Apoptosi

Dizionario di Medicina (2010)

apoptosi

Pietro Calissano
Nadia Canu

Il termine apoptosi, che etimologicamente significa caduta delle foglie o dei petali di un fiore, è stato coniato dai ricercatori che hanno descritto in termini istologici la massiccia perdita di cellule che si verifica, per esempio, nel corso dello sviluppo del cervello attraverso l’eliminazione di tutte le cellule nervose inutili; ciò succede anche sulla cute, quando la sottoponiamo a un eccessiva esposizione al sole. L’a. è anche conosciuta come ‘suicidio cellulare’, poiché il processo di morte delle cellule che ne sono colpite non è semplicemente dovuto, come nel caso della necrosi, all’azione di una sostanza chimica tossica o ad altro evento traumatico di diversa natura, ma è la conseguenza di un processo che la stessa cellula attiva al proprio interno, quando le sue funzioni fisiologiche non possono più essere espletate. Si tratta, quindi, di un processo attivo, che la cellula stessa mette in opera attingendo a un programma insito nel proprio patrimonio ereditario, ed è presente in tutte le cellule che formano gli organismi. Gli studi compiuti nell’ultimo decennio del secolo scorso hanno dimostrato che l’a. svolge un ruolo cruciale per contrastare l’insorgenza di tumori, per l’attivazione del sistema di difesa immunitario e per la stessa formazione di un organismo. In particolare, nel sistema nervoso questo programma di autoeliminazione svolge una funzione essenziale nella fase della formazione dei circuiti nervosi appropriati durante lo sviluppo, ma se l’a. è attivata impropriamente nel cervello adulto, può causare malattie neurodegenerative come la malattia di Alzheimer. [➔ cervello, sviluppo del; differenziamento neuronale; necrosi; neurodegenerazione; neurone; plasticità neuronale] Alla nascita, il cervello di un neonato è dotato di un numero di cellule nervose, o neuroni, molto più grande di quello presente nello stesso cervello all’età di venti anni. Questa perdita non assomma a qualche milione di neuroni ma a molti miliardi e coinvolge più o meno tutte le aree cerebrali. Perché la natura compie una ‘strage’ di queste dimensioni, malgrado l’importanza cruciale che queste cellule hanno per il buon funzionamento del cervello? Anche se la risposta può sembrare paradossale, ciò avviene perché questa eliminazione di massa serve per far funzionare meglio i neuroni sopravvissuti. Si tratta, in fondo, dello stesso principio darwiniano della sopravvivenza del più adatto nei confronti del continuo mutare dell’ambiente circostante. Nel caso del cervello, i neuroni dei neonati, che lasciano il caldo e rassicurante mondo intrauterino, incominciano a essere tempestati da una congerie, apparentemente confusa e complicata, di nuovi messaggi che l’organismo invia loro in attesa di risposte adeguate. Questa massa di impulsi, che giunge sia nella veglia che nel sonno, opera in parte come uno scultore che con il procedere del suo lavoro provvede progressivamente a scolpire il marmo, eliminandone gran parte. Michelangelo Buonarroti, interrogato su come procedesse nella sua opera di scultore, avrebbe affermato: «basta togliere il superfluo ». Ora, a mano a mano che, in ogni istante, milioni di impulsi arrivano ai neuroni del neonato, si generano meccanismi selettivi che assicurano la sopravvivenza, al temine di questa gigantesca opera di modellamento, soltanto dei neuroni che hanno stabilito collegamenti fisici e funzionali con altri neuroni per costituire le reti nervose che incessantemente funzioneranno nel cervello. Chi provvede, e in quale modo funziona, questa eliminazione di massa? La risposta precisa è giunta circa negli anni Novanta del 20° secolo a opera di un gruppo di ricercatori che lavorava su un minuto verme dalle dimensioni millimetriche, chiamato Caenorhabditis elegans (➔ Ced), ma la descrizione istologica del processo di eliminazione dovrebbe essere retrodatata di alcuni decenni prima, ed è in larga parte attribuibile a Rita Levi-Montalcini e a Giuseppe Levi.

