come ogni uomo, deve avere una speciale fisionomia antropologica corrispondente alla sua personalità spirituale (U. Spirito, Storia del diritio penale italiano, II, Roma 1925).

TAG

Accademia delle scienze di torino

Sistema nervoso centrale

Codice penale italiano

Antropologia criminale

Teoria dell'evoluzione