apoptosi

Apoptosi e sviluppo di un organismo

Lo sviluppo e il mantenimento di un sistema biologico multicellulare dipendono da una complessa e sofisticata rete di segnali tra le cellule che formano un organismo e talvolta richiedono che le singole cellule manifestino un comportamento altruistico a favore dell’organismo nella sua totalità. La formazione di un individuo ha origine, come è noto, da due singole cellule che si fondono e si moltiplicano fino a generare un organismo completamente formato. è interessante notare che in questa fase di sviluppo le cellule si dividono a un ritmo anche superiore a quello che caratterizza il più invasivo dei tumori. Nell’arco di 9 mesi la cellula uovo e lo spermatozoo che la feconda vanno a costituire una massa del peso medio di 3,2 kg, già organizzata in organi e tessuti! Mentre è intuitivo che per formare questo essere vivente la cellula uovo debba dividersi, moltiplicarsi e andare incontro a una serie di metamorfosi profonde e irreversibili, è apparentemente paradossale che la morte, o meglio l’autodistruzione, sia parte integrante di questo processo. Per quale motivo intere popolazioni di cellule devono morire durante lo sviluppo, e che cosa provoca la loro la morte? Studi condotti su diversi animali hanno dimostrato che le ragioni sono numerose: modellare ed eliminare strutture, controllare il numero delle cellule ed eliminare le cellule anomale. Per es., durante la vita fetale, tra le dita delle mani e dei piedi è presente uno strato di cellule che conferisce a queste due strutture un aspetto palmato. Con il progredire dello sviluppo tali strutture vengono rimodellate e le cellule che si trovano tra le future dita muoiono per apoptosi. Non è infrequente trovare persone in cui questo processo non si è realizzato completamente e che presentano una separazione incompleta di una o più dita.

Autoeliminarsi per agire e pensare meglio: il caso del cervello

Come si è accennato, la morte cellulare programmata si manifesta anche durante lo sviluppo del sistema nervoso e svolge un ruolo assolutamente essenziale in questo processo. Durante la sua formazione l’organismo produce un eccesso di neuroni. Questi competono fra loro per raggiungere le loro sedi definitive e stabilire appropriate connessioni con le altre cellule. Tutti i neuroni che non hanno stabilito e formato connessioni adeguate, o che hanno raggiunto destinazioni sbagliate, si autoeliminano. I segnali per procedere a questo evento possono essere molteplici. Nello sviluppo, per es., possono consistere nel fatto che una certa popolazione di neuroni non riceve impulsi nervosi o specifici fattori diffusibili (come le neurotrofine, prodotte da altri elementi nervosi). Si ipotizza inoltre che molte cellule servano a guidare la migrazione e la genesi morfologica di altri neuroni: svolgerebbero cioè una funzione transitoria, limitata a spazi e tempi specifici, dopo di che il loro ruolo e la loro stessa esistenza si esaurirebbero. La loro funzione può essere paragonata a quella svolta dal sostegno centrale che si utilizza per costruire un arco, sostegno che verrà rimosso a costruzione finita. Nel suo complesso, questo processo di autoeliminazione, che ha gli apparenti connotati di un suicidio di massa, si verifica perché devono essere eliminate tutte le cellule che occupano spazi e consumano l’energia che deve rimanere a disposizione di quelle utili che hanno formato l’intricata rete di connessioni che caratterizza il cervello di un’animale adulto. Ricordiamo che il nostro cervello, pur costituendo l’1,5% del peso corporeo, consuma il 15% dell’intero fabbisogno energetico. La presenza di un vasto numero di elementi cellulari anomali costituirebbe un inutile e dannoso dispendio energetico e complicherebbe ulteriormente l’architettura cerebrale. Altri esempi, forniti dagli studi sullo sviluppo di un organismo, riguardano la delezione di strutture non più necessarie. La metamorfosi del girino in una rana adulta prevede la distruzione della coda e di gran parte dell’intestino; le cellule che formano queste due strutture muoiono per a. e dei loro resti, rapidamente raccolti dalle cellule fagocitarie, non rimane traccia. La metamorfosi è ancora più marcata negli insetti, nei quali molte cellule delle larve vengono distrutte e quelle che diventano adulte vanno incontro a differenziazione e metamorfosi. Anche dopo la nascita, durante l’intero arco dell’esistenza, le cellule di un individuo adulto vanno costantemente incontro a morte fisiologica che deve essere bilanciata dalla proliferazione cellulare per mantenere l’omeostasi (➔). Il periodico e fisiologico rinnovamento dei tessuti si avvale dell’a. per l’eliminazione, per es., delle cellule usurate degli strati superficiali degli epiteli che rivestono le pareti dell’intestino. In questi tessuti la proliferazione delle cellule negli strati profondi procede alla stesso ritmo della morte delle cellule ormai senescenti degli strati superficiali. Come accennato, i due processi (proliferazione e morte cellulare) si devono bilanciare in ogni tessuto e in ogni momento della vita dell’individuo, poiché un loro squilibrio può causare una riduzione o un aumento del numero di cellule e, in un caso o nell’altro, la funzione del tessuto sarebbe compromessa.

Apoptosi e malattie neurodegenerative

Il continuo processo di rinnovamento che caratterizza i diversi tessuti non si verifica nel sistema nervoso, la cui dotazione di neuroni non è sostanzialmente modificabile. La replicazione dei neuroni implicherebbe infatti un’alterazione dei collegamenti nervosi stabiliti in precedenza. Ogni neurone per potersi dividere, allo scopo di sostituire cellule difettose, dovrebbe interrompere i contatti con le altre cellule nervose, modificando così i circuiti che contribuisce a formare e su cui si basano le nostre passate esperienze, le nostre memorie o, anche più semplicemente, gli schemi motori che ci permettono di eseguire in maniera fine il movimento di una parte qualsiasi del nostro corpo. Ne consegue che il controllo del meccanismo che regola la distruzione delle cellule nervose è, pertanto, ancora più importante, perché un suo cattivo funzionamento può provocare danni irreparabili. Infatti, altrettanto devastante è la situazione di un cervello che perde i suoi neuroni per degenerazione e morte, causando interruzioni nelle reti nervose fino a scomparsa delle stesse. Fino a che la perdita è limitata e distribuita in tutti i distretti, come si verifica nel corso dell’invecchiamento, la diminuzione dei neuroni è compensata dalla plasticità di cui sono dotati i circuiti neuronali. Ma se la perdita diviene imponente e colpisce particolari distretti, come quelli che presiedono alla memoria (➔ cervello, struttura e funzione), allora il fenomeno acquista le caratteristiche della demenza (come nella malattia di Alzheimer e nella aterosclerosi); se vengono colpiti i distretti che presiedono al controllo dei movimenti, si possono manifestare il morbo di Parkinson, la malattia di Huntington o la paralisi progressiva della sclerosi laterale amiotrofica. Nonostante queste malattie siano dovute a cause diverse, il meccanismo che conduce a morte le cellule nervose è sostanzialmente simile in un vasto numero di malattie neurodegenerative. Dato che nel periodo adulto la sopravvivenza dei neuroni dipende dall’espressione di geni antiapoptotici come Bcl-2 (➔), si è ipotizzato che il sistema nervoso sia un tessuto particolarmente vulnerabile ai difetti dell’apoptosi. Tale ipotesi è avvalorata da numerose evidenze sperimentali che documentano un coinvolgimento delle caspasi, enzimi che svolgono un ruolo centrale nella progressione di diverse malattie neurologiche. Non è ancora chiaro, tuttavia, cosa scateni l’attivazione delle caspasi e di altri sistemi enzimatici nella maggior parte di questi disturbi.

Morte cellulare dopo un ictus. L’ictus è una lesione di una parte del cervello provocata dall’interruzione dell’apporto di sangue per occlusione o rottura di un vaso sanguigno. Ciò provoca morte delle cellule nervose sia per necrosi sia per apoptosi. Più esattamente, sono soggette a necrosi le cellule della parte centrale della lesione, quella in cui l’ipossia, cioè la riduzione di ossigeno e quindi di energia, è più marcata, mentre le cellule della zona limitrofa (chiamata zona penombra), nutrite da vasi collaterali, sopravvivono inizialmente al danno. Con il tempo, comunque, queste cellule raggiungono un livello critico di deficit energetico che porta all’attivazione delle caspasi e quindi alla morte per apoptosi. L’ictus infatti è stata la prima malattia neurologica in cui è stata documentata l’attivazione dell’insieme degli enzimi denominati caspasi. Nei ratti, l’inibizione delle caspasi limita la morte dei neuroni e i deficit di funzione conseguenti a un danno ischemico indotto sperimentalmente. Inoltre, i topi che non esprimono alcuni tipi di caspasi (1 o 11) sono più protetti dall’ischemia rispetto ai topi normali, verosimilmente perché il blocco dell’a. aumenta la sopravvivenza delle cellule della zona di penombra.

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Cause genetiche e istochimiche. La causa della morte cellulare nelle malattie neurologiche croniche è per lo più sconosciuta; una piccola percentuale è legata a mutazione di uno o più geni. La mutazione genetica produce una proteina con funzioni alterate, deleterie per le cellule portatrici che non riescono più a eliminare quella proteina per mezzo di organelli specializzati (lisosomi e proteosomi), che in condizioni normali provvedono alla sua distruzione. Le varie malattie neurodegenerative (➔ neurodegenerazione) sono caratterizzate da alterazioni tissutali specifiche, legate alle diverse popolazioni neuronali colpite dalla patologia; esse presentano tuttavia tratti molecolari comuni: il principale è l’accumulo progressivo, nelle aree colpite, di aggregati proteici, principalmente costituiti da una singola proteina o da forme modificate di questa. La particolare proteina coinvolta contribuisce, a sua volta, a danneggiare i neuroni. Anche se non è ancora chiaro come questo meccanismo di morte possa innescarsi nel corso della vita adulta, di queste malattie sono comunque note le proteine responsabili del danno: la proteina tau e i peptidi beta-amiloidi nel morbo di Alzheimer, la sinucleina nel morbo di Parkinson, la proteina SOD 1 nella sclerosi laterale amiotrofica e l’huntigtintina nel morbo di Huntington.

Pietro Calissano, Nadia Canu

I tumori come conseguenza del fallimento dell’apoptosi
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Pietro Calissano
Nadia Canu

I tumori come conseguenza del fallimento dell’apoptosi

Il tumore è una massa in accrescimento originata da una singola cellula, attraverso un processo di riproduzione alterato. Alla base dell’insorgenza del tumore ci sono mutazioni dei geni che regolano l’accrescimento, la riproduzione e la morte della cellula secondo scadenze definite per ogni tipo cellulare. La scoperta dell’apoptosi ha fornito nuove chiavi di interpretazione e di indagine sui possibili meccanismi alla base dello sviluppo, progressione e resistenza alla terapia dei tumori. Si ipotizza che a causa del malfunzionamento dei meccanismi di riparazione del DNA, le cellule siano più inclini ad accumulare mutazioni e riarrangiamenti del DNA stesso: tutto ciò può confluire nell’attivazione di un oncogene (gene alterato che causa proliferazione incontrollata delle cellule) o nella disattivazione di un gene soppressore (gene che inibisce la crescita cellulare). La cellula acquisisce così un potenziale replicativo illimitato, invade e colonizza altri tessuti, diviene autosufficiente per quanto riguarda i segnali di crescita e insensibile ai fisiologici meccanismi di controllo cellulare: diviene cioè resistente all’apoptosi.

Cellule cancerose e antiapoptosi

Le mutazioni da cui le cellule cancerose possono trarre vantaggio sono quelle che producono una riduzione dei geni proapoptotici o a un aumento di quelli antiapoptotici. In molti tumori è aumentata la funzione dei fattori antiapoptotici come Bcl-2 (→), mentre la funzione dei geni proapoptotici come Bax e Bak è persa. Quando si verifica un danno al DNA, si attiva la proteina p53, un fattore di trascrizione che si lega al DNA inducendo l’espressione di vari geni coinvolti nell’apoptosi, e in partic. di alcuni recettori di morte (recettori di membrana che in presenza di certi ligandi inducono l’apoptosi), di alcuni membri proapoptotici della famiglia di Bcl-2 (come Bax, Puma, Noxa) o di alcuni fattori adattatori come la proteina Apaf-1 (fattore di attivazione delle proteasi apoptotiche). La proteina p53 può intervenire attraverso due differenti vie: arrestare il ciclo cellulare o indurre apoptosi. Il blocco del ciclo cellulare consente alla cellula di esprimere i geni che intervengono nella riparazione del DNA, e si evita in questo modo che mutazioni potenzialmente dannose possano essere ereditate dalle cellule figlie. Se il danno al DNA è irrimediabile, o se le cellule proliferano in maniera aberrante, p53 scatena il suicidio cellulare. Ricordiamo che la maggior parte delle mutazioni che colpiscono p53 riguardano la porzione della proteina che lega il DNA e quindi la sua capacità di attivare i geni coinvolti nell’apoptosi. Se p53 è difettosa o insufficiente, le cellule con il DNA danneggiato sopravvivono e proliferano impropriamente, predisponendosi alla trasformazione. La coesistenza di due anomalie sarebbe quindi alla base della genesi del tumore. Il tumore è un’entità formata da cellule soggette non solo divisioni incontrollate, ma divenute anche immortali e come tali in grado di generare cellule figlie immortali. Se la funzione di Bcl-2 è quella di rendere immortali le cellule, chi governa la loro proliferazione? In questi tumori c’è anche una produzione abnorme di c-Myc, un oncogene che favorisce la proliferazione delle cellule. La repressione del suicidio cellulare precederebbe la proliferazione incontrollata delle cellule e ciò chiarirebbe perché molte cellule precancerose rimangono dormienti per molti anni prima di esplodere e invadere le cellule vicine. Ciò, spiegherebbe anche perché molti oncogeni inducono proliferazione cellulare solo in ambienti ricchi di segnali di sopravvivenza. Se i segnali di sopravvivenza sono bassi, l’attivazione di un oncogene come c-Myc viene avvertito dalla cellula come un pericolo, a cui si fa fronte scatenando il suicidio cellulare, utilizzando cioè la proteina p53.

Implicazioni cliniche del deficit di apoptosi nei tumori

Alcuni difetti del processo apototico possono spiegare due gravi complicazione dei tumori: lo sviluppo di metastasi e la resistenza al trattamento radiofarmacologico. Le cellule che risiedono in un dato territorio non tollerano cellule che provengono da altri distretti: per es., una cellula della pelle non potrà mai essere accettata da una popolazione di cellule epatiche e comunque non troverebbe, nel fegato, i segnali di sopravvivenza che derivano dal proprio ambiente naturale. Il suo destino è pertanto il suicidio. Le cellule metastatiche riescono a sfuggire ai normali meccanismi di controllo geografico del territorio. Esse arrivano a invadere altri territori, dove si stabilizzano, si moltiplicano e danno origine a una colonia che progressivamente sostituisce la popolazione autoctona. Questo processo è guidato dalla stessa cellula cancerosa, che non solo è insensibile ai segnali di morte inviati dalle cellule del sistema immunitario (devolute alla rimozione di entità estranee), ma interviene direttamente nella loro eliminazione fornendo loro lo strumento per attuare il suicidio. La maggior parte dei chemioterapici che vengono utilizzati per la cura dei tumori agiscono non attraverso la distruzione delle cellule cancerose ma scatenandone il suicidio. Sono farmaci che danneggiano il DNA e che provocano mutazioni genetiche; grazie a questa loro proprietà essi provocano l’attivazione di p53 o di qualche altro gene soppressore dei tumori che scatena il suicidio della cellula neoplastica. Tuttavia è possibile che i farmaci inducano altre mutazioni che rendono le cellule neoplastiche resistenti alla radioterapia o alla chemioterapia. Questa resistenza alla terapia indotta da farmaci che danneggiano il DNA può presentarsi anche nel caso in cui si abbia mutazione di qualche componente della macchina apoptotica, utilizzato anche quando si attiva l’apoptosi indotta dal danno al DNA. Per es., se un dato tumore presenta una mutazione a carico di Bax, è possibile che l’induzione di p53, dovuta al DNA danneggiato dai chemioterapici, non sia sufficiente a scatenare il suicidio.

Pietro Calissano, Nadia Canu

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